

L a vita culturale nella città di Novouralsk, situata nella parte centrale degli Urali, è una delle più appaganti della sua area. Le sue cinque biblioteche, delle quali due interamente dedicate ai bambini e ai giovani, sono considerate le migliori della zona (e, secondo i cittadini, della Russia); la Biblioteca Centrale Pubblica, all’avanguardia per quanto riguarda l’informatizzazione e le dotazioni audiovisive, è un punto di riferimento per le attività culturali e riunisce i cittadini, che vi organizzano centinaia di eventi e iniziative ogni anno tra conferenze, concorsi, mostre, concerti e percorsi educativi. La città, oltre ai due cinema e al museo storico dell’area, ospita un parco divertimenti, un teatro dell’operetta molto rinomato nella regione e il teatro delle marionette “Skaz”, che l’anno scorso ha festeggiato i sessant’anni. Anche nello sport Novouralsk non se la cava male, con un campo da hockey indoor (convertibile in un’area concerti), stazioni sciistiche, piscine e via discorrendo.
Potrà sembrare un dépliant turistico, ma nessun turista metterà mai ufficialmente piede a Novouralsk. Anche per i russi residenti altrove visitare la città è una questione tutt’altro che banale. Il regime di ammissione nella città è regolato dalla legge federale russa: l’ingresso e il soggiorno sono riservati ai residenti, ai loro parenti stretti, a chi possiede delle proprietà nel territorio urbano, o a chi vi si debba recare su invito per motivi di lavoro o altre necessità sociali o culturali. In passato, vigevano restrizioni molto severe anche nei confronti dei residenti che volessero uscire dalla città.
Novouralsk è un esempio di città chiusa, quelle che in Russia vengono chiamate ZATO (letteralmente “formazioni amministrativo-territoriali chiuse”). Inizialmente, il suo nome ufficiale era Sverdlovsk-44, dove il numero indicava le ultime due cifre del codice postale: fino al 1994, Novouralsk non compariva sulle mappe e per indicarla si forniva il nome della città più vicina, in questo caso Sverdlovsk, seguito appunto dalla parte finale del codice postale. Quindi è stata a lungo non solo città chiusa, ma anche segreta. E come lei decine di altre città sul territorio sovietico (ma non solo). L’esempio forse più conosciuto di città chiusa è Ozyorsk, la cui storia è stata resa nota nel 2016 grazie al documentario City 40 (dal suo nome precedente, Chelyabinsk-40).
Una città può essere chiusa per vari motivi e con diverse restrizioni. Anche la Mecca, tecnicamente parlando, è un esempio particolare di città chiusa in quanto l’accesso è proibito a coloro che non possono dimostrare di essere fedeli. Ma in generale, si tratta di località costruite ad hoc, spesso da zero, per servire impianti strategici dal punto di vista militare, industriale o scientifico, oppure di città situate in aree di confine che vengono tenute chiuse per motivi di sicurezza (come Dikson, il porto più settentrionale della Russia).
Sia Novouralsk, sia Ozyorsk servono industrie strategiche. Gli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale hanno testimoniato un pullulare nascosto di città di questo tipo, spuntate in luoghi remoti, tirate su in pochi mesi (in URSS, col lavoro dei prigionieri dei gulag); dopo la fine della Guerra Fredda, molte hanno attraversato un periodo di decadenza e declino demografico, anche se alcune sono in leggera ripresa. Novouralsk fu sede di uno dei primi impianti per la produzione di uranio arricchito a scopo bellico, che divenne operativo nel 1949; oggi la città è sede del Complesso Elettrochimico degli Urali (UEKhK), che produce uranio arricchito a bassa concentrazione per centrali nucleari e reattori a scopo di ricerca. Ozyorsk invece sorge nei pressi dello stabilimento di Mayak, costruito in gran fretta immediatamente dopo il conflitto mondiale, completando cinque reattori nucleari adibiti alla produzione di plutonio a scopi bellici. Mayak è un’azienda di riferimento per il riprocessamento di grandi quantità di combustibile nucleare esausto proveniente dalle centrali nucleari, col quale vengono prodotti apparecchi per utilizzo ospedaliero (radioterapia e diagnostica) e sorgenti nucleari a scopo di ricerca e sperimentazione.
Oggi il governo russo ha riconosciuto la presenza di 44 ZATO, popolate da circa un milione e mezzo di abitanti; si pensa che ne esistano un’altra quindicina che sono ancora tenute segrete. Al di fuori del territorio ex-sovietico attualmente troviamo pochi esempi di città chiuse, e nessuna ai livelli delle ZATO. Una volta, ai confini del deserto del Gobi esisteva una misteriosa “città nucleare” cinese, indicata con il numero 404; tuttora non indicata sulle mappe, era sede degli impianti per la prima bomba atomica cinese tra gli anni ’50 e ‘60. Una volta finita la corsa al nucleare, dopo decenni di declino, la città fu dichiarata non sicura per motivi di dissesto geologico e fu sgomberata dalle autorità a partire dal 2005, lasciando solo pochi anziani a passarvi gli ultimi anni. La documentazione ufficiale è scarsa, e in rete si trovano solo alcune testimonianze di ex-residenti.
L’ultimo esempio di città chiusa rimasto nel mondo occidentale è Mercury, in Nevada; reduce dallo sviluppo atomico del dopoguerra, è l’ultima rimasta formalmente chiusa dopo che altre città coinvolte nel progetto Manhattan (Los Alamos, Oak Ridge, Dugway) sono state rese accessibili al pubblico. La popolazione di Mercury aveva raggiunto le diecimila unità negli anni Sessanta, mentre oggi fluttua attorno alle poche centinaia, e nessuno vi risiede in modo permanente; il personale autorizzato si ferma al massimo qualche giorno per lavorare a dei progetti. Mercury è il principale punto d’accesso al Nevada Test Site, una volta terreno per i test nucleari, che oggi serve soprattutto per lo stoccaggio di scorie a bassa radioattività e per verificare il funzionamento del vecchio arsenale nucleare statunitense. Secondo i testimoni, ormai sembra una capsula del tempo degli anni Sessanta, e da un paio di decenni è fra le destinazioni del cosiddetto “turismo atomico” statunitense.
Gli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale hanno testimoniato un pullulare nascosto di città di questo tipo, spuntate in luoghi remoti, costruite in pochi mesi.
Le città chiuse condividono alcune caratteristiche con le gated communities, complessi residenziali isolati con un numero variabile di servizi al loro interno, in cui si può accedere o transitare solo se residenti o se invitati da un residente. Nei casi più estremi le gated communities possono arrivare a sostituirsi allo stato nella vigilanza, nella costruzione delle infrastrutture e nei servizi essenziali, istituendo tasse speciali per la gestione separata dei beni comuni. La gated communities, però, nascono e vengono regolate per l’iniziativa congiunta di gruppi privati come reazione di sfiducia nei confronti delle politiche del proprio paese ospite, e generalmente si sviluppano in presenza di forti disuguaglianze sociali. Le ZATO sovietiche e le città chiuse di altre nazioni sono, invece, un prodotto diretto delle politiche di Stato in tema di ricerca e sviluppo, e sono profondamente permeate di spirito nazionalistico. Entrambe comunque rappresentano modelli estremi di protezionismo e isolazionismo, una tendenza che sta prendendo piede nella politica occidentale. E in entrambi i casi, vuoi come premessa o come prevedibile effetto collaterale, offrono livelli elevati di sicurezza, di qualità dei servizi e di cura delle infrastrutture nel proprio territorio. Ai residenti delle città chiuse, inoltre, non viene richiesto nessuno sforzo economico né organizzativo supplementare per la gestione del bene comune: è lo Stato a prendersi cura di loro.
Per chi vive sulla propria pelle le instabilità portate dalla crisi economica e dai flussi migratori, nonché da una percezione (corretta o meno) di un aumento della criminalità, può sembrare un sogno vivere in una città che è sinonimo di sicurezza, protezione ed esclusività, costruita su un modello sovietico che cerca di organizzare la società secondo un alto livello di “purezza”. I minori stanno fuori casa senza supervisione, non esistono coprifuochi; persone come mendicanti, ex carcerati e con-men di passaggio non hanno possibilità di accedere. “A sei anni sono andato in un’altra città con la mia famiglia” racconta Konstantin, un residente di Ozyorsk. “Fu allora che vidi per la prima volta una donna che chiedeva l’elemosina per la strada. Per me fu una specie di shock”. Gli unici sconosciuti che possono mettere piede nelle città chiuse sono persone altamente formate e selezionate, il cui passato è stato oggetto di attento scrutinio e le cui attività nella città sono monitorate da vicino.
Lo stesso concetto di difficoltà economiche e materiali è abbastanza estraneo. Nonostante la decadenza instauratasi dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il livello dei servizi all’interno delle ZATO è ancora superiore rispetto al resto del paese. Ai tempi della Guerra Fredda, in una città chiusa si potevano trovare beni materiali e immateriali (dalla frutta fresca alle attività ricreative e culturali) non reperibili sul resto del territorio russo, nemmeno nella capitale. La qualità dell’istruzione è presa, anche oggi, molto sul serio: molte ZATO offrono un percorso formativo completo, dagli asili all’università. E oltre all’istruzione e alla protezione, lo Stato garantisce anche una casa, un lavoro ben pagato se rapportato al costo della vita e assistenza sanitaria gratuita, oltre a soggiorni in posti esclusivi per i lavoratori degli impianti strategici. Il fisico sovietico Lev Altshuler, che lavorò ad Arzamas-16 (oggi nota come Sarov) per la costruzione della bomba all’idrogeno, dichiarava: “Scienziati e ingegneri vivevano molto bene. Ai ricercatori era corrisposto uno stipendio molto alto per quei tempi. Le nostre famiglie non avevano bisogno di nulla. La fornitura di cibo e altri beni era molto diversa [dal resto del Paese]. Insomma, tutti i problemi materiali erano eliminati”.
In questo contesto, il muro di cemento sovrastato dal filo spinato e presidiato da guardie armate non è visto come una limitazione alla libertà o ai diritti, ma come un elemento imprescindibile di protezione. Ovviamente, i privilegi delle città chiuse non sono mai stati veramente gratuiti, e questo i residenti lo sanno bene, anche se a tutt’oggi rifiutano di parlarne; per evitare problemi, ma anche perché nella loro mentalità è sempre stato qualcosa di accettabile. Ai tempi d’oro del nucleare, non solo la libertà di movimento era limitata, ma era fatto divieto in modo più assoluto ai cittadini di menzionare da dove venivano; il governo si accertava della lealtà dei cittadini tramite spie ed eventuali delatori venivano puniti molto severamente. E con il segreto totale sulle attività di una città chiusa, venivano anche insabbiati i problemi di salute e i decessi causati da incidenti militari e nucleari.
L’esempio emblematico della situazione è proprio lo stabilimento di Mayak, che nel 1957 fu sede del terzo incidente più grave mai occorso nella storia del nucleare. Il fallout conseguente al rilascio di materiali radioattivi nell’atmosfera arrivò a contaminare un’area di circa 20.000 chilometri quadrati a nord-est dello stabilimento, ma dovette passare una settimana prima che le autorità, senza dare alcuna spiegazione, cominciassero a evacuare i residenti di Ozyorsk, e i primi dettagli apparvero sulla stampa occidentale solo sei mesi dopo. L’incidente venne ufficialmente reso pubblico solo nel 1989 e fino al 1994 fu comunque chiamato “disastro di Kyshtym”, dal nome della città più vicina in linea d’area, dato che né Mayak, né Ozyorsk esistevano sulla carta. Si stima che dalla sua apertura, nel solo impianto di Mayak siano avvenuti circa 170 incidenti ed episodi di contaminazione, alcuni dei quali non sono mai stati confermati dalle autorità sovietiche e russe. Tra questi ultimi vi è probabilmente anche l’evento che lo scorso settembre ha causato la diffusione di una nube radioattiva in Europa, e per il quale l’agenzia atomica russa (Rosatom), dopo aver formalmente svolto un’indagine interna, ha negato qualunque coinvolgimento.
Alcune stime parlano di circa 8.000 vittime causate dal fallout radioattivo dell’incidente di Kyshtym, ma dato che la popolazione di Ozyorsk è sempre stata esposta a livelli di radioattività nocivi per la salute, è difficile distinguere quali vittime siano direttamente imputabili al singolo incidente. Uno dei quattro bellissimi laghi che circonda la città, il Karachay, è chiamato “il lago del plutonio” per la consuetudine, da parte dell’impianto, di scaricarvi sistematicamente rifiuti radioattivi. Nei decenni passati, gli standard di sicurezza nella centrale erano di molto inferiori rispetto a oggi e non era raro maneggiare radionuclidi senza alcuna protezione; oggi, i rischi derivano soprattutto dall’obsolescenza di diversi reattori, e dalle politiche della Rosatom che impediscono qualunque controllo esterno.
Per coloro la cui salute è stata danneggiata dall’esposizione alle radiazioni, è difficile ottenere trattamenti medici specialistici e risarcimenti; ai malati viene semplicemente detto che la propria condizione non è causata dalla radioattività. Come se non bastasse, il film City 40 racconta che per la burocrazia russa i residenti delle città chiuse nati prima del 1994 si trovano in una sorta di limbo legale, poiché dagli archivi non risultano nati nella loro regione. Diventa dunque complicato dimostrare la propria relazione con eventuali contaminazioni radioattive avvenute in passato nell’area.
Eppure, con tutto ciò, l’aspettativa di vita nelle ZATO è sempre rimasta al di sopra della media nazionale: evidentemente, la gratuità dei servizi di base e la loro qualità riescono comunque a fare la differenza. I loro abitanti considerano l’appartenenza a una città chiusa come un forte motivo di orgoglio nazionale; si sentono fieri della fiducia che il governo ripone in loro e accettano gli effetti collaterali come parte di questo privilegio. Infatti, come si legge nel libro di Kate Brown Plutopia, nel 1989 e nel 1999, ai residenti di Ozyorsk il governo domandò ufficialmente, tramite due sondaggi, se avrebbero preferito rinunciare allo status di ZATO: i cittadini scelsero di mantenere la città chiusa.