L’ aria fredda di inizio febbraio che riempiva lo stadio a “nido d’uccello” era uno specchio perfetto del clima in cui i Giochi olimpici invernali di Pechino erano stati organizzati. Minacce di boicottaggio, crescita dei contagi di COVID-19, accuse contro il Comitato Olimpico. L’avvicinamento alla cerimonia di apertura non era stato affatto semplice per la Cina, che sperava invece di sfruttare le olimpiadi come una vetrina per presentarsi al mondo. Ma alla fine la data prestabilita è arrivata e il 4 febbraio Zhang Yimou ha levato il sipario sullo spettacolo dell’inaugurazione.
In mezzo alla tribuna d’onore dove osservavano la cerimonia i rappresentanti dei paesi partecipanti si era seduto anche Hwang Hee, l’allora ministro della cultura, del turismo e dello sport della Corea del Sud. In quanto ambasciatore del proprio paese Hwang aveva deciso di sfoggiare per l’occasione il proprio hanbok, ossia l’abito nazionale coreano che è uno dei tratti culturali più duraturi e identitari della Corea del Sud contemporanea. L’hanbok (한복/韓服 che in coreano significa semplicemente “abito coreano”) indossato da Hwang alla cerimonia di apertura non è dissimile da quelli che molti sudcoreani usano in occasioni di festa come matrimoni, capodanni lunari o altre celebrazioni socialmente importanti. Il capo tradizionale è diventato oltretutto un inconfondibile elemento dello stile coreano anche per il più vasto pubblico internazionale da quando la cultura coreana è diventata un fenomeno globale.
Seduto in platea, Hwang assisteva alla cerimonia di apertura vestito con suo hanbok rosso mattone. Quando a Pechino si sono spente le luci, la direzione artistica ha messo in scena uno spettacolo notevole per presentare al mondo la Cina, il suo sviluppo e la sua cultura. Ma la cerimonia non si rivolgeva solo al pubblico straniero che la guardava da casa, anzi, forse a maggior ragione lo spettacolo doveva esprimere il grande senso di orgoglio nazionale dei cinesi: “questi siamo noi, questo è ciò che siamo in grado di compiere” sembrava essere il messaggio. Dopo 15 minuti dall’inizio della cerimonia è arrivato il momento di issare la bandiera della Repubblica Popolare Cinese e gli organizzatori avevano pianificato un’entrata accompagnata da circa un centinaio di persone, ognuna rappresentativa di un pezzetto della società cinese. Tra questi, anche 55 individui delle minoranze etniche ufficialmente riconosciute nel paese. La coreografia, fortemente simbolica, prevedeva che questo gruppo di persone si passasse di mano in mano la bandiera cinese prima di consegnarla a un gruppo di ufficiali per issarla al centro dello stadio.
In quel gruppo però Hwang e moltissimi telespettatori sudcoreani hanno notato qualcosa che non andava. Grazie alle riprese della regia, anche da casa è stato ben visibile l’hanbok bianco e rosa di una donna sino-coreana che riceveva e passava oltre la bandiera rossa con le stelle della Repubblica Popolare. Nonostante gli 1,7 milioni di cittadini cinesi di etnia coreana siano uno dei 55 gruppi etnici minoritari riconosciuti da Pechino, la presenza del vestito nazionale della Corea del Sud in uno spettacolo dalle forti tinte nazionaliste cinesi è stato troppo per molti cittadini sudcoreani.
Espressione di “coreanità”
L’identità coreana è indissolubilmente legata all’hanbok che, in quanto tale, appartiene a tutti i coreani al di là di ogni frontiera. È certamente il vestito nazionale della Corea del Sud, ma lo è anche della Corea del Nord (come si può vedere nei famosi telegiornali trasmessi da Pyongyang) e appartiene in ugual misura alla diaspora coreana in giro per il mondo. Anche alla minoranza coreana nativa delle regioni del nord-est della Cina.
L’identità coreana è indissolubilmente legata all’hanbok che, in quanto tale, appartiene a tutti i coreani al di là di ogni frontiera.
L’abito porta con sé un forte valore identitario, a tal punto che fino alla fine del XIX secolo la stessa parola “hanbok” non esisteva dato che la sua pressoché trasversale diffusione in Corea ne rendeva superflua la definizione. Il vestito tradizionale, sebbene la sua diffusione stia man mano declinando, rimane ancor oggi uno dei simboli tipici di tutte le principali festività coreane. Per questo motivo, l’hanbok ha un valore particolare in Corea del Sud. La democratizzazione del regime politico di Seul negli anni ’80-90 ha finalmente aperto le porte alla rielaborazione dei traumi legati alla colonizzazione giapponese della penisola avvenuta tra il 1910 e il 1945. Il dominio imperiale, la cancellazione culturale e la progressiva assimilazione da parte di Tokyo hanno lasciato un marchio indelebile nella coscienza dei sudcoreani, che per decenni durante la dittatura post-bellica non hanno potuto riflettere collettivamente sulla propria esperienza di vittima del colonialismo giapponese. L’attaccamento ai tradizionali simboli culturali come l’hanbok in un paese post-coloniale come la Corea è quindi un atteggiamento che mescola al senso di appartenenza nazionale anche una certa dose di riscatto storico e una domanda di giustizia per gli abusi subiti. Basti pensare alle donne di conforto, quelle ragazze coreane costrette a prostituirsi nei bordelli ad uso dell’esercito imperiale giapponese, che sono l’esempio più noto della vittimizzazione della Corea durante il dominio coloniale: nelle statue pubbliche che ne commemorano la memoria, queste donne sono quasi sempre raffigurate con un hanbok addosso.
Oltre a essere il vestito tradizionale coreano, l’hanbok negli ultimi 5 anni è diventato anche una vera e propria moda in Corea del Sud. Il motivo non è forse poi così misterioso. Da tempo il paese è in preda alla mania del newtro, un fenomeno che prende il nome dalla crasi tra le parole new e retro e che non lascia molto spazio all’immaginazione su cosa possa significare. L’esplosione della cultura newtro negli ultimi anni ha portato i sudcoreani a riscoprire moltissimi prodotti della tradizione culturale coreana, riadattandoli però in chiave moderna. Questo fenomeno di riattualizzazione e aggiornamento delle tradizioni culturali ha investito ovviamente anche l’industria dell’abbigliamento e l’hanbok ne è stato il primo a beneficiare. Non solo le grandi firme della moda internazionale hanno iniziato a prestare attenzione al taglio tradizionale, ma nel paese si è verificata una fioritura di nuovi piccoli marchi di abbigliamento che stanno ripensando il posto del vestito tradizionale nella vita quotidiana della Corea del Sud. Negli ultimi anni il ministero della cultura, del turismo e dello sport ha sostenuto una maggior diffusione dell’hanbok, organizzando eventi di promozione e sensibilizzando la popolazione verso il vestito tradizionale. Numerosi stilisti stanno partecipando al progetto, coscienti della necessità di rendere l’abito più adatto allo stile di vita contemporaneo delle grandi metropoli sudcoreane.
Hwang Sun-tae ha partecipato a una esibizione tenutasi a Seul lo scorso febbraio. Parlando al Korea Herald, ha detto “creiamo vestiti da lavoro con un’enfasi sugli aspetti pratici, pur esprimendo allo stesso tempo un’immagine coreana utilizzando i motivi, i colori e i simboli caratteristici degli hanbok”. Il ministero ha anche avviato una collaborazione con alcune scuole per promuovere il vestito come uniforme scolastica. I tagli più moderni e audaci invece sono stati popolarizzati a livello mondiale dai gruppi di K-pop come i BTS o le Blackpink, sull’onda della diffusione globale dei prodotti culturali sudcoreani.
Che siano le sue variegate versioni contemporanee o quella tradizionale, per molti sudcoreani l’hanbok rimane comunque un veicolo per rivivere la propria “coreanità”. Tanto che a marzo la Cultural Heritage Administration della Corea del Sud ha deciso di designare l’abito tradizionale come parte del patrimonio culturale intangibile del paese, in quanto espressione dell’identità e dei valori della Corea.
La Cina e la cultura coreana
Per molti sudcoreani, quell’hanbok bianco e rosa alla cerimonia di apertura era il segnale che la Cina aveva passato il segno. Nel giro di poche ore, i social media del paese si sono riempiti dei commenti inferociti di utenti che accusavano Pechino di appropriazione culturale e di voler “rubare” l’abito tradizionale.
Gli utenti cinesi e sudcoreani si sono scontrati con sempre maggior frequenza sulla cinesità/coreanità di alcuni articoli culturali entrati nell’immaginario collettivo grazie alla rapida diffusione della cosiddetta “onda coreana”.
Seo Kyoung-duk è un professore e attivista sudcoreano conosciuto nel paese grazie alle sue battaglie a difesa dell’identità culturale coreana e contro il revisionismo storico giapponese. Dopo la cerimonia olimpica Seo ha pubblicato un post su Instagram in cui diceva che “dobbiamo resistere all’appropriazione culturale della Cina” e che “dobbiamo proteggere la nostra storia e la nostra cultura”. Il post è diventato presto molto popolare. Anche il ministro Hwang Hee ha espresso in un’intervista da Pechino un punto di vista simile ma la sua intenzione di non procedere con una formale protesta diplomatica col governo cinese non è andata giù ad alcuni suoi concittadini, che hanno subito sporto denuncia contro il ministro all’ufficio del procuratore distrettuale di Seul accusandolo di inadempienza ai propri doveri. Nella ressa sui social anche l’account dell’ambasciata statunitense in Corea del Sud ha approfittato per salire sul carro del “dagli alla Cina”, col responsabile diplomatico Chris Del Corso che ha postato una propria foto su Twitter in cui vestiva l’hanbok sotto l’hashtag #OriginalHanbokFromKorea. A nulla sono servite le dichiarazioni dell’ambasciata cinese a Seul, secondo cui non ha senso parlare di appropriazione culturale visto che l’abito tradizionale appartiene tanto ai sudcoreani quanto ai coreani di Cina e che è un loro diritto volersene servire per rappresentarsi sul palcoscenico olimpico.
Lee So-young, una parlamentare del Partito Democratico (DPK), ha ricordato su Facebook che “non è la prima volta che la Cina presenta la cultura coreana come se fosse sua” e in effetti negli ultimi due anni i casi simili sono stati numerosi. Non è nemmeno la prima controversia riguardo l’hanbok. Nel novembre 2020 l’azienda di videogiochi cinese Paper Games ha deciso di chiudere il server sudcoreano del nuovo gioco di ruolo lanciato appena pochi giorni prima. A monte di tale decisione stava una diatriba nata online attorno ai commenti degli utenti cinesi: alcuni sostenevano infatti che l’hanbok acquistabile nel videogioco appartenesse in realtà alla cultura cinese poiché l’abito coreano deriverebbe dall’hanfu (汉服 cioè il vestito tradizionale della Cina premoderna dominata dagli Han, l’etnia maggioritaria del paese), mentre altri rivendicavano l’hanbok come cinese in quanto tipico della minoranza sino-coreana. Le accuse di sinocentrismo da parte degli utenti sudcoreani non hanno tardato ad arrivare. Di fronte allo scontro online, Paper Games ha pubblicato un annuncio nel quale si leggeva che “come azienda cinese, vogliamo ricordare che la nostra posizione è sempre solidale col nostro paese” e che avrebbe proceduto a cancellare tutti i commenti offensivi che negassero la cinesità dell’abito tradizionale coreano. Parallelamente, negli stessi giorni, il produttore televisivo cinese Yu Zheng ingaggiava sui social una battaglia simile con gli utenti sudcoreani riguardo l’origine cinese dell’hanbok.
Su internet non mancano i commentatori nazionalisti cinesi, pronti a reclamare come propri quegli elementi culturali che possano essere ricondotti o assimilabili anche solo superficialmente alla Cina. Il patriottismo cinese contemporaneo si esprime anche attraverso queste forme di appropriazione, come a dire che “tutto questo in fin dei conti è merito nostro”. Dal pansori, un genere musicale riconosciuto dall’UNESCO come patrimonio culturale intangibile della Corea del Sud, fino al gat e al manggeon, accessori tipici del vestiario premoderno della Corea, gli utenti cinesi e sudcoreani si sono scontrati con sempre maggior frequenza sulla cinesità/coreanità di alcuni articoli culturali entrati nell’immaginario collettivo grazie alla rapida diffusione della cosiddetta “onda coreana”.
Un esempio particolarmente importante riguarda il kimchi (김치), una pietanza a base di cavolo fermentato tipica della cucina coreana. Secondo alcune statistiche riportate da DW, più del 90% dei sudcoreani mangia kimchi almeno una volta al giorno mentre il 60% lo prende per colazione, pranzo e cena: in totale, la Corea del Sud ne consuma poco meno di 2 milioni di tonnellate all’anno. Insomma, se siete mai stati in un ristorante coreano, non ci sarà voluto molto prima di capire che il cavolo fermentato è la quintessenza della cucina coreana.
La sensibilità sudcoreana sul proprio piatto tradizionale è giustificata anche dalla crisi vissuta dall’industria del kimchi.
Eppure nemmeno il kimchi è rimasto avulso dall’ormai aperta guerra culturale in corso su internet tra gli utenti cinesi e quelli sudcoreani. A fine 2020, il giornale nazionalista cinese Global Times dava inizio a una disputa sulla paternità della pietanza che si è trascinata per alcuni mesi. A novembre l’Organizzazione Internazionale per la Standardizzazione (ISO) si era riunita per certificare il processo di produzione del paocai (un piatto a base di cavoli e verdure sottaceto tradizionale del Sichuan). La decisione però, secondo un articolo del quotidiano cinese, fissava uno “standard internazionale per l’industria del kimchi guidata dalla Cina”. Il Global Times è se vogliamo una stranezza del panorama mediatico cinese: non rappresenta un organo di stampa ufficiale del partito comunista, però dà voce alle tendenze nazionaliste in crescita nel paese alle quali non di rado il governo di Pechino tende a prestare attenzione. Non è chiaro quale fosse l’intento del quotidiano, dal momento che in mandarino per riferirsi al kimchi si usano gli stessi caratteri della parola paocai (泡菜), ed è possibile che il Global Times non avesse intenti volutamente provocatori. Questa ambiguità però, venendo da un noto megafono del nazionalismo cinese, non lasciava nessun margine di interpretazione per i sudcoreani.
I social coreani come Naver sono stati inondati di commenti al vetriolo da parte di utenti arrabbiatissimi. “Assurdo, che ladri di cultura!” diceva un utente, “la cultura tradizionale sudcoreana rischia di scomparire”, “temo che possano rubare anche elementi della cultura coreana non solo il kimchi”, “la Cina è il paese che ha creato più problemi per la Corea” dicevano altri commenti online. Il più eloquente forse era “ora sono sicuro di odiare più la Cina del Giappone”. Il quotidiano conservatore Chosun Ilbo ha parlato di “ultimo tentativo di dominazione mondiale”. Seo Kyoung-duk ha anche comprato un’intera pagina di pubblicità sul New York Times per promuovere il kimchi come un cibo iconico della Corea e della sua cultura. Pure le autorità sudcoreane si sono attivate dopo il commento del Global Times. In una dichiarazione rilasciata dal ministero dell’agricoltura Seul diceva di ritenere irresponsabile riportare la notizia della certificazione ISO del paocai (che peraltro esplicitamente escludeva il kimchi) senza differenziare i due piatti, aggiungendo poi che già nel 2001 la FAO aveva reso pubblica la codifica di come debba essere prodotto il kimchi. Oltretutto, a partire dal 2013 l’UNESCO riconosce il kimjang (김장 cioè il processo tradizionale di preparazione della pietanza tipica, normalmente svolto in gruppi) come parte del patrimonio culturale intangibile della Corea del Sud: “la pratica collettiva del kimjang riafferma l’identità coreana”, aveva detto l’agenzia dell’ONU.
La controversia però non si è esaurita lì. A gennaio gli utenti sudcoreani hanno avuto nuovi motivi per esprimere la propria frustrazione verso l’appropriazione culturale cinese. Nell’arco di pochi giorni, la youtuber Li Ziqi (nota per i suoi video culinari che rappresentano una vita rurale molto fotogenica e idealizzata) pubblicava un video in cui preparava quello che veniva presentato come “cibo cinese” ma che in molti invece hanno riconosciuto essere kimchi, mentre l’influencer sudcoreana Hamzy ha visto stracciato il contratto con la sua agenzia pubblicitaria cinese dopo che un suo like a un commento sull’appropriazione culturale cinese della cucina coreana e le sue asserzioni sulla coreanità del kimchi in una diretta hanno provocato la rabbia degli utenti cinesi.
La sensibilità sudcoreana sul proprio piatto tradizionale è però giustificata anche dal senso di crisi vissuto dall’industria del kimchi. Nonostante l’onnipresenza della pietanza nella cucina tipica, a partire dal 2009 Seul ne ha registrato una lunga serie di deficit commerciali, importandone più di quanto ne esportava. Il 99,9% del kimchi importato in Corea poi proviene proprio dalla Cina, dove molti produttori si sono spostati negli anni per far fronte alla competizione delle aziende cinesi che offrono un prodotto molto simile all’originale ma per un prezzo ben più basso. La competitività delle aziende cinesi va ricondotto anche alla revisione delle normative igienico-alimentari sulla carica batterica massima consentita, avvenuta circa un decennio fa, che hanno praticamente impedito le importazioni di cavolo fermentato dalla Corea del Sud: i produttori cinesi hanno quindi avuto notevole vantaggio commerciale rispetto alla competizione. Oltretutto, negli ultimi anni i tifoni e le calamità naturali hanno anche danneggiato severamente la produzione sudcoreana di kimchi, portando il prezzo dei vegetali ad aumentare anche di oltre il 60%. Nonostante l’anno scorso gli agricoltori sudcoreani abbiano ottenuto risultati migliori grazie alla ripresa delle esportazioni di cavolo fermentato e i consumatori abbiano in parte boicottato le importazioni cinesi, la competizione commerciale della Cina rinforza il senso di “minaccia culturale” provato dalla Corea del Sud davanti all’appropriazione del kimchi.
La politica dell’appropriazione culturale
Questa sensazione poi ha una demografia ben precisa. A causa della propria storia coloniale, il Giappone ha incarnato per generazioni di sudcoreani il ruolo di vera e propria bestia nera. Giusto per mettere in prospettiva: secondo un sondaggio di qualche anno fa, in una ipotetica guerra tra Corea del Nord e Giappone i sudcoreani preferirebbero di gran lunga sostenere Pyongyang piuttosto che Tokyo. Oggi però le cose stanno cambiando e, sebbene le fasce di età sopra i 40 anni continuino a ritenere il Giappone il proprio principale rivale, i 20-30enni tendono a veder più la Cina come la principale minaccia per il proprio paese. Secondo il Pew Research Center, tra i paesi sviluppati la Corea del Sud è l’unico in cui i giovani sono più ostili verso l’ingombrante vicino rispetto alle generazioni più anziane.
Per i giovani sudcoreani la Cina è una minaccia alla propria identità culturale e vedono nell’appropriazione cinese della propria cultura una nuova forma di imperialismo.
Per i giovani sudcoreani la Cina è una minaccia alla propria identità culturale, dice al Korea Times Joon Chang-yun della Seoul Women’s University. Queste generazioni infatti sono vissute in un mondo molto diverso rispetto ai loro genitori. Cresciuti in un’epoca di compiuta democratizzazione e benessere economico mentre la Corea del Sud saliva alla ribalta dell palcoscenico internazionale anche grazie al successo dei propri prodotti culturali (a chi non è stato consigliato da qualche amico un gruppo K-pop, un film o una serie TV sudcoreana?), i 20-30enni vedono nell’appropriazione cinese della propria cultura una nuova forma di imperialismo. Come dice Lucrezia Goldin di China Files, l’atteggiamento di proporsi come matrice originaria della tradizione coreana serve implicitamente ad affermare la superiorità culturale della Cina stessa.
Attribuendosi la paternità di alcuni elementi del successo globale della cultura coreana, la Cina mina le fondamenta ideali su cui i giovani sudcoreani hanno costruito la loro identità. Questo fenomeno si combina poi col cambiamento dell’immagine internazionale del paese, percepito sempre di più come una minaccia per le società libere e democratiche. L’esempio delle proteste a Hong Kong è stato una lezione per molti, ma già qualche anno prima la Corea del Sud aveva avuto un assaggio del potere coercitivo di Pechino. Nel 2017 Seul aveva deciso di schierare il sistema antimissile statunitense noto come THAAD sul proprio territorio per meglio difendersi da possibili attacchi del Nord. La Cina però, in ritorsione contro quella che riteneva essere una macchinazione USA per accerchiarla, ha imposto dure sanzioni contro l’economia sudcoreana in settori come il turismo e l’intrattenimento, e ancora oggi a Seul il risentimento per la coercizione cinese è palpabile. Appropriazione culturale e autoritarismo espansionista diventano quindi due facce della stessa medaglia agli occhi dei sudcoreani.
La formazione di questi sentimenti anti-cinesi non è stata senza conseguenze a livello politico e non è un caso se nelle ultime elezioni tenutesi a marzo i 20-30enni, una fascia di elettori che solo qualche anno fa era dominata dal DPK, si sono spostati verso destra. D’altronde in campagna elettorale i conservatori hanno fatto molto rumore parlando di Cina. Il candidato conservatore Yoon Suk-yeol (insediatosi come presidente lo scorso 10 maggio) non ha risparmiato le critiche al suo predecessore Moon Jae-in, accusando lui e il suo DPK di essere stati troppo compiacenti verso Pechino, e lui stesso ha espresso opinioni molto caustiche contro la Cina. Nel suo repertorio retorico sono entrate posizioni variegate: dall’opposizione al turismo medico dei cittadini cinesi, al sostegno per l’ampliamento del sistema THAAD, Yoon non ha perso occasione per mettere in mostra la sua retorica anti-cinese. Anche sul caso dell’hanbok olimpico era intervenuto, accusando la Cina di voler “soggiogare e incorporare la storia coreana”. Ora che i conservatori sono arrivati al governo, bisognerà vedere quanto questo spostamento della percezione del vicino cinese inciderà sulle politiche. Resta però un dato: se nel 2015 i sudcoreani che avevano una visione negativa della Cina erano il 37%, nel 2020 erano il 75%.
Cultura e politica sono inseparabili. Qualcosa si sta muovendo nella società della Corea del Sud e lo si può vedere in questi frammenti di guerra culturale, che emergono di tanto in tanto in occasioni sconnesse tra di loro ma che disegnano un quadro preciso della direzione verso cui le opinioni dei sudcoreani si stanno muovendo. D’altronde, quando a Pechino una compagnia sino-coreana di danza mise in scena uno spettacolo con indosso degli hanbok in occasione delle olimpiadi del 2008, non ci fu indignazione in Corea del Sud. Oggi è un’altra storia.