A ll’inizio del decennio scorso consigliai a un amico un blog che seguivo da un po’. La sua risposta la ricordo ancora oggi. Si trattava di Eschaton, un blog di commento obliquo all’attualità da una prospettiva… particolare. L’autore si chiamava Raffaele Alberto Ventura, aveva appena trent’anni, si era laureato con una tesi in epistemologia sulle dispute eucaristiche e osservava la modernità con sospetto, con uno sguardo insieme conservatore e postmoderno. Il mio amico invece era -ed è- un punk anarchico individualista e, leggendo queste riflessioni così ai suoi antipodi, mi disse: “un bellissimo blog di controcultura”.
Mi è rimasto impresso quel giudizio, un punk che conferiva la medaglia della “controcultura” a un conservatore. E lo trovavo pertinente: entrambi, da posizioni diverse, si trovavano ai ferri corti con una certa egemonia culturale. Di acqua ne è passata sotto i ponti da allora, Ventura oggi è un autore affermato con quattro libri all’attivo. L’ultimo, appena uscito per Einaudi, si chiama La regola del gioco e, dopo averlo letto, per la prima volta in tutti questi anni, ho avuto l’impressione che Raffaele non si meritasse più quella medaglia. Mi sembrava infatti che avesse scelto consapevolmente di difendere quell’insieme di norme, consuetudini, ingiunzioni esplicite e implicite che regolano il nostro mondo in modo molto più strutturato di dieci anni fa e che insomma si fosse arreso a quella cultura con cui un punk anarchico lo aveva giudicato incompatibile. Allora ho deciso di parlargliene. Questa è la discussione che abbiamo avuto.
Alessandro Lolli: Chi è il target di questo libro?
Raffaele Alberto Ventura: Il “lettore ideale” del libro è qualcuno che non ha mai letto un mio libro e che mai lo leggerebbe, qualcuno che non cerca una “teoria” astratta ma uno strumento concreto. Infatti La regola del gioco nasce da alcune ore di lezione rivolte a un pubblico professionale, che spesso non ha tempo di approfondire la conoscenza dei dibattiti contemporanei (ci sono passato anch’io). L’idea di partenza – a zero layer, come si dice – era di democratizzare alcuni saperi. Però poi un paio di layer supplementari vengono fuori. Innanzitutto, nel rivolgermi a questo lettore ideale faccio un esercizio di scrittura molto particolare, che è quello di esplicitare praticamente tutto, partendo dalle basi, che è anche un modo per rendere visibili (anche a me stesso) una serie di convenzioni tacite. Questo fa risaltare anche quanto queste convenzioni sono numerose e quindi “costose” da gestire. Quindi, a un livello ulteriore, questo libro costituisce una dimostrazione sperimentale delle tesi che porto avanti dai tempi della Guerra di tutti (ovvero che viviamo in un’epoca che non è più precisamente di pace civile e quindi di assoluta libertà) e di Radical choc (ovvero che la competenza costituisce un fattore cruciale di diseguaglianza sociale).
AL: Noto nel mondo progressista una tendenza un po’ nevrotica a negare l’esistenza di alcuni fenomeni culturali, quali il politicamente corretto, la cancel culture o la sensibilità woke, chiamandoli frame della destra, derubricandoli insomma a invenzioni retoriche dell’avversario. Secondo te esistono? Il gioco di cui spieghi le regole in questo libro cosa ha a che vedere con questi (veri o presunti) fenomeni?
RAV: Questa cosa è davvero insopportabile, non trovi? Abbiamo letto per anni articoli che insistevano sul fatto che anche solo usare parole come woke, cancel culture o politicamente corretto significava essere di estrema destra. Se mi chiedessero di definire che cos’è il “gaslighting” userei precisamente questo esempio: intellettuali che spiegano alle altre persone che la loro percezione del mondo è distorta e moralmente deplorevole. Per questo io tre anni fa scrissi un articolo che diceva: “il politicamente corretto esiste ed è inevitabile”. La prima parte della frase ha scandalizzato i lettori di sinistra, ma la seconda ha fatto impazzire quelli di destra. Per rispondere semplicemente alla tua domanda: è ovvio che i giornali deformano o esagerano molte notizie sulla cancel culture, ed è probabilmente vero che l’espressione è in sé sia ambigua, ma non ha senso negare che stiamo vivendo una rivoluzione nel nostro rapporto con il linguaggio e con la memoria (e con il sesso). Altrimenti non avrei scritto La regola del gioco. Certo, questa rivoluzione ha delle cause specifiche, che potrei esprimere con questa metafora poetica: se scegliamo di andare a vivere in una casa di vetro, non possiamo più andare in giro in mutande. Le condizioni di una certa libertà sono semplicemente venute meno.
AL: In effetti sembra proprio gaslighting. Ma secondo te perché lo negano? Io un’idea ce l’ho: sono costretti a negare interamente l’esistenza di questo “gioco”, perché altrimenti si scoprirebbe che le regole le dettano loro. Pensi, insomma, che i valori morali per cui si viene giudicati nella casa di vetro -quelli del politicamente corretto- siano neutrali sull’asse politico?
RAV: Tu poni la questione della neutralità che è un concetto cruciale. La neutralità è sempre una costruzione politica, insomma la neutralità non è neutra: è lo spazio attivamente sottratto al confronto delle opinioni. Come il “tzimtzum” della teologia ebraica, è una ritrazione che va a lasciare un vuoto. Questa costruzione politica della neutralità è necessaria per mettere al riparo alcune cose da una negoziazione permanente che sarebbe troppo costosa, troppo faticosa, troppo logorante per il corpo sociale. Ma perché questo spazio esista stabilmente, è necessario un potere stabile, è necessario un monopolio che tenga in piedi (con una certa dose di violenza almeno simbolica) quella finzione. Quando parlo di violenza simbolica, mi riferisco precisamente a quella esercitata dalla classe intellettuale-manageriale attraverso la competenza, che serve da “trasformatore” di valori particolari in valori universali – insomma serve da dispositivo di neutralizzazione attraverso il riferimento a certi saperi legittimi (l’economia, la medicina, eccetera). Ecco il segreto meglio nascosto della modernità: il vero Leviatano, l’arbitro ultimo dei conflitti, non è lo Stato ma la Ragione. Oggi alla crisi di questo monopolio del potere simbolico, determinata dalla disintermediazione, corrisponde anche una crisi della neutralità: è il collasso della finzione su cui regge la pace civile dai tempi della nascita dello Stato moderno. Se usciamo da questo paradigma, ci ritroviamo in mare aperto e tutto può succedere. Come scriveva un certo giurista tedesco: “In tempi tranquilli si formano zone neutre e ameni parchi a tutela della natura, dello spirito e dei monumenti. In tempi inquieti, tutto questo ha fine”.
AL: Ma questi temi non sono affatto evacuati dal dibattito! Anzi, ne sono al centro più che in ogni altra epoca. Non è infatti vero che semplicemente “non si può più dire niente”: bisogna dire le cose giuste, e si è invitati a farlo. Come il potere di Foucault, ricordi, non è solo negativo, è anche e forse soprattutto positivo; così il politicamente corretto e la nuova sensibilità progressista. Non trovi?
RAV: Non sono d’accordo. Chi, quando, dove “devi” dire le parole giuste? Tu estrapoli e generalizzi l’esperienza di un contesto fortemente normativo come il mondo culturale, nel quale effettivamente è tutta una parata di segni e di segnali. Ma è solo uno dei tanti giochi linguistici, perché come sappiamo entrambi il 99% del mondo là fuori di tutto questo se ne frega. Peraltro quella del virtue signaling è solo una delle strategie possibili. Esiste anche chi si fa strada presentandosi come un provocatore, e molti che semplicemente fanno profilo basso. Poi c’è chi gioca la carta secondo cui certe cose non si possono dire – sul Covid, sul gender, sulla Palestina… – ma secondo me si possono dire. Un paio di anni fa ho scritto un articolo in cui esaminavo la vicenda processuale di Pasolini – per adescamento di minorenni quando lavorava come insegnante – confrontandola con la sensibilità contemporanea: mi è stato rifiutato da un sito importante, che evidentemente non voleva si associasse un nome “sacro” o a un tema “proibito”, ma ho comunque potuto pubblicarlo su un altro sito e in francese sulle rivista Esprit. Fare lo slalom tra guardie e sentinelle è parte del piacere di chi scrive. Ora se vuoi possiamo parlare di gender.
AL: Mi sono espresso… ambiguamente. Non intendo dire che siamo costretti a pronunciarci su certi temi e segnalare la virtù -anche se per aziende di un certo tipo, intorno ad alcuni temi è proprio così… penso al CSR (Corporate Social Responsibility) che tantissimi brand devono fare sul clima, quello che nel dibattito di oggi si definisce “greenwashing”, ma lasciamo stare- intendo dire che se vuoi parlare di alcuni temi, sai bene quali sono le posizioni accettabili e quali no. Per esempio ora io mi avvarrò della facoltà di non rispondere al tuo invito a parlare di quella parola inglese che non conosco…
RAV: E invece in un modo o nell’altro bisognerebbe parlarne. E nello stesso tempo, hai ragione, è meglio non farlo se non vogliamo fare danni – agli altri e a noi stessi. Questo in fondo è il paradosso. Da una parte la democrazia pretende la negoziazione pubblica sulle questioni che ci dividono, dall’altra non possiamo passare il tempo a dividerci su tutto. Come faccio, ad esempio, a sollevare il problema delle forme contemporanee di medicalizzazione del disagio – con il suo codazzo di overdiagnosis, di mimetismo, di dipendenze, di rivendicazioni – senza mettermi in conflitto con chi ha trovato in quella medicalizzazione un sollievo? Eppure la questione mi riguarda sia come cittadino, che usa certe parole e fa certe scelte, che come persona che prende pubblicamente la parola e prova a denunciare gli elementi insostenibili dei processi di modernizzazione. La risposta è che per farlo devo usare i canali di comunicazione adeguati, e distinguere tra il registro che adotto su Italia 1 e quello in un’aula universitaria. Per fortuna non esiste un solo canale di comunicazione. Anche se effettivamente il rischio è sempre quello di esservi trascinato di forza, per mezzo di una registrazione clandestina o di uno screenshot.
AL: Parli di registro, di canali di comunicazione e la premessa di tutto il tuo libro è che in fondo sia solo un grande problema di comunicazione. Purtroppo temo che non sia così. Penso sì che una buona parte di questi conflitti siano solo o principalmente dei “disastri comunicativi”, forse anche la maggioranza. Ma una parte altrettanto significativa no, è qualcosa di diverso: è un conflitto di contenuti, di valori. Quando scrivi che l’autrice di Harry Potter avrebbe potuto sollevare le questioni che le interessano senza entrare in conflitto con una certa comunità, non so se menti a te stesso o a noi, ma non è così. Non c’è registro, contesto, canale comunicativo, che le consenta di esprimere quelle sue credenze senza conseguenze. E ora, la parte importante: quali sono queste conseguenze? Che un sacco di gente non è d’accordo con lei, si incazza e risponde con le sue idee? Magari, sarebbe tutto normale. No, le conseguenze sono che un movimento di opinione organizzato vuole che quelle e altre credenze siano espulse completamente dal discorso, con ogni mezzo necessario: nuove leggi, regolamenti social, deplatforming e così via. Di questo parliamo, Raffaele. Quando cerchi di convincermi che “ci siamo solo capiti male” suoni un po’ come quei post di scuse degli shitstormati che tu stesso ridicolizzi nel libro…
RAV: Ma certo che a monte c’è il conflitto di valori, il punto di partenza è proprio quel conflitto di valori, il fatto che viviamo in una società multiculturale caratterizzata dal politeismo dei valori. Cioè diversità di forme di vita e di assetti materiali. Ma questo è un dato di fatto, non un “problema” che si possa risolvere, a meno di non perseguire attivamente un ritorno a un modello monoculturale con politiche assimilazioniste. Ma poi bisognerebbe comunque capire come farlo, e a che costo. Per quello io dico che il problema è comunicativo, perché – fatta pace con le condizioni storiche in cui ci troviamo – si tratta di capire come gestire quella diversità, come comportarsi a fronte di questa diversità, negativizzarla, perlomeno nella misura in cui non riusciamo a riassorbirla. Ad esempio uno Stato può investire un massimo di risorse per contrastare le mutilazioni genitali femminili, se considera questo una priorità condivisa, ma oggi non sarà realisticamente in grado di sradicare tutte le forme patriarcali che regolano i rapporti all’interno delle comunità. Quella diversità deve quindi giocoforza essere tollerata. Da una parte quindi, si tratta di neutralizzarla in canali in cui potrebbe innescare un’escalation di conflitto tra minoranze, e d’altra parte di recepire le domande contrastanti all’interno del dibattito democratico, magari in altri canali e in altre forme. Esempio diverso: il corpo sociale deve negoziare sui limiti generali dell’intrusione della medicina nella sfera privata soprattutto presso i minori, penso alla questione del trattamento farmacologico precoce della disforia di genere; ma deve evitare che la negoziazione sfoci in conflitto diretto. Sul caso Rowling, credi davvero che – per una persona così esposta – fare una battutina su un social network progettato per litigare sia il modo opportuno di sollevare una questione drammatica che, comunque la si veda, coinvolge profondamente le persone? Io no. Eppure credo che di quei temi si debba e si possa dibattere, proprio perché contrappongono gli interessi concreti di diversi gruppi sociali. Quindi c’è modo e modo.
AL: Allora ti avanzo la mia obiezione centrale: tu ti poni l’obiettivo di neutralizzare il conflitto e sei persuaso che questa piattaforma – che chiami gioco ma possiamo chiamare politicamente corretto – sia il mezzo per farlo, a patto che si conoscano e si seguano le sue regole. Io sono invece persuaso che questo gioco non sia una piattaforma neutra in grado di mediare il conflitto, sia invece un attore in campo del conflitto stesso! Il gioco e le sue regole sono accettate da una parte della società e rifiutate dall’altra.
Ti sei chiesto perché, nonostante concordiamo sull’egemonia che ha questo gioco presso la maggior parte delle aziende, dei social media, dei media tradizionali e del mondo della cultura, abbiamo letteralmente una (ex?) neofascista come presidente del consiglio? Io un’idea ce l’ho, ma voglio sentire la tua.
RAV: Sono osservazioni del tutto pertinenti, con le quali sono abbastanza d’accordo. Sul piano teorico perché, come dicevo sopra, la neutralità è costruzione politica e finzione necessaria, insomma effettivamente sostenuta da un attore in campo. Sul piano pratico perché come osservi tu ogni sforzo di “neutralizzazione” (ovvero di imposizione di un certo codice, di una certa legge) produce una reazione avversa uguale e contraria, un backlash. E questo porta l’estrema destra al potere, presto con i voti dei progressisti radicalizzati che rimpiangono la vecchia modernità, con le sue libertà insostenibili. Probabilmente quel che avverrà è che continueremo ad avere un’oscillazione tra tendenze normative e tendenze antinormative. Però come vedi al momento siamo ancora nella fase in cui le forze politiche “populiste” usano retoriche antinormative per accedere al potere, poi però si devono adeguare: vedi come Di Maio è diventato un uomo di apparato, vedi come Meloni passa il tempo a prendere le distanze dalle gaffe dei suoi ministri. Certo, a un certo punto il giochino rischia di rompersi.
AL: Ma se esiste questa scissione in seno alla società, come può la negoziazione avvenire secondo i termini di uno dei due attori? Provo a prenderla da un altro lato. Uno dei valori che la modernità occidentale ha storicamente proposto per negoziare il conflitto nella società è la libertà d’espressione (con tanto di citazione adulterata di Voltaire). Oggi, questo valore che è stato centrale nella tradizione della sinistra, viene avversato proprio da quella tradizione e dal suo nuovo gioco. In questo gioco, pure la libertà d’espressione è ormai considerato un frame della destra, un dogwhistle, col risultato assurdo che a difenderselo ora sono i destri!
C’è stata davvero una rivoluzione copernicana nella cultura progressita negli ultimi dieci, quindici anni, un mondo al contrario per citare un altro destrissimo che, oggi, può strumentalmente difendersi quel valore su cui i progressisti sputano sopra. Posto che sappiamo benissimo sia io sia te che neppure a lui gliene frega niente e se potesse instaurerebbe la legge marziale delle opinioni corrette, cioè il mondo “al verso giusto”.
RAV: Quando dico “negoziazione”, bisogna intendere che anche qui è sempre il più forte che prevale, però all’interno di forme che permettono di riconoscere finzionalmente un esito condiviso e mettere fine temporaneamente al conflitto. Rivoluzione copernicana del progressismo, sicuramente: certi valori che sono stati centrali nella sua storia sono stati liquidati in un decennio. Rivoluzione copernicana nel progressismo, soprattutto, perché poi le prime vittime di questa trasvalutazione si trovano all’interno del campo progressista, vittime della loro stessa esigenza ma anche degli scheletri nel loro armadio. Ma bisogna osservare anche una continuità, che è peraltro la cifra delle rivoluzioni, in senso astronomico, che riportano le cose sempre nello stesso punto dello spazio: se il progressismo è storicamente l’ideologia delle élite modernizzatrici, e se ieri modernizzare significava rimuovere i vincoli normativi forniti dalle istituzioni tradizionali (comunità, famiglia, Chiesa), oggi modernizzare significa mettere al loro loro posto nuovi vincoli normativi, magari interiorizzati o delegati a logiche reputazionali. Questo perché, di tutta evidenza, la promessa moderna di un mondo fondato su libertà e autonomia non ha funzionato: ora che i suoi danni ecologici e sociali appaiono come irreversibili, non resta altro da fare che amministrare la catastrofe. Questa è la distopia che abbiamo costruito e ora ci tocca imparare a viverci.
AL: Apprezzo l’eleganza di questa ipotesi che mi permetto di riformulare appena: essendo decaduto il magistero etico di certe istituzioni (famiglia, chiesa etc), si è reso necessario trovare un’altra fonte morale per la società, cioè il politicamente corretto a trazione woke. È anche affascinante notare come la sfera sessuale sia centrale per l’uno e per l’altro sistema etico… Detto questo, ti faccio una domanda più personale. Hai detto che il politicamente corretto è inevitabile, ora parli di distopia: con che spirito hai scritto questo libro insieme di spiegazione e di difesa del gioco? Perché credi che uno Zeitgeist inevitabile abbia bisogno di apologia? Non pensi che -come nell’epoca della chiesa e delle istituzioni tradizionali- il compito di un intellettuale sia sfidare lo spirito del suo tempo o perlomeno la sua ambizione totalitaria?
RAV: Non mi pare di avere scritto un’apologia, perché la natura del libro non è prescrittiva ma descrittiva. Come ti dicevo è pensato come uno strumento che generalizza la conoscenza di certi meccanismi, rendendo esplicite delle cose tacite, nello spirito con cui Machiavelli aveva scritto il suo Principe. Detto questo, dal mio libro – e da questa conversazione – emergono chiaramente i lati problematici delle trasformazioni descritte: La regola del gioco è un caso pratico di come la gestione del rischio comunicativo sia diventata un buco nero che risucchia una quantità assurda di risorse. Difficile immaginare che una società ridotta così possa durare a lungo. Come in Teoria della classe disagiata siamo sempre nel perimetro della curatela fallimentare. Nel frattempo, è pur vero che ritengo abbastanza inevitabile questo giro di vite nelle spinte di “securitarizzazione” comunicativa: la società moderna, nel suo movimento secolare di distruzione dell’ecosistema ambientale e morale, ha posto le condizioni perché la distopia sia l’unica alternativa rimasta. Io non posso far altro che testimoniare.