a ragazza velata di scuro seduta di fronte a me guarda, in religioso silenzio, lo schermo del suo cellullare, dove scorrono veloci immagini ovattate di un mondo che sembra esistere solo nell’etere: plastici virtuali di future utopie urbane, cuccioli animali che si muovono goffamente senza meta, sure del corano ornate da pacchiane cornici fiorite, insegnamenti in pillole di imam dal volto annoiato, fotografie di amici e parenti in vacanza e video su come risolvere in maniera semplice ed efficace i piccoli problemi dell’umanità, come il dramma della cannuccia che affonda nel bicchiere troppo alto o la tragedia del laccio della felpa che scompare nei meandri interni del cappuccio. A far da contraltare alla ragazza, ci sono due colorite signore sulla sessantina che schiamazzano su ogni possibile argomento dello scibile quotidiano: i lavori in corso sulla strada statale, i prezzi in aumento delle stoffe al mercato, i successi del figlio avvocato a Mosca; frasi e pensieri di un mondo reale che scorre appena di là dal vetro sudicio e graffiato del finestrino. La ragazza celata, le signore corpulente e io siamo tutti diretti verso la stessa meta e il piccolo vascello da asfalto sul quale viaggiamo altro non è che uno di quei maršrutka (minibus) bianchi e malconci che sferragliano per le strade interurbane di tutte le ex repubbliche sovietiche, dalla Bielorussia al Tagikistan.
Il capolinea del nostro tragitto è una grande città ai confini geografici dell’Europa, là dove l’ordine tedioso della Russia europea si scontra con il caos avvolgente di terre di mezzo post-sovietiche che non hanno ancora trovato un continente cui appartenere: la Georgia, l’Azerbaigian, l’Armenia, l’Ossezia, l’Abcasia, stati più o meno riconosciuti, orfani di un paese perduto.
La grande città verso la quale arranchiamo con la frizione bruciata è il luogo che tutti i passeggeri di questa scatola di sardine chiamano casa. Tutti tranne me, ovviamente. Per me questa città rappresenta ancora, una sorta di terra incognita, un hic sunt leones al quale si guarda e si aspira con un misto di ansia e fascinazione, paura ed incanto, cautela e coraggio. La grande città verso la quale inesorabilmente ci stiamo affannando si chiama Groznyj, la città terribile (questa la traduzione letterale del toponimo russo), la temuta capitale della Cecenia, una terra il cui nome carico di drammi rimbomba nella mia testa.
Eppure, a onor del vero, questo non è il mio primo incontro con Groznyj e la Cecenia.
Sono dieci anni che mi reco regolarmente nel Caucaso, dalla Georgia al Karabakh, dall’Azerbaigian alla Circassia, dall’Armenia al Daghestan, ho avuto la fortuna di visitare quasi ogni angolo di questa striscia di terra montuosa, schiacciata tra Europa e Asia, tra il Mar Nero ed il Caspio, tra Cristianesimo e Islam. Poche sono le regioni del mondo che possono vantare una tale diversità antropologica su una geografia relativamente ridotta come quella dell’area caucasica, che, poco più estesa della penisola italiana, racchiude in sé un numero di etnie, lingue, tradizioni e religioni da far invidia all’India o alla Papuasia, torri di Babele ben più conosciute al mondo occidentale.
Un anonimo viaggiatore francese del XIX secolo scriveva che due sono le cose più colorate a questo mondo: i copricapi delle donne creole che ammirava sulle spiagge di Haïti e la carta etnografica del Caucaso che vide una volta, quasi per caso, nella stanza di un ufficiale moscovita al servizio dello Zar di tutte le Russie.
A quei tempi il Caucaso, così come oggi, era l’ennesimo traguardo delle mire espansionistiche dell’Impero Russo, il quale ambiva a consolidare i suoi confini conquistando queste aspre e ostili montagne strategicamente collocate tra le terre dei Sultani Ottomani, la Persia degli Scià e l’Asia Centrale degli ultimi khanati.
Il Caucaso era la terra di frontiera per eccellenza, dove mercenari, soldati, briganti, scrittori e poeti si lanciavano in avventure disperate, gesta eroiche, saccheggi sfrenati e duelli romantici, mentre poco più a nord, nelle città termali della Russia meridionale, l’aristocrazia dell’impero si perdeva nel languido edonismo di intrighi e pettegolezzi.
La mia passione e, poi, il mio profondo amore per il Caucaso hanno le loro radici proprio nei romanzi d’avventura dei grandi scrittori russi dell’Ottocento: primo fra tutti, Michail Lermontov, che al Caucaso dedicò odi, poesie e un meraviglioso romanzo breve (Un eroe del nostro tempo, 1840) e che nel Caucaso ci morì, colpito fatalmente durante un duello d’onore; Aleksandr Puškin, anch’egli morto in duello, che scrisse l’intramontabile Prigioniero del Caucaso (1822); Tolstoj con il suo Hadji Murat (1912); ma anche scrittori europei come Alexandre Dumas e Vittorio Alfieri, che, invitati da eccentrici principi russi, vissero con loro picaresche avventure tra i monti e le valli di questa terra eterna.
Inseguendo irraggiungibili e anacronistici modelli ottocenteschi e guidato da una continua ricerca giornalistica e accademica sulle complesse dinamiche etniche e politiche della regione, ho esplorato, fotografato e documentato il Caucaso e le sue molteplici sfaccettature, condividendo con la sua gente innumerevoli spiedini di carne, bicchieri di vino e di vodka, sedili di autobus e maršrutka, cuccette di treni, camere da letto e, soprattutto, storie, idee, sogni e speranze.
In Cecenia ero stato però solo una volta, quattro anni prima, per una breve visita durante il mio lungo e surreale soggiorno a Karabulak, un’anonima città di provincia nella vicina Repubblica di Inguscezia. Durante quel breve passaggio riuscii a malapena a visitare Groznyj e gettare uno sguardo sulle verdi campagne circostanti e i grigi villaggi ingusci e ceceni che si incontrano sulla strada da Karabulak.
In quell’occasione, alla caotica e polverosa stazione degli autobus di Groznyj, un tempo teatro del fiorente mercato nero post-sovietico, non c’era nessuno ad aspettarmi, ma, neanche un’ora dopo, già ero in compagnia di due robusti ragazzoni locali che con un fare un po’ paterno mi scortavano durante la mia passeggiata in città, dicendomi cosa fotografare e dove andare.
I due guardaspalle erano un gentilissimo dono non richiesto di un burocrate del Ministero degli Interni della Repubblica Autonoma di Cecenia, a cui avevo mandato un messaggio prima del mio arrivo chiedendo qualche consiglio sul paese. Il burocrate stesso mi concesse anche un incontro nel suo ufficio, mi regalò una maglietta col volto del presidente ceceno e mi fece cautamente riaccompagnare al maršrutka per Karabulak dai due gorilla caucasici. Per quanto breve, un po’ forzata e, a tratti, quasi asfissiante, la mia prima visita, mi lasciò, tuttavia, un’impressione piacevole e con uno di quei due guardiani mandatemi dal Ministero sono oggi ancora in contatto. Per la cronaca: adesso lavora come traduttore e interprete per uomini d’affari stranieri in visita a Groznyj, si è sposato con una cecena bella nell’aspetto e discreta nei modi e assieme hanno due figli. Il burocrate, dal canto suo, ha continuato la scalata ed è adesso viceministro, mentre dell’altro tenero gigante che mi tallonava ma non ho più notizie.
Quella prima visita fu però anche una sorpresa, forse quasi una delusione: mi aspettavo di arrivare a Groznyj, mostro urbano terribile, ostile e semidistrutto, e mi ritrovai a Groznyj, piacevole, solare e ordinata cittadina di provincia.
La Guerra di Cecenia, quella vera, la seconda cioè, era già finita da un pezzo, Putin e i suoi alleati locali, i signori delle armi ceceni schierati con il Cremlino, avevano trionfato su un’opposizione incapace, divisa, infiltrata e dirottata dall’odio cieco dell’islamismo militante che aveva portato con se solo abomini insensati come la strage nella scuola di Beslan e l’assedio dell’ospedale di Budënnovsk.
Groznyj per prima, Gudermes per seconda, e poi tutte le altre città della repubblica erano rapidamente tornate sotto il controllo di Mosca. Poco dopo, nonostante una guerriglia disperata, aggressiva e sempre meno popolare, Putin e i suoi mastini locali riuscirono a ristabilire l’ordine anche nelle campagne, nei villaggi e, infine, sulle montagne, simbolo geografico della resistenza contro il dominio russo.
Sapevo che i centri urbani della Cecenia erano stati ricostruiti con una velocità e un’efficienza invidiabili e che Groznyj si meritava già l’appellativo di “piccola Dubai del Caucaso”; sapevo anche che le tracce del conflitto erano state spazzate via e che al posto di decrepiti palazzi crivellati da mitraglie e mortai c’erano adesso lisce facciate color pastello senza neanche il ricordo di una crepa; sapevo pure che gli abitanti di Groznyj, il popolo fiero e terribile che aveva da solo resistito a intere armate dell’esercito russo, erano adesso schive creature cordiali che la guerra non la volevano neppure nominare.
Sapevo tutto ciò, lo avevo letto e riletto nei racconti di altri viaggiatori, visto e rivisto nelle immagini di altri fotografi, eppure, ecco, forse per un misto di macabro voyeurismo e genuino interesse giornalistico, avrei sperato di trovare almeno qualche rumore di fondo, cicatrici ancora fresche, macerie non ripulite. Niente di tutto ciò: nella nuova Cecenia non c’è spazio per gli incubi passati.
Secondo una leggenda, e le leggende in Russia sono sempre mezze verità, il principe russo Grigorij Aleksandrovič Potëmkin, sì proprio quello dell’omonima corazzata, avrebbe fatto costruire dei villaggi modello lungo le rive del Dnepr, nei territori appena conquistati dall’Impero Ottomano, per impressionare la zarina Caterina II durante un suo viaggio in Crimea nel 1787: i villaggi erano, però, di cartapesta e gli abitanti erano comparse che fingevano di vivere una vita idilliaca nelle campagne dell’Impero. Da allora l’espressione “villaggio Potëmkin” è entrata in uso per indicare luoghi e situazione palesemente posticci, creati ad hoc per compiacere il visitatore. Nella Russia di oggi e, per esteso, nell’intera ex Unione Sovietica sono molti i contesti urbani che ricordano la leggenda di Potëmkin. Baku in Azerbaigian, Batumi in Georgia, Samarcanda in Uzbekistan, Astana in Kazakistan, e certe zone della stessa Mosca sembrano quasi essere scenografie, spesso malriuscite, di film a lieto fine, erette solo per la gioia ignorante del turista e la tronfia vanagloria delle autorità locali.
Groznyj, un tempo archetipo della crudezza del reale, non fa eccezione a questo trend di piacevoli illusioni e ne è, anzi, l’esempio più lampante: un perfetto e tedioso centro urbano in cui si potrebbe ambientare una telenovela anni cinquanta. Groznyj, e con lei tutta la Cecenia, sono adesso il regno docile e ovattato dei Kadyrov, la dinastia cecena vassalla di Putin.
Così come la Corea del Nord appartiene, di fatto, alla stirpe dei Kim, la Cecenia di oggi è, infatti, la terra dei Kadyrov, del gran muftì Achmat, guida spirituale dei ribelli separatisti durante il primo conflitto e poi strenuo difensore di Mosca durante il secondo, ma, soprattutto, di suo figlio Ramzan, succeduto al padre dopo che quest’ultimo fu ucciso in un attentato terroristico durante una parata militare nella capitale da poco riconquistata agli islamisti.
Su Ramzan Kadyrov sono stati scritti migliaia di articoli e girati decine di documentari e non sarò certo io a prolungare la lista. Basti ricordare che questo eccentrico e controverso personaggio, che vanta palazzi principeschi, un parco macchine degno di un emiro e discutibili amicizie con star hollywoodiane e fuoriclasse del pallone, è spesso salito ai disonori delle cronache per lo stile autoritario e corrotto del suo regime: violazioni di diritti umani, stampa messa a tacere, oppositori scomparsi nel nulla e ingenti somme di denaro che regolarmente svaniscono dai bilanci pubblici; insomma, i soliti misfatti tipici delle élite di potere del grande e caotico universo post-sovietico.
Troppo facile sarebbe, però, cadere nella semplicistica narrativa occidentale che ama dividere il globo in dicotomie morali e ideologiche: da una parte l’Occidente, paladino di giustizia e democrazia, e dall’altra, tutto il resto del mondo brutto e cattivo.
La Cecenia è oggi, grazie anche a Kadyrov e al compromesso militare e politico con Mosca, un paese pacificato e sicuro, una repubblica costituente della Federazione Russa con un livello di autonomia politica ed economica imparagonabile allo status, spesso solo simbolico, di simili entità geopolitiche dell’ex URSS. Oggi Groznyj è una città dove le famiglie passeggiano in centro fino a tarda sera, in cui i ristoranti sono sempre pieni, così come gli scaffali dei supermercati e le pance della gente. I villaggi ceceni non sono più rifugio di barbuti jihadisti, ma sede di guesthouse e agriturismi tradizionali. Le strade della Cecenia non sono più cammini della speranza infestati di mine antiuomo, soldati allo sbando, banditi senza scrupoli e balordi di ogni genere, ma trafficate vie di comunicazione, asfaltate e regolarmente mantenute. Oggi la Cecenia è un paese “normale”, aggettivo che in russo è quasi sinonimo di eccellente.
Altrettanto facile e altrettanto fallace sarebbe, però, credere che la pax putiniana imposta ai ceceni tramite il pugno di ferro dei Kadyrov abbia davvero risolto e dissolto gli atavici orgogli, i rancori mai sopiti e le ferite ancora sanguinanti di un fazzoletto di terra, poco più grande del Lazio, che nella sua folle, vana e feroce battaglia contro il titano russo ha perso un quarto della sua popolazione. Il viale illuminato e pieno di negozi dove passeggiano gli abitanti di Groznyj sorge sulle rovine di migliaia di civili ceceni, molti di essi probabilmente parenti di quelle stesse famiglie che oggi si godono, giustamente, la serenità di una bibita e di un pacchetto di popcorn nella calura estiva. Il viale, tra parentesi, si chiama, ironia della sorte, Putin Boulevard, in onore al presidente che ordinò indiscriminati bombardamenti a tappeto sulla Groznyj controllata dagli estremisti islamici. I ceceni sono un popolo fiero e orgoglioso, memoria e onore sono pilastri della vita quotidiana: sarebbe ingenuo pensare che questa gente dai tratti duri e gentili allo stesso tempo possa dimenticare o voler dimenticare le atrocità di un conflitto che ancora brucia nei loro scuri occhi di fuoco.
E allora perché non si ribellano a questa pantomima di regime fantoccio? Perché i ceceni, demograficamente in maggioranza assoluta rispetto ai pochissimi russi rimasti nella repubblica, non si rivoltano ancora una volta al giogo di Mosca? Perché hanno deciso di nascondere la rabbia, deporre le armi e accettare che gigantografie di Vladimir Putin venissero erette nelle stesse strade e nelle stesse piazze dove migliaia di ceceni disarmati furono obliterati dal fuoco dell’aviazione russa?
Le risposte a questi interrogativi non sono, poi così difficili da trovare e basta aver voglia di far quattro chiacchiere con gli abitanti di Groznyj, Argun, Gudermes o Vedeno per avere un’idea piuttosto chiara dei motivi che hanno spinto i ceceni a nascondere le braci ancora roventi sotto un pesante tappeto ricamato.
Innanzitutto, Kadyrov è riuscito, nel bene o nel male, a creare una Cecenia semi-indipendente, governata da usi e costumi tradizionali e nella quale l’islam e la sharia giocano un ruolo di primo piano nella legislazione locale e nella vita di tutti i giorni. Ramzan Kadyrov ha raggiunto così, con compressi e sotterfugi vari, il traguardo dei jihadisti ceceni della prima ora: creare uno stato islamico nel Caucaso settentrionale. Scegliendo la scuola sufi e tradizionale al posto dell’estremismo wahabita, il presidente ceceno si è ingraziato le simpatie delle autorità russe, che in cambio di una seppur incerta garanzia di fedeltà politica, chiudono un occhio sui dettami da emirato islamico che vigono adesso in Cecenia e che sono inconciliabili con i capisaldi della costituzione federale russa.
Molti ceceni vedono quindi in Kadyrov un leader che, senza spargere (troppo) sangue, è riuscito comunque a mantenere le promesse di autodeterminazione religiosa, politica e culturale verso la quale agognavano i violenti e disorganizzati separatisti degli anni novanta.
Inoltre, c’è un detto, attribuito a Tacito, che spesso viene ripetuto nell’ex Unione Sovietica: una cattiva pace è sempre meglio di una buona guerra. Il crollo dell’URSS ha portato con sé fame, orrore, degrado e distruzione in quasi ogni provincia del grande impero proletario voluto da Lenin. Il filosofo russo Alexandr Herzen scriveva, già nell’ottocento, che il collasso di un sistema politico e sociale non lascia mai un erede, ma una vedova incinta: tra la morte del primo e la nascita del secondo passeranno lunghe notti di caos e disperazione (Dall’altra sponda, 1848-50). Mai parole furono più profetiche nel caso dell’ex URSS, una terra che ancora oggi, si veda il Donbass, è martoriata da scontri fratricidi e dispute irrisolte. Le due guerre di Cecenia (1994 – 1996 e 1999 – 2000) furono, tra tutti i conflitti post-sovietici, di gran lunga i più atroci. Gli incubi di quegli anni perseguitano ancora i Ceceni di oggi e la pace, per quanto forzata, resta comunque la migliore delle soluzioni possibili.
Tutto ciò mi appare ancora più chiaro durante questo secondo viaggio in Cecenia. Groznyj splende, più ordinata, ridente, pulita e islamica che mai.
Il maršrutka arriva, ormai esausto, alla stessa stazione polverosa di quattro anni prima, ma di polveroso è rimasta davvero solo lei. La città è un tripudio di caffè, bar e ristoranti all’ultima moda che servono sushi e hamburger, pizzerie pseudo italiane ricolme di famiglie cecene, sgargianti edifici in vetro e acciaio, ma anche imponenti e futuristiche moschee, negozi di hijab e tappetini da preghiera, centri di studi islamici finanziati con i soldi del Golfo: atmosfere surreali e anche un po’ kitsch degne, appunto, del peggiore emirato arabo. Gli altri grandi agglomerati urbani della repubblica, che stavolta ho modo di visitare con più calma, seguono il modello della capitale: a Gudermes, importante centro petrolifero, svettano anonimi grattaceli di un mondo nuovo e senza storia; ad Argun, fulcro spirituale del paese, sorge una gigantesca moschea che sembra uscita da Star Wars; mentre a Vedeno, un tempo roccaforte dei separatisti, le strade assettate e la gente discreta e cordiale ricordano il clima dormiente di un villaggio bavarese.
A prendermi a Groznyj, questa volta, è venuto Amir, un bravo collega, ormai quasi un amico, di origine ingusce ma residente a Groznyj dagli anni del conflitto. A bordo del suo SUV nuovo di zecca trascorro una tranquilla settimana di vacanza tra città modello, campagne idilliache e paesaggi montani da sogno, dove l’unico ricordo delle guerra sono gli occasionali posti di blocco gestiti da svogliate reclute dell’esercito russo.
A monito della pervadente presenza di un regime autoritario si vedono, invece, quasi ovunque, i minacciosi kadyrovtsy (i membri dell’esercito privato di Ramzan Kadyrov) in tenuta mimetica scura, con lunghe barbe al mento e mastodontici fucili tra le mani.
Amir li guarda con disprezzo e mormora parole di sdegno nei loro confronti: schiavi di un regime a sua volta schiavo di Mosca, ceceni traditori e corrotti che gridano allah-u-akhbar (Dio è grande) mentre giurano fedeltà al Cremlino, contraddizioni viventi che deambulano tronfi con i loro corpi muscolosi e volgari.
Amir, che negli anni novanta lavorava come autista e interprete per la Croce Rossa Internazionale, le guerre di Cecenia le ha viste tutte, così come ha visto questo paese cambiare, da tranquilla e pacifica provincia di un’Unione Sovietica apparentemente armonica e multietnica, a inferno di fumo, stupri, proiettili e massacri, e infine, adesso, a gigantesca scenografia di delicati equilibri sociali e politici, un immenso villaggio Potëmkin di tensioni nascoste sotto pesanti mani di tinta e sorrisi incisi col pugnale su volti stanchi ed arresi.
Tuttavia, anche Amir sa che non esistono, al momento, alternative migliori per la Cecenia. La gigantesca ipocrisia da macchina propagandistica di regime, l’umiliazione quotidiana, la sottomissione al nemico di un tempo sono sempre e comunque preferibili al sogno aggressivo e irrealizzabile di un’indipendenza totale e, soprattutto, alla follia del jihadismo tribale che lo seguì.
Mentre ammiriamo la sublime vastità del Caucaso seduti sulle rovine di Khoy, antica necropoli al confine col Daghestan, Amir sospira e ripete ancora una volta che in fondo una pace falsa e bugiarda è sempre meglio di una guerra vera e sincera. Almeno per ora.
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