C he direbbe Emilio Isgrò – il grande artista delle “cancellature” di parole stampate – se uno gli facesse notare che i suoi segni neri ricordano quelli dei documenti d’archivio censurati, obliterati dalle autorità? Sicuramente resterebbe un po’ perplesso per l’accostamento. Perché i motivi per cancellare parole non sono sempre gli stessi. Che cosa coprono, infatti, i segni neri, sulle riproduzioni di carte d’archivio emerse da depositi segreti (o i “bianchi”, se si tratta di documenti pdf)?
Se è facile immaginare cosa si nasconde dietro un intervento puntuale del censore, che lasci aperto, leggibile il contesto tutto intorno – sarà un nome proprio, una data, una serie di numeri – osservando, invece, larghi blocchi di testo occultati, pagine e pagine, è impossibile risalire al contenuto sottostante. Per fare qualche passo avanti su questa strada – in questo labirinto – non ci resta che inseguire la logica di quell’intervento del censore, così esteso: che cosa si voglia coprire, in generale; e poi che cosa quello specifico “sistema del segreto” stia, appunto, segretando in quel momento.
La storia dei servizi segreti, nei limiti in cui può esistere, potrebbe aiutarci a rispondere per analogia alla prima domanda. Sembra che il sistema copra, prima di tutto, il modo in cui lavora, le sue procedure di segretezza e le collaborazioni di cui si giova, poi coprirà, si immagina, gli ordini ricevuti dalle autorità politiche, e la loro eventuale incoerenza, o controversa natura, e più o meno volubile finalità; infine coprirà, magari, la occasionale mediocrità di alcune sue azioni.
Ma fino a che non siano conosciuti gli specifici sviluppi ed eventi, coperti per ipotesi con quei segni neri, non sarà possibile rispondere alla seconda domanda: se non si sa che cosa sia successo, non è possibile neanche provare a dedurre che cosa sia occultato in quello specifico caso, e perché lo sia. Da una parte, dunque, si lavora per analogia e in una certa misura con l’immaginazione, talvolta tirando a indovinare; dall’altra semplicemente si aspetta, e si spera, che il tempo, o qualche grosso rivolgimento epocale, rendano visibili cose che ora non è possibile vedere, e si renda finalmente ragione non solo dei fatti occultati, ma anche dei motivi dell’occultamento.
Se non si sa che cosa sia successo, non è possibile neanche provare a dedurre che cosa sia occultato in quello specifico caso, e perché lo sia.
Ha fatto benissimo, quindi, Leonardo Mineo ad aprire questo bel volume sulle Carte di piombo (che ha curato con Simona Greco per le Edizioni Anai nel 2022) con la citazione di un passaggio di Marc Bloch, che ci porta in pieno dentro quest’ordine di problemi (Apologie pour l’histoire ou Métier d’historien, cap. II, par. 3). Lo storico francese partiva da un’amara constatazione: “Ce sont les révolutions qui forcent les portes des armoires de fer et contraignent les ministres à la fuite, avant qu’ils n’aient trouvé le temps de brûler leurs notes secrètes.” [Sono le rivoluzioni a forzare le porte degli armadi di ferro e a costringere i ministri a fuggire, prima che abbiano trovato il tempo di bruciare le loro note segrete].
E proseguiva facendo qualche esempio di istituzioni impregnate della “mentalité de l’initié” [mentalità dell’iniziato], che impedisce la conoscenza precisa delle cose (la Banca di Francia, la Compagnia di Gesù). Perché la situazione cambi, concludeva Bloch, la nostra civiltà dovrà cambiare. Scompariranno, insieme con la mentalità iniziatica, la negligenza, per cui i documenti si perdono; la mania del segreto (diplomatico, degli affari, delle famiglie); l’abitudine alla dissimulazione, “érigée en méthode d’action et presque en bourgeoise vertu” [come metodo d’azione e quasi come virtù borghese]. Trionferà il “goût du renseignement: c’est-à-dire, nécessairement, des échanges de renseignements” [gusto dell’intelligenza: cioè, necessariamente, degli scambi di saperi].
Questo libro sulle Carte di piombo fa sospettare al lettore che il tempo nuovo, visionariamente annunciato da Bloch, non sia ancora arrivato. Ci sono tra le sue pagine non solo reiterate denunce di interi fondi archivistici perduti o introvabili, sia ordinari che segreti, ma anche descrizioni analitiche di archivi segreti solo in minima parte desegretati.
Che poi anche quella di Marc Bloch era, appunto, una visione, quasi una profezia. È possibile che nel momento in cui scriveva, all’inizio del 1943, vivesse già da clandestino come membro della Resistenza, immerso nella segretezza, girasse con documenti contraffatti, bruciasse documenti sul fornello del gas – altro che gusto di informare.
Si spera che il tempo, o qualche grosso rivolgimento epocale, rendano visibili cose che ora non è possibile vedere, e si renda finalmente ragione non solo dei fatti occultati, ma anche dei motivi dell’occultamento.
È curioso, tra l’altro, che egli non citi il segreto di Stato tra i vari tipi di segreto che elenca, ma solo quello diplomatico; che insomma non metta qui a fuoco la dimensione del segreto relativa, anche, alla politica interna dello Stato, che certo ha innumerevoli connessioni con quella estera, ma che poi si esprime nel governare un paese, e nell’assicurarsi un certo consenso da parte dei governati. Nell’insistere, come Bloch in parte fa in questo passaggio del Métier, sull’iniziazione, sulla mentalità iniziatica – di coloro che sono dentro, mentre tutti gli altri restano irrimediabilmente fuori (è questo l’argomento del classico di Frank Kermode, Il segreto nella Parola, libro dedicato “A coloro che sono fuori”) – si manifesta un pensiero politico, implicito probabilmente, ma che si può provare a esplicitare.
Bisognerà che – nella civiltà futura – chi entri nella “stanza dei bottoni” non senta la necessità di proteggere il proprio potere ambientandolo in un’atmosfera iniziatica: che non esista più, in altre parole, la distinzione netta tra dentro e fuori. Che non esista più, almeno, quella separazione che c’è ancora oggi: un “dentro” fortificato, anche opportunamente, secondo la vecchia tradizione realistica della ragion di Stato, e un “fuori” irrimediabilmente escluso e rancoroso, sempre meno convinto, con qualche fondamento, delle virtù dei rappresentanti del popolo. Torna in mente la delusione di Pietro Nenni, entrato nel 1963 in quella stanza di Palazzo Chigi.
Uno degli ultimi scritti pubblicati da Bloch, nel 1944, accenna proprio a questo punto delle iniziazioni. Tra i libri arrivati alla redazione delle “Annales”, in attesa di essere recensiti, egli – incuriosito forse dalle sue recenti esperienze di clandestinità – ne recupera uno, vecchio di sei anni, a prima vista eccentrico rispetto ai temi della rivista: P. Geyraud, Les sociétés secrètes de Paris, Paris, Emile-Paul, 1938. Pierre Geyraud era lo pseudonimo di Raoul Guyader (1890-1961), un ex religioso che era stato allievo di A. Loisy, e che scrisse molto su temi di esoterismo. Ecco quel che ne scrive:
Sociétés secrètes d’aujourd’hui. — Le reportage de M. Pierre Geyraud donne ce qu’on pouvait attendre d’une étude résolue, d’avance, à ne rien creuser à fond. L’auteur décrit un bon nombre de faits curieux, souvent peu connus. Il a une juste conscience de la valeur émotive qu’a gardée, jusqu’à nos jours, la vieille et vénérable notion du rite initiateur. Il ne s’efforce guère de classer les groupements, en somme assez disparates, qu’il nous invite à passer en revue. Il néglige totalement leur arrière-plan social. En un mot — et c’est là son principal mérite, qui n’est pas à dédaigner, — il inspire l’envie d’en savoir plus long, beaucoup plus long, sur les formes de vie collective, singulièrement tenaces, dont il ne nous offre qu’un très rapide crayon.
[Le società segrete oggi. – La relazione del signor Pierre Geyraud fornisce ciò che ci si può aspettare da uno studio che è stato aprioristicamente determinato a non scavare in profondità. L’autore descrive un buon numero di fatti curiosi, spesso poco conosciuti. È giustamente consapevole del valore emotivo che la vecchia e venerabile nozione di rito iniziatico ha conservato fino ad oggi. Si sforza poco di classificare i gruppi, in realtà piuttosto eterogenei, che ci invita a esaminare. Trascura totalmente il loro contesto sociale. In una parola – e questo è il suo principale merito, che non va disprezzato – ispira il desiderio di saperne di più, molto di più, sulle forme singolarmente tenaci di vita collettiva, di cui ci offre solo un rapidissimo schizzo.]
Bisognerebbe saperla lunga, molto più lunga – suggerisce il maestro francese – su queste forme di vita collettiva segreta (inclusi gli antichi riti di iniziazione, dei quali non si è ancora spento il valore emotivo).
Negli ultimi quindici anni c’è stata in Italia una vera e propria pioggia di documenti, desecretati in base a direttive dei presidenti del consiglio Prodi, Renzi e Draghi. Il lettore troverà in questo libro tutti i dettagli utili per riflettere su questo singolare evento atmosferico. Gli archivisti che hanno ricevuto da alcune amministrazioni i versamenti dei documenti, ne hanno organizzato al meglio la consultazione, e hanno promosso, insieme con alcuni rappresentanti delle categorie interessate a quei documenti, sedi di discussione, con le autorità, sulle modalità stesse dei versamenti – gli archivisti denunciano in questo libro che tali versamenti, provengano essi da amministrazioni aperte o clandestine, sono stati assai parziali, e organizzati non per fondi o complessi o serie integri, ma smembrando appunto quelle raccolte e offrendo materiali riferiti ad alcuni grandi eventi stragistici o terroristici. Insomma una pioggia assai selezionata.
Bisognerebbe saperla lunga, molto più lunga – suggerisce Marc Bloch – su queste forme di vita collettiva segreta.
Va da sé che il fenomeno della violenza politica in Italia non si esaurisce con lo studio dei “punti critici” delle stragi di maggiore impatto e di alcune organizzazioni clandestine maggiori – tutti fenomeni, del resto, su cui la ricerca storica è ancora agli inizi, lontana da qualsiasi solidità, ancora invischiata in metodi e problematiche propri delle indagini giudiziarie; e che anche lo studio di quei “fatti importanti” – la selezione dei quali da parte del governo resta controversa – è sì agevolato da un maggior numero di documenti ufficiali, ma non può certo basarsi su dossier scremati all’origine.
La voce degli archivisti presente in questo volume – impegnata e militante, in più di un passaggio – è confortata nel libro dalle analisi di alcuni storici: è da questo volume che si dovrà d’ora in poi partire, per discutere di come potremo conoscere gli eccezionali e assai gravi attentati che, dal 1969 alla metà degli anni Ottanta almeno, si sono prodotti in Italia.