È da poco passata la mezzanotte di venerdì 19 ottobre quando Sebastián Piñera, presidente della Repubblica Cilena, invoca la Ley de Seguridad e decreta lo stato d’eccezione costituzionale nella Regione Metropolitana di Santiago. La decisione, problematica perché rispolvera un dispositivo del diritto che coincide con la sospensione di alcuni diritti fondamentali, viene presa per contrastare i disordini provocati in prima battuta da gruppi di studenti in protesta contro l’aumento del costo dei trasporti, e che presto coinvolgeranno grossa parte della popolazione santiaghina.
Tra le quattro contemplate dalla Costituzione cilena, la forma scelta è quella dello stato d’emergenza: invocato per gravi disordini di ordine pubblica, comporta la limitazione del diritto di riunione e del diritto alla libera mobilità. 24 ore dopo si aggiungerà a questa misura, che riporta la memoria storica del popolo cileno agli anni più bui del paese, la proclamazione del coprifuoco. È la prima volta dai tempi della dittatura, escludendo catastrofi naturali come il terremoto del 2010, che le strade vengono interdette ai cittadini. Il primo giorno dalle 22, il secondo dalle 19, il terzo dalle 20.
Dal momento dell’entrata in vigore di queste misure eccezionali, le strade di Santiago cominceranno a riempirsi ancor più di manifestanti. Le inonderanno. Ma non solo. Quelle strade, di sera e di notte vietate, si popolano di altri attori: i rumori del “cacerolazo” (una forma pacifica di protesta che consiste nello sbattere pentole e posate, dichiarando così la propria fame) si sovrappongono alle sirene delle volanti e delle ambulanze; i canti di protesta cedono ora la parola alle urla dei manifestanti in fuga; un odore acre, denso, pungente, a tratti toglie il respiro. Sono le bombe lacrimogene che carabinieri e manifestanti si lanciano e si restituiscono, come se giocassero a un drammatico gioco per bambini. Il cielo si oscura, si annerisce: sono barricate in fiamme, sono incendi. Altri rumori, ormai a qualsiasi ora, squassano la città e fanno sobbalzare: qualcuno ha sparato. Dopo due settimane di protesta, l’Instituto Nacional de Derechos Humanos stilerà il bilancio di queste giornate furibonde: 20 morti (di cui 12 in seguito a episodi d’incendio); 2 scomparsi; 1132 feriti civili; 101 denunce contro agenti della polizia di Stato (di cui 18 per violenze sessuali); 3243 arresti.
Sono questi gli elementi giuridici, ma anche e soprattutto urbani, sonori, olfattivi,e infine statistici, che segnano in maniera indelebile non solo questi giorni convulsi, ma anche la storia di un paese che si è autorappresentato negli ultimi anni come un’oasi felice, serena, quieta, prospera, sicura. Questa oasi, però, come dimostrano gli eventi ai quali stiamo assistendo, era in effetti una pentola a pressione pronta ad esplodere.
Per ricostruire la situazione cilena e le ragioni della protesta è necessario inquadrare l’attuale scenario in un immaginario ben preciso che l’attuale governo ha abilmente cavalcato e fomentato, e per il quale, va sottolineato, è stato legittimamente eletto. Il Cile incarna a tutti gli effetti quel miraggio di felicità di cui il “neoliberalismo”, spesse volte evocato come un mostro che popola i sogni di alcuni e gli incubi di altri, si nutre: educazione eccellente, sanità efficiente, quartieri sicuri. Un sistema di trasporti in superficie e sotterraneo all’avanguardia. La possibilità di accedere a quei beni, a quei privilegi, a quelle esperienze che altri modelli negano. Il tutto in un pezzo di mondo, l’America Latina, che generalmente soffre ben altre condizioni. Il Cile si è, negli anni, fregiato di questo contrasto.
Ora, questa oasi effettivamente esiste, e sarebbe disonesto negarlo. Il punto è che il suo ingresso è ben presidiato. Direi sbarrato. La realtà materiale del Cile, se si guarda appena oltre il velo della propaganda che lo dipinge come il paradiso latino, se si guarda oltre le tabelle che vengono tirate fuori per dipingere i lamenti di una popolazione come dettati da una “errata percezione”, è quella di un paese segnato da una pesantissima disuguaglianza sociale, economica, culturale, nel quale le condizioni di vita delle classi privilegiate non condividono nulla delle condizioni della maggioranza del paese. Le istituzioni private, proclamate come eccellenze del Sud America, forniscono altissime prestazioni in materia di istruzione e sanità, ma risultano inaccessibili alla maggior parte dei cileni, a coloro che vivono con un salario minimo di 301.000 pesos (circa 370 euro) e devono accontentarsi di servizi di ben altra qualità. Questa differenza di condizioni si registra, potenziata, nella fascia più debole della popolazione: quella degli anziani, dal momento che le pensioni cilene sono tra le più basse al mondo a fronte di un costo della vita di poco inferiore rispetto allo standard italiano.
Alla luce delle condizioni reali di vita della maggioranza dei cileni, risulta chiaro perché sostenere, come si è tentato di fare inizialmente, che l’ondata di violente proteste che sta attraversando il Cile sia dovuta all’aumento di 30 pesos (circa 4 centesimi di euro) a corsa per il sistema di trasporti a Santiago, sia un oltraggio all’intelligenza politica di un popolo in rivolta. Ma forse questa è una strategia ben precisa, utile a delegittimare la protesta in tutte le sue forme, dalle più pacifiche alle più selvagge, laddove la misura è stata congelata. Venuta meno la causa, l’effetto è illegittimo. Ma le cause strutturali e profonde di questa protesta sono piuttosto gli effetti a lungo termine di un modello economico e antropologico che sta fallendo perché non è più in grado di giustificare le disuguaglianze che necessariamente produce. Un modello che ha visto nel Cile il suo primo amante: Milton Friedman, con i suoi Chicago Boys, aveva visto proprio in questa lingua di terra lo spazio dove applicare le sue teorie. Insomma, il Cile è un punto di vista privilegiato: è neoliberalismo da laboratorio.
Ed è proprio in quanto dettata da ragioni strutturali profondissime, dalle irricevibili disuguaglianze sociali che il neoliberalismo si porta appresso come sua conseguenza fondamentale, che le modalità di gestione della crisi adottate dal governo sono risultate intollerabili. Dichiarare lo stato di emergenza e invocare il coprifuoco non significa solamente riportare le lancette della memoria storica a momenti tremendi della storia cilena. Non è solamente, come alcuni commentatori sostengono, il “fastidio” nei confronti delle forze militari che presidiano le strade a provocare ulteriormente la folla in rivolta. Il problema delle misure emergenziali adottate è che fanno coincidere punto per punto una protesta di massa, che interessa la quasi totalità dei 52 comuni che compongono la Regione Metropolitana di Santiago e che si è presto estesa alle altre città cilene (Concepción, Valparaíso, Temuco e Arica), con un problema di ordine pubblico da ricondurre a questioni securitarie.
Le cause strutturali di questa protesta sono gli effetti di un modello che non è più in grado di giustificare le disuguaglianze che produce.
A questo appiattimento del significato della protesta hanno senza dubbio contribuito i media cileni, che hanno offerto uno scorcio parziale della protesta, concentrandone la narrazione nei giorni immediatamente successivi la proclamazione dello stato d’emergenza su due fenomeni connessi: da un lato, gli osceni saccheggi dei supermercati e gli incendi provocati in luoghi sensibili quali le stazioni della metropolitana; dall’altro lato, l’auto-organizzazione degli abitanti delle zone maggiormente colpite da questi atti vandalici. Questi fenomeni sono certamente aspetti importanti della protesta, ma non possono essere interpretati come se la sua legittimità dipendesse dalla forma che assume.
La questione politica fondamentale non è un buon manifestare opposto a un cattivo manifestare, ma le ragioni del manifestare. La questione centrale da mettere a fuoco sono le ragioni politiche ed economiche su cui si fonda questo movimento di protesta, che abbraccia tutte le sfumature possibili. Ed è proprio questa messa a fuoco che al momento è rifiutata dall’attuale governo, perché implicherebbe una messa in discussione radicale di un modello che non è più in grado di legittimare le profonde disuguaglianze che senza sosta produce e riproduce. Lo Stato non può risolversi nel principio della sicurezza, che altro non è se non la moderna forma politica e giuridica nella quale s’inscrive l’esistenza materiale del popolo. La crisi profonda che sta vivendo il Cile non può essere risolta con misure emergenziali che nulla hanno di politico, e che anzi concorrono a fomentare l’insofferenza crescente di un popolo nei confronti dello Stato.
Lo stesso comportamento delle forze dell’ordine, che nei primi giorni di protesta sono parse inclini più che altro a monitorare la situazione, si è nelle ultime 24 ore fortemente inasprito, moltiplicando gli episodi di violenza e presunta violazione dei diritti umani. La ricostruzione di uno spazio di dialogo, che rimane un momento fondamentale della vita politica di un popolo nei suoi rapporti con lo Stato e al quale, anche all’interno di uno scenario altamente conflittuale, non si può rinunciare, non è compatibile con una gestione repressiva di una protesta. Nemmeno quando tale gestione, come nel caso degli arresti in orario di coprifuoco, risultasse pienamente conforme al dettato costituzionale. La gestione securitaria del conflitto non è una mossa neutra, ma è essa stessa un’azione politica, perché conferisce alla protesta un alone di illegittimità e trasforma il manifestante in nemico. Non è un caso che Piñera in una conferenza stampa abbia dichiarato che estamos en guerra, per precisare l’affermazione solo in un secondo momento, riportandola alla logica della buona vs. cattiva manifestazione. L’effetto di una simile gestione della crisi non può che essere, in un gioco di riflessi infinito, uno scollamento totale dei manifestanti rispetto allo Stato.
Incalzato da una protesta che non si frena, Piñera ha recitato durante una conferenza stampa un mea culpa, promettendo misure di welfare e d’inclusione sociale, a partire dall’aumento del salario minimo e della pensione minima. Tuttavia, per quanto tali misure (se realmente perseguite) possano servire ad alleviare temporaneamente il malcontento popolare, la risposta a una crisi sociale e politica di tale ampiezza deve necessariamente passare dalla messa in stato d’accusa del modello economico che ha generato la protesta. Vasto programma, ma a una crisi radicale di un modello non si può che rispondere con la messa in discussione del modello stesso, che certo non può essere ribaltato da un giorno all’altro. Proseguire sulla strada delle misure emergenziali significherebbe non aver ascoltato la domanda radicale di giustizia sociale che i cileni stanno ponendo. La sordità di uno Stato nei confronti del suo popolo può comportare unicamente la rottura definitiva del patto sociale. Le conseguenze, in questo caso, non possono che essere catastrofiche.
Tuttavia, è opportuno sottolineare che la massiccia trasversalità della protesta, priva di una componente di classe consapevole di altro se non il proprio disagio reale, se non adeguatamente organizzata può rivelarsi un boomerang. Senza una componente politica e sociale capace di mediare il “materiale selvaggio” della piazza, e quindi di interloquire con lo Stato, di porre su un tavolo un’agenda di richieste, il rischio è di legittimare la sordità dell’attuale Governo. L’eterogeneità della piazza comporta necessariamente una pluralità di esigenze che solo attraverso l’inaugurazione di una nuova fase della protesta, una fase maggiormente propositiva e organizzata, può trasformarsi in istanze concrete con le quali inchiodare alle sue responsabilità politiche il presidente Piñera. In assenza di questa fase di mediazione, il rischio per i manifestanti è quello di procedere a tentoni, per “prove ed errori”, senza tenere di conto i danni materiali che questa tattica necessariamente comporta. Così va interpretato il nuovo divampare della protesta dopo la storica marcia del 25 ottobre, che ha raccolto circa 1 milioni di manifestanti che hanno pacificamente percorso Avenida Providencia fino a Plaza Italia. Al cambio di Gabinetto proposto da Piñera come risposta a questa storica marcia, un centinaio di manifestanti ha a sua volta risposto incendiando un albergo a Parque Bustamante, e ciò ha provocato un’aspra dialettica interna ai manifestanti stessi sulla legittimità dei mezzi rispetto ai fini.
Le profezie sono affare da ciarlatani, e dunque è sconveniente farne. Soprattutto mentre ancora si discute della possibilità di una nuova fase costituente, mentre ancora si protesta per le strade, mentre ancora si contano i danni e si elencano i morti. L’esito della protesta cilena non è affatto scritto, e il “nulla sarà più come prima” che sull’onda dell’entusiasmo si ripete in continuazione deve passare la prova del tempo.
Di queste violente settimane, tre punti rimangono come acquisizioni preziose per una critica del nostro tempo: l’evidenza che il modello economico-politico neoliberale non è più grado di giustificare le disuguaglianze che produce, e quindi necessita del manganello per imporsi; la non scontata ricevibilità per l’opinione pubblica del rapporto tra la rivolta e i danni materiali ch’essa necessariamente porta con sé; la necessità di una mediazione politica tra le piazze in rivolta e i governi. Senza quest’ultima, stretto sentiero tra strade sbarrate, il rischio è che la forza poliziesca diventi una volta di più l’interlocutore principale della piazza in rivolta.