I l 16 ottobre del 2017 Daphne Caruana Galizia, nota giornalista investigativa, sale a bordo della sua auto, parcheggiata fuori casa sua, in una zona rurale di Malta. L’autobomba posta sotto la vettura esplode, e Daphne muore. Era impegnata da molti anni in un lavoro di inchiesta ad ampio spettro sulla corruzione e gli affari sporchi nel suo Paese. In particolare, stava lavorando da mesi sulle ramificazioni maltesi dell’inchiesta internazionale Panama Papers e il suo lavoro aveva scosso nel profondo l’isola, i cui più alti ranghi e il governo erano coinvolti nelle rivelazioni della giornalista.
Matthew Caruana Galizia è il figlio maggiore di Daphe e, a sua volta, giornalista per conto dell’International Consortium of Investigative Journalists, l’organizzazione internazionale che ha coordinato l’inchiesta sui Panama Papers. Lo incontro a Riccione, durante il festival di giornalismo investigativo DIG Awards, di cui è ospite per tenere un discorso durante la cerimonia di premiazione del festival. Noto subito che non parla mai della “morte” di sua madre, bensì del suo “assassinio” o ’“esecuzione”. Parla con una sobrietà e una lucidità impressionante e cerca costantemente di razionalizzare i fatti, le ragioni, le circostanze, le conseguenze. Sceglie le parole con precisione meticolosa.
Matthew era in casa al momento dell’esplosione ed è stato il primo ad arrivare sulla scena: al Guardian ha raccontato di aver capito che era un’autobomba un secondo dopo aver sentito il botto. Non c’è modo di eludere una storia del genere, o di sperare di farla emergere in un’intervista – come era la mia idea prima di sedermi allo stesso tavolo con lui – con domande ampie e astratte sul ruolo del giornalismo nel contemporaneo. L’assassinio di sua madre, il contesto in cui è avvenuto, è la risposta a qualsiasi domanda altra. E ogni risposta di Matthew è potente e a fuoco come la testimonianza che sta portando avanti.
“Noi, i giornalisti, siamo gli ultimi a indagare, siamo l’ultima risorsa”, mi dice Caruana Galizia quando gli chiedo se la funzione del giornalismo investigativo sia cambiata negli ultimi anni, “in particolare chi si occupa di temi e questioni come le mie, o quelle di cui si occupava mia madre. Il più delle volte, indaghiamo quando il fallimento delle autorità e delle loro inchieste è già avvenuto. Questo mette tantissima pressione su di noi: il nostro lavoro è sempre ad altro rischio, perché siamo esposti pubblicamente e perché forniamo prove fattuali di crimini e corruzione alla sfera pubblica. E lo facciamo quando le autorità hanno già fallito nel svolgere questo compito. Siamo gli ultimi rimasti tra lo stato di diritto e le persone che vengono indagate. Mia madre era esposta a questo rischio e le persone che fanno il suo medesimo lavoro lo sono allo stesso modo”.
In relazione all’omicidio della madre, nei confronti del quale i fratelli Caruana Galizia stanno portando avanti una battaglia di trasparenza dentro e fuori l’informazione, a Malta e sul piano internazionale, questo si traduce nel “cercare di forzare le autorità a fare il loro lavoro. Come giornalisti siamo sì l’ultima spiaggia per le indagini, ma non possiamo arrestare nessuno, né possiamo formalizzare accuse contro nessuno. Non abbiamo autorità in questo senso. Quello che vogliamo fare è far sì che lo stato torni a funzionare davvero”.
Nel dicembre del 2017 le autorità maltesi hanno arrestato e accusato tre persone per aver messo la bomba sotto la macchina di Daphne Caruana Galizia. Quando gli chiedo dello stato delle indagini sull’omicidio, Matthew non nasconde l’amarezza nei confronti di indagini che non sembrano proseguire in nessun modo: “non sappiamo cosa succederà, a essere sinceri”, mi racconta Matthew, che ha spesso denunciato le difficoltà e gli insabbiamenti posti al proseguimento dell’indagine: “vista da fuori, che è dove siamo noi, sembra che non stia succedendo nulla. Tre persone sono state arrestate, ma il processo non è iniziato nonostante sia passato un anno e mezzo dagli arresti. Non sembra sia stato fatto alcun progresso oltre agli arresti dei sicari, o meglio delle persone immediatamente responsabili di aver messo la bomba sotto la macchina. Queste persone non sono quelle che hanno fabbricato la bomba, o che hanno ordinato l’assassinio. E non sono le persone che mia madre stava indagando”.
Già nel 2017, una delegazione di europarlamentari si era recata a Malta per supervisionare le indagini e valutare l’avanzamento delle inchieste: nel suo report, la delegazione ha denunciato gravi mancanze nella gestione del lavoro giudiziario e l’assenza di trasparenza nei confronti della famiglia. Nel giugno di quest’anno, lo Special Rapporteur of the Parliamentary Assembly of the Council of Europe (PACE) ha pubblicato un altro report, sollevando ulteriori preoccupazioni sulle indagini e lo stato complessivo del sistema giudiziario maltesi.
Diverse organizzazione che si occupano di libertà di stampa hanno scritto una lettera aperta ai leader europei, compreso il Premier Conte, chiedendo di mettere pressione al governo maltese.
In quel contesto, il Rapporteur Pieter Omtzigt chiedeva a Malta di aprire una public inquiry sul caso, una posizione sostenuta anche da una risoluzione del Parlamento europeo, che la rende, di fatto, legalmente vincolante. In quel contesto, il Parlamento ha anche chiesto alle Istituzioni europee di far partire un’inchiesta propria, sia nei confronti dell’omicidio che in quelli dei casi che Daphne Caruana Galizia stava investigando. Il governo di Malta non ha mai rispettato le richieste europee e continua a bloccare l’apertura di una public inquiry. Lo scorso giugno, diverse organizzazione che si occupano di libertà di stampa hanno scritto una lettera aperta a vari leader europei – compreso il Premier Conte – chiedendo di mettere pressione al governo maltese.
“Malta è nelle stesse condizioni di quando mia madre è stata uccisa, non c’è stato alcun miglioramento”, mi dice Matthew, “in molti sensi, forse, la situazione è persino peggiorata perché i tentativi di insabbiamento si sono fatti più disperati e il controllo sulle istituzioni da parte degli interessi di parte e criminali è peggiorato. Questo significa che il nostro lavoro è diventato ancora più necessario”.
Daphne Caruana Galizia era una giornalista notissima a Malta e, in particolare, aveva indagato molto spesso nei confronti di vari membri del partito laburista, ora al governo. Negli anni, aveva comunque ricevuto denunce per diffamazione anche da parte di persone connesse al partito nazionalista, ora all’opposizione. Il Primo ministro Joseph Muscat, contrariamente ad altre personalità politiche, non ha mai ritirato le sue denunce, anche dopo l’omicidio di Caruana Galizia. Complessivamente, nonostante l’assassinio di Daphne, la famiglia Caruana Galizia ha ereditato 46 cause in corso. Dal 2016 in avanti, Caruana Galizia si era gettata nei Panama Papers, lavorando sul coinvolgimento di membri del governo in carica in alcune aziende offshore e sui meccanismi di vendita della cittadinanza maltese (ne 2018 un’inchiesta nazionale ha scagionato i Muscat per insufficienza di prove). La famiglia Caruana Galizia ha raccontato in varie occasioni il clima di intimidazione e minacce in cui la giornalista era costretta a lavorare.
I Panama Papers hanno mostrato i rapporti stretti, in diversi contesti, tra politica e criminalità organizzata e il ruolo delle economie offshore in questo contesto. Complessivamente, quella inchiesta, che ha coinvolto la Suddeutsche Zeitung, l’International Consortium of Investigative Journalists e oltre 200 media partner in 80 Paesi, ha consentito alle autorità fiscali di recuperare oltre 1,2 miliardi di dollari in tasse evase. “Questi network offshore e criminali non sono un settore di nicchia, sono il modo in cui il mondo viene gestito”, mi dice Matthew Caruana Galizia raccontandomi la significanza di quella inchiesta, “sono la causa di molte delle ingiustizie e dei crimini di cui leggiamo. Non è un sistema economico parallelo, è ‘il’ sistema economico, è la base dell’economia per come la intendiamo oggi, o per come ne facciamo esperienza oggi. Molte tra le aziende più grandi al mondo usano gli stessi sistemi e le stesse scappatoie che sono usati dai network criminali internazionali”.
I giornalisti stanno facendo quello che le autorità internazionali non sono riuscite a fare: indagare i crimini e la corruzione che operano su un piano sovranazionale.
L’autobomba non ha fermato il lavoro di Daphe Caruana Galizia e un consorzio di giornalisti internazionali ha portato avanti alcune delle inchieste della giornalista maltese in modo collaborativo con il Daphne Project: “il più grande merito del progetto è stato quello di rendere mia madre e il suo lavoro impossibili da ignorare e, per il governo di Malta, da insabbiare. Quello è stato un grande successo”, dice Matthew Caruana Galizia con gratitudine e convinto che la collaborazione sia lo strumento migliore per i giornalisti che vogliono fare inchieste in contesti difficili o quando sono sotto pressione: “è l’unico modo. I giornalisti stanno facendo quello che le autorità internazionali non sono riuscite a fare: indagare i crimini e la corruzione che operano su un piano sovranazionale”.
Matthew Caruana Galizia parla di sua madre e del suo lavoro anche quando non lo cita direttamente. Emerge, da ogni parola che sceglie e da ogni gesto che fa per accompagnarle. Indagare l’uccisione di sua madre è, oggi, per lui, il suo lavoro da giornalista: battersi per una verità tanto intima e pubblica allo stesso tempo. È un’idea quasi impossibile da razionalizzare e posso solo chiedergli come ci riesca: “non posso nemmeno immaginarmi di fare qualsiasi altra cosa o di tornare a fare il mio lavoro di prima. Ovviamente è personale, ma cerco di non renderlo troppo personale, perché in quel caso sarebbe ancora più difficile. Lo sto facendo perché significa molto per me, ma allo stesso tempo occorre desensibilizzarsi nei confronti del crimine e della sua vittima al fine di svolgere il lavoro in modo più efficiente. Se dovessi pensare costantemente all’omicidio e a come mia madre sia stata intimidita prima della morte, per me sarebbe impossibile proseguire”. “Fondamentalmente”, mi dice includendo il resto della sua famiglia nella risposta, “è l’unica cosa che potremmo fare”.