V iene chiamata chirurgia estetica etnica e racchiude quegli interventi che smussano, limano, cancellano i segni dell’appartenenza etnica non caucasica. Come la blefaroplastica orientale – cioè il rimodellamento degli occhi a mandorla volto alla creazione di una piega palpebra superiore –; la rinoplastica etnica – cioè la chirurgia di rimodellamento del naso, detta anche “slump implant”, rivolta a pazienti di origine asiatica, africana o afroamericana che desiderano “occidentalizzare” i lineamenti e quindi ridurre le narici e rimpicciolire la punta del naso –; la cheiloplastica riduttiva – cioè il ridimensionamento del volume delle labbra. Si tratta di un fenomeno sempre più comune che negli ultimi anni ha subito una grande espansione resa evidente anche dai dati stimati dall’American Society for Aesthetic Plastic Surgery: dal 2005 al 2013 le procedure cosmetiche conseguite su asiatici-americani sono aumentate del 125%, sugli ispanici dell’85%, sugli afroamericani del 56%. Percentuali molto superiori rispetto a quelle che coinvolgono la popolazione caucasica che, nello stesso periodo, ha registrato un aumento di procedure di chirurgia plastica pari al 35%. Sebbene tale trend positivo possa essere spiegato semplicemente da un maggior potere d’acquisto, emergono implicazioni sociali legate a un’idea di bellezza razzista.
Per capire che questa è una questione che interessa anche l’Italia – soprattutto i residenti in Italia di seconda o terza generazione – è sufficiente visitare i siti delle varie cliniche di chirurgia plastica presenti nel nostro Paese e soffermarsi sulle possibili procedure volte a soddisfare quelle esigenze estetiche ispirate a modelli occidentali. La portata della situazione e la quantità di gente potenzialmente interessata a una modifica del proprio corpo e in particolare del viso si possono comprendere anche dal caso dell’annuncio apparso sul sito vendereaicinesi.it (sito di annunci italiani tradotti in cinese) di un professionista di chirurgia estetica. Un annuncio che lascia intuire una grande richiesta. Già otto anni fa, come si legge in un articolo de La Stampa, il professor Mario Dini, già direttore della Scuola di specializzazione di Chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica dell’Università di Firenze, parlava di “un fenomeno tutt’altro che marginale e dalle complesse implicazioni psico-sociali che non possono essere sottovalutate dal medico. (…) Moltissime pratiche vengono eseguite da soggetti a basso reddito che cercano soluzioni economiche e spesso rischiose. Persone che si affidano a strutture dei loro Paesi dove talora non vigono strette norme di sicurezza e igiene. Per non parlare dell’enorme sottobosco dei trattamenti fai-da-te e dell’uso di prodotti spesso vietati che in molti casi portano a danni molto difficili da risolvere”.
Il primato di questo tipo di interventi però non lo detiene l’Occidente: l’Iran, la Cina, la Corea del Sud, l’India e l’Africa sono le regioni del mondo dove ha luogo il maggior numero di interventi che modificano i tratti etnici. In Iran ogni anno avvengono più di 40 mila interventi di chirurgia plastica di cui il 60% riguarda il naso, richiesto così spesso più piccolo e simile all’immaginario occidentale da poter parlare di un “rito di passaggio” che riguarda in particolar modo la popolazione femminile. Uno scenario simile è quello che coinvolge la Cina dove la chirurgia estetica è in costante crescita soprattutto tra i nati dopo il 1990. I dati del 2019 dicono che della totalità degli interventi di chirurgia estetica effettuati in Cina (secondo la China Association of Plastics and Aesthetics nel 2014 più di 7 milioni di cinesi si è sottoposto a interventi plastici) per il 30% si tratta di facial lipofilling (fat transfer) scelto per ottenere zigomi alti e un viso leggermente allungato, per il 22% di correzioni del naso e per il 18% di blefaroplastica. La volontà di riflettere i canoni di bellezza restituiti da manga giapponesi, dalle star coreane del k-pop e dalla cultura occidentale è così diffusa anche a causa della semplicità con cui si entra in contatto con il mondo della trasformazione estetica: app come SoYoung e Gengmei permettono di vedere la propria immagine prima e dopo l’intervento, di prenotare la procedura e di richiedere un credito per pagarla. Il dilagare di questo trend ha legittimato la proposta di sconti e offerte speciali “compri tre paghi due”. In un articolo apparso su CNN Digital viene spiegato come durante le vacanze estive molte ragazze si sottopongano in gruppo a operazioni estetiche così da approfittare dei pacchetti convenienza proposti da alcune cliniche e tornare a scuola con una nuova immagine.
La spinta che porta a modificare i propri lineamenti subisce la forza del riconoscimento sociale per quanto riguarda sia l’ambito delle relazioni interpersonali sia quello del mercato del lavoro. Come spiegato da Brenda Alegre, una docente di gender studies dell’Università di Hong Kong che si è interessata al fenomeno della chirurgia estetica, “quella cinese rimane una società molto patriarcale. Essere carine è un modo per assicurarsi successo professionale e per trovare marito”. Tuttavia, come si legge in un pezzo pubblicato su CinaOggi, le modifiche corporee riguardano anche gli uomini. Anche in questo caso le operazioni maggiormente richieste sembrano essere il restringimento del viso, il lifting al naso, l’armonizzazione degli zigomi e la modifica della forma degli occhi, cambiamenti che dovrebbero garantire un bell’aspetto – se con questa definizione si decide di intendere un aspetto occidentale – e dunque maggiori possibilità lavorative. Il fascino verso il canone di bellezza bianco e occidentale è una realtà facilmente verificabile con un viaggio in Cina. Quando alcune estati fa ho visitato il Paese, sono rimasta sorpresa da due aspetti: in ogni negozio di prodotti per la persona si trovavano delle strisce adesive per sollevare le palpebre; ovunque mi recassi mi veniva richiesto, soprattutto dalle bambine – non solo perché forse già suscettibili al modello estetico ma anche perché parlanti la lingua inglese non così diffusa tra le generazioni più anziane –, di fare una fotografia insieme dopo aver ricevuto apprezzamenti sulla pelle chiara e sugli occhi grandi.
La spinta che porta a modificare i propri lineamenti è il riconoscimento sociale che riguarda sia l’ambito delle relazioni interpersonali sia quello del mercato del lavoro.
Scegliere di sottoporsi a interventi invasivi di modifica dei tratti come “ascensore sociale” è una realtà diffusa anche in Corea del Sud, uno dei Paesi con il numero più alto al mondo di operazioni di chirurgia plastica. Secondo le stime elaborate dalla Società internazionale di Chirurgia estetica, si parla di un milione e mezzo di operazioni l’anno in una Nazione da 50 milioni di abitanti. Alle fermate della metropolitana di Seul le pareti sono coperte da manifesti pubblicitari di cliniche estetiche. Nel solo distretto di Gangnam – il quartiere di lusso della capitale paragonabile a Beverly Hills in fatto di ricchezza e benessere – si contano più di 500 centri di medicina estetica, un numero, quest’ultimo, che ha fatto sì che quest’area venisse definita “The Improvement Quarter” (il quartiere del miglioramento). Anche in questo caso gli interventi più richiesti sono quelli alle palpebre, il cui valore oltrepassa la forma dell’occhio più larga e aperta e riguarda il riconoscimento, che si traduce in lavoro, matrimonio, rispetto. Leggendo la raccolta di racconti Che cosa ci fa un morto in ascensore? di Kim Young-Ha (O barra O, 2008) è possibile capire come nella società coreana l’identità sia strettamente legata a un riconoscimento che passa attraverso i vincoli lavorativi e matrimoniali: la definizione di sé prende corpo solo se ci si rapporta a un’istituzione, una struttura che richiede per sua natura una forma di omologazione che appare essere influenzata più dai modelli occidentali che da quelli della tradizione locale. Come spiega Andrea Pugliese nella prefazione del libro, “Kim Young-Ha è impietoso verso una generazione che annaspa nel tentativo di cucire la tradizione alla globalizzazione, la morale alla tecnologia, l’etica alle imposizioni dominanti e che, in questo sforzo, dimentica le proprie origini e non è in grado di indirizzare il proprio futuro”. Nessuno dei personaggi della raccolta è intenzionato a modificare il sistema in cui immerso, un sistema che tiene le singole persone sotto scacco attraverso un doppio ricatto: quello della realizzazione personale che passa necessariamente per il successo professionale e sentimentale così come richiesto da una visione tradizionalista, la maggiore possibilità di raggiungere il successo professionale e sentimentale se si abita un corpo che riflette i canoni di una bellezza lontana da quella asiatica.
Il propagarsi di modelli di successo identificati con le caratteristiche occidentali avviene anche in Africa e in India, dove è comune l’utilizzo di prodotti sbiancanti. Nel 2017 l’Organizzazione mondiale della Sanità ha pubblicato uno studio che dimostra come il 77% delle donne nigeriane si sbianchino la pelle, seguite dalle donne sudafricane, senegalesi, togolesi e maliane. Come si legge in un articolo apparso su The Conversation, uno slogan comune in India recita “via il colorito scuro”. E anche quello della carnagione nera è un complesso che inizialmente riguardava le donne ma che ora comprende anche gli uomini. Il mercato delle creme sbiancanti si rivolge al pubblico maschile promettendo loro un maggiore successo con le donne. Stesso discorso vale per il pubblico femminile a cui nel 2012 è stato proposto un detergente della Clean and Dry in grado di sbiancare la vulva pubblicizzato attraverso il messaggio per cui la vulva bianca garantisce maggiore complicità sessuale con il partner. La pratica dello skin bleaching, particolarmente diffusa tra le ragazze tra i 21 e i 35 anni, presenta un duplice problema: il primo di carattere sanitario, il secondo di carattere culturale. Dal punto di vista della salute, i prodotti a effetto schiarente – creme o prodotti iniettabili, pericolosi cocktail di steroidi, idrochinone e tretinoina – possono essere molto tossici e causare danni al fegato e ai reni, psicosi, danni al cervello nei feti e cancro. Ma la scelta di sbiancarsi la pelle parla anche del tentativo di chi ha la pelle scura di far parte di quello stesso mondo che lo ha escluso e asservito. Nel tentativo di essere integrati, o forse meglio dire assorbiti, dalla società capitalista occidentale e bianca, si decide di sminuire o eliminare la propria identità nera. Questa scelta che cela una richiesta di riconoscimento porta però ad allontanarsi dal gruppo sociale di appartenenza senza riuscire davvero ad assimilarsi agli occidentali, un cortocircuito che assume la forma di un “limbo culturale”.
Questo scenario chiama in causa i limiti della bioetica laica secondo la quale su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente l’individuo è sovrano, e avanza l’ipotesi di stabilire un limite politico agli interventi di una medicina capitalistica. Tornano in mente le riflessioni di Ivan Illich che nel suo Nemesi medica. L’espropriazione della salute (Red edizioni, 2005) scriveva che “la medicina è un’impresa morale, e inevitabilmente perciò dà contenuto al bene e al male. In ogni società la medicina, al pari del diritto e della religione, definisce ciò che è normale, giusto o desiderabile. […] Come tutte le crociate, la medicina crea un nuovo gruppo di diversi ogni volta che fa attecchire una nuova diagnosi”. Definendo la cancellazione dei tratti etnici qualcosa di desiderabile e dunque operabile sembra evidente come il carattere imperialista della società industriale sia portato all’estremo dalla medicalizzazione di un desiderio condizionato da implicazioni socio-culturali. Sebbene il boom della chirurgia estetica etnica e dell’utilizzo di prodotti sbiancanti non si possa spiegare solo in termini medici, le parole di Illich secondo cui “la salute di un popolo dipende dal modo in cui le azioni politiche condizionano l’ambiente e creano quelle circostanze che favoriscono in tutti, e specialmente nei più deboli, la fiducia in sé stessi, l’autonomia e la dignità. Di conseguenza, la salute tocca i suoi livelli ottimali là dove l’ambiente genera capacità personale di far fronte alla vita in modo autonomo e responsabile” appaiono estremamente efficaci. Nel rispetto delle scelte personali, è difficile non interrogarsi sul cattivo uso politico delle conquiste scientifiche deviate a rafforzare una crescita personale che, assecondando i modelli occidentali, si mostra ancora foriera di un’omologazione figlia del neocolonialismo.
La definizione di sé prende corpo solo se ci si rapporta a una struttura che richiede per sua natura una forma di omologazione influenzata più dai modelli occidentali che da quelli della tradizione locale.
I processi di modifica e trasformazione intesi come scelta del soggetto su e per se stesso appaiono in questo caso un’azione di messa a norma, di adeguamento a un contesto sociale e politico nel quale si è inseriti. L’egemonia del gusto occidentale e bianco ha la capacità di determinare una costruzione di sé che si adegua a un certo universo culturale incapace di risolvere il rapporto tra volontà e dominio. In questo scontro tra scelta e violenza incorporata, la “medicina del desiderio”, così come definita da Michela Fusaschi, gioca un ruolo determinante. In Quando il corpo è delle altre (Bollati Boringhieri, 2011) Fusaschi afferma che “Gli interventi puramente estetici, […], vanno incontro a esigenze esplicitamente connesse con l’abbellimento – la tanto ricercata beautification di derivazione anglosassone – e coinvolgono in particolare, ma non più esclusivamente, parti del corpo femminile ‘reputate sane e morfologicamente normali, il che solleva problemi medico-giuridici riguardanti la liceità di queste operazioni considerate anche mutilazioni’”. E ancora: [La] richiesta di un’ipotetica paziente, la quale reputa il suo corpo in disarmonia con il mondo circostante, costituirebbe la base di un intervento estetico, il cui scopo è quello della beautification, che solo attraverso il gusto medico acquisisce uno statuto sanitario e, in conseguenza di ciò, i chirurghi definiscono l’intervento terapeutico. Colei che quindi domanda un tale intervento chirurgico lo fa perché versa in uno stato di sofferenza dato da una percezione soggettiva, che la spinge verso un bisturi per farla genericamente “stare meglio”.
Adottando questa visione, sembra possibile poter individuare una distinzione tra i corpi che si normalizzano – cioè che si mettono “a norma”, si plasmano secondo i dettami della cultura dominante – e quelli che rimangono al margine. Tale suddivisione è però estendibile a qualsiasi corpo ed esce dai confini dell’etnicità degli interventi sopra descritti. Affrontando la questione delle cosiddette mutilazioni genitali femminili (Mgf), Fusaschi si domanda se esista una vera differenza con la chirurgia estetica intima dei genitali femminili (Ceigf) se non i diversi immaginari per cui da una parte c’è la costrizione e dall’altra l’intenzionalità. Senza voler spostare l’attenzione dall’implicazione razzista e imperialista di alcuni interventi, pare necessario sottolineare come la difficoltà di abitare un corpo che sta ai margini non conosca confini. La scelta delle donne indiane di utilizzare un detergente che sbianca la vulva non sembra troppo differente rispetto alle richieste di miglioramento estetico dei genitali esterni come la labioplastica delle grandi labbra e il modellamento del monte di venere. Se si immagina di estendere il campo d’azione dell’assimilazionismo anche alle persone bianche e occidentali, in entrambi i casi si tratta di una dominazione piuttosto indiretta, mediata eppure consensuale, che subisce il modello assimilazionista incarnato tanto dal soggetto razzializzato quanto dal soggetto che vede negli ultracorpi prodotti dai media e da una società maschilista che protrae il mito della bellezza la chiave della realizzazione personale. Se è vero che nel cercare di assumere dei lineamenti occidentali così come nell’abbellire la propria immagine riflettendo un canone unidimensionale c’è un tentativo di riconoscimento, allora è impossibile non concordare sul fatto che il trasferimento dell’attenzione dell’individuo dalla società complessiva al proprio corpo sia un effetto della politica neoliberista di cui tutte e tutti siamo potenzialmente vittime.