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l nuovo saggio di Roberto Ciccarelli, Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista (DeriveApprodi), è una storia delle idee, delle culture ed è anche una genealogia del presente, come i due precedenti Forza lavoro e Capitale disumano con i quali oggi forma una trilogia. Il suo libro conduce una spietata critica della ragione apocalittica che popola i nostri discorsi ed è stato pubblicato in un momento in cui alla pandemia del COVID e all’emergenza climatica si è aggiunta la guerra, le sue tragedie e tutti i suoi rischi mortali. All’elenco delle piaghe bibliche sembra mancare solo la morte dei primogeniti, le cavallette o l’acqua mutata in sangue. Una mutazione genetica delle mosche velenose, forse, è già in corso.
La prima reazione che ho avuto leggendo il tuo libro è stata: ma come si fa, in queste condizioni apocalittiche, a parlare di liberazione?
Mi sembra una reazione salutare. Da sola spiega la ragione per pubblicare ora un libro simile. Proprio perché siamo in questa situazione è utile parlare di liberazione. L’“apocalisse”, del resto, è sempre stata legata a un rapporto problematico con questo concetto. La si può considerare in termini teologici: l’apocalisse prepara il “Regno di Dio”; oppure in termini politici: la strada che porta a una “Gerusalemme nuova”. Oggi l’apocalisse ha assunto un’apparenza terrificante perché è stato smarrito il rapporto tra fede e ragione, tra la teologia e la storia, tra Atene e Gerusalemme.
È quella che chiami un’“apocalisse capitalista”?
Sì. Significa apocalisse senza redenzione. Nell’analisi delle apocalissi culturali l’antropologo Ernesto De Martino ha parlato di una profezia di un’umanità che avanza fatalmente verso la rappresentazione di una distruzione senza palingenesi, redenzione dal peccato, resurrezione dei morti, vita eterna, il giorno del giudizio e l’Aldilà. Viviamo in un trailer proiettato in loop su tutti gli schermi, un’apocalisse massmediatica amplificata dalla speculazione cinica, governamentale o bellicista.
Oggi sembra mancare il legame politico, culturale ed etico con la liberazione. E per questa ragione che il presente è disperante?
Questo è il problema. A differenza degli approcci presentisti, retro-utopisti, accelerazionisti, nostalgici o apocalittici alla disperazione si può rispondere ricostruendo le cause di ogni singolo accadimento. La conoscenza è già un primo passo per una liberazione che continua tutta la vita. Ed è più potente quando è intrecciata con la prassi. La disperazione è dovuta più che altro alla mancata connessione tra una conoscenza delle cause e un agire politico creativo ed efficace. Prendiamo il COVID, ad esempio. Non è stato uno “choc esogeno” al sistema che l’ha prodotto, come sostengono i governanti, ma è una delle conseguenze dell’agribusiness che ha ridotto il pianeta a una fattoria e ha imposto le monocolture animali e le deforestazioni. Il fatto che tenda a essere rimosso è un altro successo di quella narrazione che è stata definita apocalittismo che ha trasformato la vita in un ergastolo in cui l’alternativa è quella tra la sottomissione o il nichilismo.
Anche questo “apocalittismo” ha delle cause comprensibili?
È presente nelle culture euroamericane dei dominanti ed è il risultato di una visione del mondo che annienta ogni determinazione storica dell’essere umano e destituisce il rapporto sociale tra la natura e la cultura, tra la storia e la politica. Il dramma non è il silenzio di Dio. È l’esperienza di una catastrofe incombente che non arriva mai mentre sono decenni che si annuncia che il tempo è finito. Questa rappresentazione torna nei momenti di “interregno”: è stato così alla fine del XIX secolo quando la fine del rapporto con il mondo è stata limitata alla coscienza individuale del borghese e lo è oggi quando l’apocalisse è considerata addirittura a livello ontologico, esclude ogni alternativa ed è fine a sé stessa. Come ogni ontologia anche questa idea si può superare dimostrando che è il risultato di cause storiche reali. Come l’ontologia è il sogno represso di un’autorità sovrana, l’apocalisse capitalista è il desiderio di un Capitale senza forza lavoro. Collegare l’apocalisse al capitalismo serve inoltre a storicizzare una condizione altrimenti intesa in senso individualistico. L’apocalisse è solo una delle tante e possibili rappresentazioni della nostra condizione ed è il risultato del potere.
Cosa significa andare “oltre” l’apocalisse capitalista?
Dare ascolto alla tradizione degli oppressi che ci insegna a rovesciare l’emergenza e a scagliarla contro il capitalismo che distrugge la vita, e che non la salva. Questa possibilità è considerata astratta in una società dove invece c’è chi ritiene di imporre uno stato di emergenza continuo per piegare la resistenza agli imperativi della politica che riproduce i disastri. E l’opposizione è ridotta all’identitarismo, al confusionismo o al complottismo, mentre alimenta il profitto degli inserzionisti pubblicitari. L’uso militarizzato dei social network e la violenza che gronda dai talk show alimentano il sistema del neoliberismo autoritario.
Di “fine del mondo” parlano libri, giornali, canzoni. Come spieghi il fascino di questo fantasma collettivo?
La “fine del mondo” è un palinsesto di narrazioni diverse usate quando non ci sono le parole né le azioni per dire e praticare il conflitto, riconoscere lo sfruttamento e la violenza, cercare il riscatto e una strada per la liberazione. Direttamente e indirettamente giustifica il capitalismo e la sua immensa accumulazione di disastri, quello che prospera sull’impotenza generalizzata. Con la guerra in corso questa narrazione è stata rafforzata. Si è tornati a parlare di “terza guerra mondiale” con la minaccia di uso delle bombe atomiche. Si ripropone il discorso dopo Nagasaki e Hiroshima. Allora il filosofo tedesco Günther Anders aveva ricontestualizzato la fine del mondo alla luce del nuovo pericolo. In questa espressione c’è però un grande alleato che di solito passa inosservato. Ernesto De Martino ha distinto una “fine del mondo” dalla “fine di un mondo”. Il mondo di cui si teme la fine oggi è quello del capitalismo che assicura un liberismo per i ricchi e un nazionalismo per i poveri. L’idea verosimile della “fine del mondo” è in realtà il frutto di una decontestualizzazione che garantisce il mondo dei dominanti e non quello degli oppressi. L’evocazione della catastrofe finale serve a garantire i primi e a mantenere i secondi nella subalternità. Quella che viviamo realmente è la crisi di una forma culturale specifica, un’apocalisse culturale l’ha chiamata De Martino. Ciò che terrorizza è la fine del “capitalista umano”.
Che differenza c’è tra questo “capitalista umano” e l’“imprenditore di sé stesso” di cui si parla nelle analisi sul neoliberismo?
L’“imprenditore di sé stesso” aspira a condurre la vita come un’impresa. Il “capitalista umano” rappresenta la sua visione del mondo, dove il Capitale, e non la forza lavoro, è il sole che nasce e tramonta. Questo mondo è il risultato del capovolgimento della forza lavoro nel suo opposto di “capitale umano”. Il “capitalista umano” non è solo una maschera che dà un’umanità al capitale personalizzato. È un insieme di disposizioni soggettive e istituzionali in divenire che generano rappresentazioni e pratiche. La sua definizione è più simile a un habitus che collega l’individuo al collettivo. Questo habitus è risultato di una contraddizione atroce: riconoscerci in ciò che ci sfrutta. Ciò porta a pensare che l’unica alternativa sia non avere alternative, se non quella di desiderare la fine di tutte le fini. Il libro punta a comprendere questo paradosso e a superare il suo guardiano: il “capitalista umano” che siamo.
Viviamo in una “condizione postuma”. Cosa intendi con questa espressione?
Postumo non è solo chi è vissuto, o è venuto dopo una fine, ma è anche chi scopre che una vita nuova comincia dopo la fine di un mondo specifico, dopo la guarigione dai postumi di una malattia, dopo un incidente, dopo un’esperienza intensa e sublime, dopo una sconfitta politica di enormi dimensioni. Questa seconda idea permette di pluralizzare la condizione postuma in cui viviamo e rappresentarla non come la fine del mondo in generale, ma come la liberazione da un mondo determinato, quello della soggettività neoliberale. Esiste un conflitto dove, da un lato, c’è il capitalista umano che sopravvive in una condizione postuma senza storia; dall’altro lato c’è chi può liberare la storia dei suoi postumi e sperimentare una potenza oltre quella che porta a desiderare la fine di tutto. Oggi questa duplicità si perde quasi del tutto. Non si vede più la distinzione tra l’illusione retrospettiva dell’apocalisse che proietta la realtà in un passato indefinito e estingue il divenire e il prospettivismo storico della liberazione fondato sulla relazione tra ciò che è e può essere altrimenti. Pensare in un modo nuovo la condizione postuma significa invece fare emergere la politica. Il problema dunque non è scongiurare la “fine del mondo”, ma quello di generare mondi. Un mondo solo non basta per contenere tutte le liberazioni possibili.
In questa prospettiva, usi in maniera nuova l’idea di “rivoluzione passiva” che viene anche da Antonio Gramsci. Cosa significa?
Parlando del Risorgimento Gramsci ha riattualizzato una categoria creata da
Vincenzo Cuoco per parlare della rivoluzione napoletana del 1799. Una rivoluzione che non aveva coinvolto le masse popolari e non era passata attraverso una trasformazione dei rapporti sociali. Io provo a fare la stessa operazione per comprendere la logica politica del neoliberismo: una politica capace di coniugare, travisandole, alcune istanze di giustizia – per esempio: equità intesa come redistribuzione tra i ricchi, il benessere sociale come performatività dell’individuo – con altre di natura conservatrice – la gestione delle gerarchie familiari, di genere, di classe e di razza, l’individualismo proprietario, la manutenzione della divisione sociale del lavoro o la finzione ecologica della “transizione verde” del capitalismo fossile. Come per gli eventi politici analizzati da Gramsci nella storia italiana per comprendere il fascismo o nel conflitto scatenato nel mondo dalla rivoluzione comunista in Russia, anche oggi in una situazione diversa ci troviamo comunque implicati in una reazione contro-rivoluzionaria che ha imbrigliato e risignificato i contenuti delle insorgenze emerse tra gli anni Sessanta e Settanta al fine di creare una società senza politica e istituzioni senza conflitti. Nel libro discuto questa tesi confrontandomi con chi ha interpretato l’egemonia neoliberale come la risposta ai potenti “movimenti antisistemici” (così sono stati definiti da Giovanni Arrighi, Terence Hopkins e Immanuel Wallerstein) che hanno ripensato la rivoluzione tra gli anni Cinquanta e Ottanta del XX secolo. La rivoluzione passiva è il feroce rovescio di quel tentativo.
Qual è il rapporto tra la “rivoluzione passiva” e l’apocalisse, la fine del mondo e il loro immaginario?
Ho trovato folgorante l’idea di Gramsci per cui la rivoluzione passiva è sempre stata accompagnata dalle culture del “crollo”, della “crisi” e del “catastrofismo” che riemergono in coincidenza con le crisi esistenziali socioeconomiche. È il caso della “fine del mondo” di cui si parla oggi. Questa idea mi ha permesso di percorrere a contropelo l’immaginario della catastrofe e delle macerie nel quale prospera oggi la rivoluzione passiva neoliberale. E mi ha dato lo strumento per riconoscere i pensieri che hanno già preso in contropiede le rappresentazioni nichiliste o ireniche della catastrofe. Per esempio la dialettica di De Martino fine di un mondo-fine del mondo è stata ripensata nella mostra
“ilmondoinfine: vivere tra le rovine” da un progetto di Ilaria Bussoni che si è tenuta alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea a Roma tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019. Lì si parlava di un mondo in fine e di “un mondo, infine”. Significa imparare a collocarsi sulla soglia della trasformazione continua, in un divenire nel quale non vi sono ordini precedenti da ripristinare e non si guarda al futuro come ciò che al presente manca. Trovo questi pensieri molto forti, sia politicamente che eticamente. E attraversano tanto la ricerca di De Martino quanto quella di Gramsci. Entrambi sono poco presenti nel dibattito internazionale sulla fine di tutte le fini, probabilmente perché mettono in crisi l’idea oggi prevalente, non solo nell’antropologia, quella di una “ontologia” che destoricizza la crisi e assolutizza l’idea della “fine”. La loro impostazione permette invece di comprendere anche questa idea in termini politici e storici, e non solo in termini cosmologici, morali, estetici, geologici, atmosferici o tecnici. Basti pensare alla discussione più conosciuta tra “Antropocene” e “Capitalocene” nell’ecologia politica dove questo discorso è stato fatto sul ruolo che il capitalismo ha avuto nella creazione dell’emergenza climatica. In ogni caso, visto dall’Italia, è molto interessante questo ritorno dell’approccio gramsciano in diverse ricerche pubblicate negli ultimi tempi come quella di Marcello Musté o la ricerca collettiva curata da Giuseppe Cospito, Fabio Frosini e Gianni Francioni. Spero che il mio libro sia utile per riannodare i fili e tracciare prospettive sia su un problema di storia politica e culturale acquisito, lo ha fatto ad esempio Adriano Prosperi in “Rivoluzione passiva” a proposito del rapporto tra chiesa, intellettuali e religione, sia a partire dal rapporto tra politica, capitalismo e società nel XXI secolo.
Cosa distingue questa interpretazione del neoliberalismo da quelle più ricorrenti?
Intendere il neoliberalismo come una rivoluzione passiva permette di evitare di ridurlo solo al conflitto tra gli economisti neokeynesiani contro i marginalisti, oppure a un dibattito tra filosofi, ormai poco comprensibile, sulla “biopolitica”. Questo dibattito mi sembra avere poco compreso quello che preoccupava Michel Foucault nei corsi al Collège de France tra il 1976 e il 1979: la “governamentalità” neoliberale. Per fortuna la ricerca è andata avanti oltre gli schemi ancora prevalenti, e non solo in Italia. Il “nuovo liberismo politico” (questo significa “neoliberalismo”), non può essere considerato un “liberismo” puro e duro. Quest’ultimo è un’opzione, tra l’altro distopica e minoritaria, di una politica più problematica, dove esistono varianti diverse e tra loro anche conflittuali, unificate dall’odio per l’uguaglianza e dalla lotta contro uno spauracchio: il liberalismo sociale e, in maniera più radicale, il socialismo e il comunismo. Il neoliberalismo è un fenomeno politico, giuridico e antropologico. È basato su una rivoluzione al contrario che interessa sia il Sé che il mondo, le prassi e le istituzioni, lo Stato e il mercato. E può essere inteso in termini liberali, conservatori o populisti.
Qual è la logica di una politica neoliberale?
Rovesciare nel loro opposto le istanze della liberazione di cui si alimenta ma che intende spoliticizzare e trasformare in oppressione. È il caso della libertà, o di concetti come identità, Stato, mercato, individuo o politica. Questa strategia vuole dimostrare che ogni cambiamento è inutile ed è comunque destinato al fallimento. Nel libro il problema è affrontato nella prospettiva di una contro-egemonia: così come la rivoluzione passiva neoliberale è entrata nel campo della liberazione per saccheggiare le sue potenze, qui organizziamo la guerriglia nel fortino della sua impotenza per riconnetterla alla possibilità reale di una potenza di cui essa è una delle espressioni e non la destinazione del tempo che resta prima dell’apocalisse.
La liberazione non è un obiettivo dato, né un imperativo categorico. Nel libro parli di una condizione creatrice da ripensare di continuo. Per vivere una vita “liberata”, scrivi, bisogna riaprire giorno dopo giorno un “divenire altrimenti”. Questa idea ispira una concezione materialista della politica basata su un’“anti-rivoluzione passiva”, ecco un’altra categoria gramsciana. Come si coniuga questa idea con la liberazione?
Il collegamento è stato fatto da uno dei filoni più interessanti del gramscismo globale: i marxismi della liberazione di
Paulo Freire o di Enrique Dussel. Il primo parla della liberazione della potenza come la “ricerca dell’essere di più” nella solidarietà delle esistenze concrete e all’interno dei rapporti antagonisti. Il secondo parla della liberazione come “atto dell’oppresso” che consiste in “un’affermazione espansiva”. Sono due idee che ritrovo in molti discorsi e pratiche dell’“anti-rivoluzione passiva”, o di una “rivoluzione attiva”, e sono agite nelle culture critiche e nei movimenti femministi e antirazzisti contro il nativismo e l’etnicismo, lo sciovinismo del benessere e il razzismo, il narcisismo e il patrimonialismo. Il mio contributo al dibattito consiste nel seguire queste tracce in un percorso dove il marxismo della forza lavoro e il ripensamento della lotta di classe hanno iniziato a parlare una lingua comune. In questa prospettiva la critica dello sfruttamento del lavoro non è più anteposta a quella sessuale e nemmeno a quella della natura. Definire il lavoro alla luce dei rapporti sessuali o razzializzati, interpretare il sessimo e il razzismo come espressioni della violenza sociale del potere significa rompere le gerarchie esistenti e coniugare i conflitti in una classe oggetto di molteplici oppressioni e soggetto di possibili resistenze. Questo significa prospettare un divenire co–rivoluzionario tra soggetti differenti. Il loro intreccio nella stessa condizione dimostra come la politica possa estendersi dalla contestazione della proprietà privata dei mezzi della produzione ai rapporti biopolitici del potere e alla lotta contro lo sfruttamento del vivente. Una liberazione non è certa, oggi meno che mai, ma resta a disposizione di chi opera nella sua prospettiva.
Venerdì 20 maggio, il libro sarà presentato a Roma a Esc in via dei Volsci 159 dalle 18:30. Insieme all’autore, Giso Amendola, Francesco Raparelli e Elettra Stimilli.