C redo nessuno che si consideri sinceramente progressista ami usare il termine cancel culture. È una locuzione trascinata nel fango e abusata all’infinito da tutta una serie di figure controverse. Il presidente Trump, ad esempio, nonostante lui stesso abbia molte volte invocato epurazioni, boicottaggi e licenziamenti, ha incolpato la cultura della cancellazione di tutto, dal cambio di nome della squadra di baseball dei Cleveland Indians al suo mandato di comparizione da parte della commissione del 6 gennaio. Vladimir Putin ha criticato il tentativo dell’Occidente di cancellare la Russia per la sua invasione dell’Ucraina, paragonando il presunto trattamento riservato a figure come Tchaikovsky, Shostakovich e Rachmaninov a quello che ha subito l’autrice di Harry Potter, J.K. Rowling. Anche in Italia ogni tanto torna ad infuocarsi il dibattito sui pericoli della cancel culture: dalle polemiche sul bacio non consensuale del principe a Biancaneve sino alla più recente iniziativa del ministro Sangiuliano di inserire nel nuovo “Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici” (Tusmar), una norma contro la cultura della cancellazione.
Insomma, potremmo anche chiuderla qui, sostenendo che non esiste alcuna cultura della cancellazione. Si tratta di una clava retorica che la politica (soprattutto di destra) utilizza in senso vittimistico e paranoico per aumentare il proprio seguito. Ma anche laddove esistesse, riguarderebbe episodi di cronaca spicciola, spesso aneddotici e provenienti da contesti culturali differenti dal nostro, che vengono ingigantiti dai media mainstream solo per fare clickbait e alimentare il fuoco dell’indignazione social.
In direzione ostinata e contraria si muove Davide Piacenza. Il suo libro La correzione del mondo. Cancel culture, politicamente corretto e i nuovi fantasmi della società frammentata intende dimostrare che la battaglia contro la cancel culture non debba essere vista come un’esclusiva del pensiero conservatore o di destra, ma che possa trovare legittimità e spazio di dibattito nell’alveo dei valori progressisti. La lotta alla cultura della cancellazione deve tornare ad essere un tema intrinsecamente di sinistra. In un percorso che va dalla famosa lettera pubblicata nell’estate del 2020 dalla rivista Harper’s alla rimozione della statua di Indro Montanelli dai Giardini di Porta Venezia a Milano, l’autore non si limita a denunciare la strumentalizzazione del termine da parte della destra, ma si propone di smontare tutte le possibili obiezioni che da sinistra vengono sollevate a chi decide di confrontarsi su questo tema.
Sarebbe facile contrapporre a chi sostiene che ci troviamo di fronte ad una invenzione meramente politica o giornalistica, le centinaia di casi, spesso drammatici, che in questi anni hanno testimoniato della presenza di pratiche di deliberato boicottaggio sociale, a destra come a sinistra. Ma Piacenza sceglie di evitare la facile posa del pamphlettista che ci guida fin dentro gli eccessi più assurdi della wokeness.
La lotta alla cultura della cancellazione deve tornare ad essere un tema intrinsecamente di sinistra.
Lo sforzo del libro è proprio quello di provare che la cultura dell’annullamento non può essere ridotta a qualche vicenda di sgradevole censura. La cancel culture non è un fenomeno isolato, ma il riflesso di un problema ben più ampio e radicato che riguarda il modo in cui scegliamo di confrontarci con i nostri avversari ideologici. Prima di riprendere questa considerazione nelle conclusioni, vediamo come l’opera di Piacenza possa servire da guida preziosa nel rispondere ad alcune delle obiezioni più frequenti mosse verso questo fenomeno.
La cancel culture è di destra?
Benché tenda a presentarsi come garante del free speech in un mondo pervertito dalle nuove idee inclusive e progressiste, la destra beneficia dei medesimi meccanismi di cancellazione che imputa alla sinistra. Come spiega Piacenza in un capitolo del libro dedicato alla questione, i reazionari che si lamentano della fantomatica cancel culture sono spesso i primi a praticarla, mettendo a tacere senza troppi scrupoli chi la pensa diversamente da loro. Buona parte della legislazione sulla censura proviene, difatti, dalla destra politica. Negli Stati Uniti sono stati vietati più di milleseicento libri in cinquemila scuole, principalmente a opera di gruppi di pressione politicamente schierati tra i conservatori che hanno preso di mira testi che trattavano tematiche queer o antirazziste. In questi ultimi anni, i legislatori repubblicani di trentasei Stati hanno presentato proposte di legge contro la Critical Race Theory, con l’obiettivo di regolamentare ciò che accade nelle aule scolastiche e persino nei college e nelle università. La famosa “Stop WOKE Act” − dove woke è l’acronimo di “Wrongs to Our Kids and Employees“, introdotta in Florida nel 2022, punta a limitare l’insegnamento e la formazione su idee e concetti relativi alla razza e al genere che vengono considerati divisivi o discriminatori.
In Italia, con il pretesto di combattere qualsiasi forma di bavaglio alla libertà di parola, diversi gruppi di pressione sono riusciti ad affossare il ddl Zan. Parallelamente, una recente proposta di legge avanzata da Fratelli d’Italia, sotto la bandiera della “libertà educativa”, si propone di proibire nelle scuole la trattazione di qualunque tema legato all’ambito LGBTQ+. C’è una striscia costante di illiberalismo riflessivo che si sta insinuando nel discorso della destra mainstream. Numerosi sondaggi rivelano che le tendenze contrarie alla libertà di parola si stanno diffondendo tra l’intera popolazione conservatrice che ha una minore affinità con la democrazia e una crescente accettazione della violenza come mezzo legittimo per opporsi ai nemici politici.
La presenza di una cultura della cancellazione proveniente dai conservatori non deve però portarci a liquidare il fenomeno come un mero strumento tattico in mano alla destra. Come sottolinea l’opera di Piacenza, solo una deliberata miopia può continuare a ignorare, sminuire o negare che anche la sinistra ha sviluppato nel corso degli anni una certa passione per la censura. Nel recente The Canceling of the American Mind Greg Lukianoff e Rikki Schlott forniscono una lettura allarmante del fenomeno. Solo nei campus americani, a partire dal 2014, più di mille campagne sono state intraprese per perseguire i professori universitari che avevano esercitato la loro libertà di parola, nel rispetto del Primo Emendamento. Di queste, circa due terzi sono riuscite a far condannare il docente e quasi duecento si sono concluse con il licenziamento. Secondo gli autori, siamo in presenza di un fenomeno che non si vedeva dall’epoca del maccartismo degli anni Cinquanta. Circa un professore su sei riferisce di aver ricevuto sanzioni o minacce di sanzioni per i propri interventi e ben uno su tre ha dichiarato di aver subito pressioni da parte di colleghi per evitare di fare ricerche su argomenti controversi.
Molti episodi evidenziano il sempre maggiore scetticismo che i progressisti stanno maturando nei confronti della libertà di parola.
Benché una buona percentuale di cancellazioni provenga dalla destra, è innegabile che gli episodi che coinvolgono il pantheon del pensiero progressista facciano più rumore, perché evidenziano il sempre maggiore scetticismo che i progressisti stanno maturando nei confronti della libertà di parola. Coloro che per tradizione storica hanno inteso il free speech come lo strumento necessario dei senza potere contro i potenti, sono diventati i primi ad accettare l’idea che una opinione possa essere opportunamente eliminata, se, a loro dire, metterebbe in pericolo i diritti dei meno privilegiati. Una cultura che ha sempre fatto della forza dialettica dell’argomentazione la sua migliore arma per la creazione del consenso oggi ha deciso che il modo più efficace per portare avanti le proprie idee è aderire alla logica del no debate. E questo non riguarda solo i professori. Ogni anno si registrano centinaia di episodi di studenti messi sotto accusa per i loro discorsi, in molti casi da parte di attivisti progressisti.
La conseguenza è i college americani rischiano di diventare bolle sempre più ideologicamente omogenee, dove le voci eterodosse vengono sistematicamente escluse dal dialogo. Non è casuale che, secondo un sondaggio del FIRE (Foundation for Individual Rights in Education) del 2022, più dell’80% degli studenti dichiara di aver autocensurato le proprie convinzioni o aver subito pressioni per evitare di discutere di argomenti controversi nelle proprie classi. Quasi due terzi di loro, inoltre, temono di danneggiare la propria reputazione perché qualcuno fraintende qualcosa che hanno detto o fatto.
Un famoso editoriale del New York Times, pubblicato nel marzo del 2022, ha sollevato il campanello d’allarme: l’America ha un problema con la libertà di parola che interessa tanto la destra quanto la sinistra, e che dai campus si sta estendendo a numerosi altri ambiti, dalle redazioni giornalistiche alle riviste scientifiche sino alle forme di intrattenimento popolare. Sia i conservatori che i progressisti contribuiscono alla perpetuazione di un clima di intolleranza ideologica. Entrambi stanno voltando le spalle all’argomentazione e al dialogo costruttivo per abbracciare l’idea che l’avversario non sia semplicemente un contendente politico, ma un nemico da annientare a ogni costo.
La cancel culture è uno strumento di giustizia sociale?
Molti vedono nella cultura della cancellazione uno strumento a favore della giustizia sociale, una pratica che fornisce a gruppi storicamente marginalizzati e oppressi la possibilità di chiamare alla responsabilità figure di potere per le loro parole e azioni, soprattutto quando queste ultime manifestano razzismo, sessismo e omofobia. Vista in questa luce, la cultura della cancellazione può essere interpretata come una forma di responsabilizzazione discorsiva simile ad altre prassi, quali il boicottaggio, il dragging. il calling out, attraverso cui gruppi sociali che non trovano adeguato spazio o riconoscimento nella sfera pubblica dominante, possano guadagnare visibilità e incidere sul dibattito collettivo.
La maggior parte dell’attivismo progressista che si fa portatore delle istanze di cancellazione appartiene alla coorte più istruita, più ricca e più bianca degli Stati Uniti.
Se l’obiettivo della cancel culture fosse una maggiore considerazione dei più deboli, dei senza voce e di coloro che ancora subiscono discriminazioni e oppressioni, “allora si tratterebbe di una direzione di marcia per cui fare un tifo sfrenato”, dice un passaggio del testo. In realtà, la cultura della cancellazione non si muove sempre in questo senso. Il rapporto di ricerca Hidden Tribes conferma che la maggior parte del sottobosco politico dell’attivismo progressista che si fa portatore delle istanze di cancellazione appartiene alla coorte più istruita, più ricca e più bianca degli Stati Uniti: gli attivisti progressisti sono il gruppo razzialmente più omogeneo del paese. I professionisti della correttezza si trovano di fronte a quello che Piacenza definisce il “dilemma del portavoce”: giustificano le loro azioni in nome delle minoranze, ma appartengono quasi sempre a nicchie privilegiate, che vanno dalle più costose università americane agli uffici marketing delle grandi aziende. Portano avanti le loro battaglie in nome degli oppressi, ma nel farlo tendono a trarre vantaggio personale dalla loro posizione di rappresentanti autonominati, sfruttando le storie e le esperienze collettive di questi gruppi per silenziare o invalidare le opinioni degli avversari.
Questa dinamica diventa particolarmente problematica quando le soggettività che si presume di voler proteggere si posizionano dalla “parte sbagliata” di una questione. In tali circostanze, queste stesse minoranze vengono trattate con particolare intransigenza, accusate spesso di tradire la causa che dovrebbero sostenere. Nel libro è citato il caso della scrittrice e sociologa donna transessuale Neviana Calzolari, tacciata di essere una “fascista venduta” alla Destra, semplicemente per aver espresso scetticismo nei confronti del concetto di identità di genere. Per questo è difficile credere all’affermazione comune secondo cui la cultura della cancellazione aiuta le persone non privilegiate a riprendersi la propria voce, quando i cancellatori si accaniscono contro quegli stessi individui che non sono d’accordo con loro.
Un altro limite di questa argomentazione risiede nel fatto che molti individui colpiti dalla cultura della cancellazione non sono effettivamente detentori di un potere. Un anno fa tre studentesse universitarie sono state riprese sul treno Como-Milano mentre prendevano in giro, in modo decisamente sgradevole, una famiglia di origine cinese, un ragazzo e sua madre. La fidanzata del giovane, che si è rivelata essere un’influencer molto seguita, ha deciso di condividere il video su TikTok con un commento che esortava gli italiani a identificare le studentesse e farle vergognare per il loro comportamento disgustoso, auspicandosi che avessero appreso la lezione. Il video è diventato immediatamente virale raggiungendo oltre 16 milioni di visualizzazioni in breve tempo. Come spesso succede in questi casi, le studentesse sono state rapidamente sottoposte ad una violenta gogna pubblica su larga scala, al punto che le stesse Università dove erano iscritte hanno dichiarato di aver preso opportune misure disciplinari.
In tal senso, la cancel culture potrebbe essere interpretata come una concreta attuazione del principio della tolleranza repressiva, concettualizzato dal filosofo Herbert Marcuse. Nel famoso saggio dedicato alla tolleranza, Marcuse sosteneva che, quando esistono differenze di potere tra i gruppi, la tolleranza indiscriminata finisce per avvantaggiare chi è già in posizione di forza. Essa diventa semplicemente un mascheramento della repressione: blocca l’agenda politica e sopprime le voci dei meno potenti. Per questo, Marcuse proponeva l’applicazione di una “tolleranza selettiva” per promuovere la giustizia sociale e l’uguaglianza. Ciò significa che cancellare discorsi, azioni, o la vita stessa di persone che contribuiscono al mantenimento delle attuali strutture di potere non dovrebbe essere visto come un esercizio di oppressione, ma come un rimedio all’oppressione stessa.
Si può interpretare la cancel culture come una concreta attuazione del principio della tolleranza repressiva concettualizzata da Marcuse.
Invocata in difesa della giustizia sociale, la cultura della cancellazione rischia di sfociare involontariamente nella legittimazione di pratiche censorie, punitive e, in casi estremi, persino violente, compromettendo così i principi fondamentali della libertà di espressione e del dibattito democratico. Come sostiene correttamente Piacenza a proposito del famoso caso di J. K. Rowling: un conto è opporsi ad un messaggio che si giudica sbagliato e discriminatorio, un altro è cedere alla violenza della cancellazione, pubblicando l’indirizzo di casa di una donna e arrivando addirittura a minacciarla di morte.
La cancel culture è una faccenda prevalentemente americana?
Molti sostengono che sia improprio parlare di cancel culture in un paese come l’Italia dove rari casi di cancellazione convivono con la generale impunità degli eccessi razzisti e sessisti più truculenti (in fondo siamo sempre il paese dove uno dei libri più venduti dello scorso anno rivendicava con orgoglio l’uso di espressioni come “sodomita, finocchio, frocio, ricchione”). Una delle principali tesi del recente libro Cancel culture e ideologia gender. Fenomenologia di un dibattito pubblico, ad esempio, è che la cultura della cancellazione sia solo un dispositivo retorico entrato nell’agone giornalistico senza avere alcun corrispettivo nella realtà dei fatti.
È un punto di vista ragionevole. Benché Enrico Mentana si sia sentito in dovere di esprimere il suo parere sul fenomeno, tracciando un parallelo audace con i roghi dei libri perpetrati dai nazisti nel XX secolo, non esiste una corrispondenza diretta tra il dibattito sulla cancel culture nel contesto anglo-americano e la situazione italiana. L’Italia sembra apparentemente immune alla cancellazione: dopo che Philip Roth è stato sottoposto a un tentativo di ostracismo editoriale per via dei suoi comportamenti moralmente discutibili, la sua biografia è stata accolta nel nostro paese senza sollevare polemiche. Analogamente, il libro di Woody Allen è stato lanciato nel mercato nostrano nonostante le gravi accuse di abusi verso la figlia adottiva, mosse dall’ex compagna Mia Farrow, che avevano spinto l’editrice americana a bloccarne le vendite. Sebbene sessismo e violenza sistemica contro le donne persistano in ambiti come lo spettacolo o la pubblicità, il #metoo in Italia non ha mai avuto la stessa risonanza mediatica degli Stati Uniti, lasciando nei fatti a poche figure il peso della battaglia. Da noi i casi di cancellazione appaiono decisamente più maldestri ed estemporanei: dall’annullamento della partecipazione di Altaforte, casa editrice vicina a CasaPound, al Salone del Libro di Torino alla statua di Montanelli più volte imbrattata di vernice e scritte accusatorie. L’allarmismo di chi parla dell’imminente ondata di repressione culturale che potrebbe colpire il nostro Paese non sembra considerare adeguatamente il limitato impatto che i movimenti nostrani hanno rispetto ad una cultura di massa dal cuore ancora profondamente berlusconiano.
È tuttavia innegabile come, in questi ultimi anni turbolenti, contrassegnati dapprima dalla pandemia e successivamente da due conflitti armati, il dibattito pubblico in Italia si sia trasformato in una vera e propria guerra culturale, dove l’ipotesi di poter cancellare o escludere le voci considerate controverse ha iniziato ad essere ritenuta sempre più accettabile. Non è semplicemente una questione di casi isolati, comunque in aumento, e spesso anche molto gravi: dal tentativo di eliminare il corso su Dostoevskij tenuto da Paolo Nori all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina o di espellere i più insigni italianisti russi dalla giuria del Premio Strega alla cancellazione di direttori d’orchestra, soprani, fotografi e opere di Čajkovskij, semplicemente perché provenienti dalla Russia; dal licenziamento di un insegnante algerino da un liceo romano per aver pubblicato un post Instagram che si concludeva con la frase “lunga vita a Hamas” alle ipotesi di azioni disciplinari contro la professoressa Donatella Di Cesare per un tweet dopo la morte dell’ex brigatista Barbara Balzerani. Il problema della cancel culture si radica in una tendenza allarmante: la crescente accettazione dell’idea di poter depennare le opinioni ritenute inopportune segnala una trasformazione preoccupante nell’idea stessa di libertà di espressione.
Il dibattito pubblico in Italia si è trasformato in una guerra culturale dove l’ipotesi di poter escludere le voci considerate controverse sembra sempre più accettabile.
Questa mutazione interpretativa suggerisce che la libertà di parlare e di esprimere opinioni possa essere legittimamente limitata laddove si ritenga che contribuisca alla diffusione di notizie false. Ma limitare la libertà di espressione con il pretesto di combattere la disinformazione può portare a una soglia di tolleranza sempre più bassa nei confronti delle opinioni divergenti, finendo, in ultima analisi, per tradursi in vera e propria repressione delle voci critiche. Come spiega Jonathan Rauch in The Constitution of Knowledge, l’obiettivo delle campagne di cancellazione non è contestare chi la pensa diversamente, ma rimuovere completamente la sua capacità di partecipare al discorso pubblico sullo stesso piano di legittimità morale dei propri avversari. Questo può avvenire attraverso una varietà di mezzi che vanno dalle petizioni alle azioni di boicottaggio, dalle proteste pubbliche alle azioni legali, sino alle pressioni lavorative. In Italia è ormai divenuta prassi consolidata per le testate giornalistiche pubblicare liste di proscrizione contro i presunti filoputiniani con tanto di foto segnaletiche, o lanciare fatwe intimidatorie nei confronti di chiunque osi manifestare dissenso nei confronti dei bombardamenti israeliani su Gaza.
Sebbene sia difficile poter dire con certezza che la cancel culture “sta arrivando anche da noi”, il nostro paese ha sperimentato comunque intense manifestazioni di cancellazione. La pandemia di Covid 19, ad esempio, è stata la più grande operazione di cancellazione su larga scala degli ultimi decenni, e ha visto coinvolta in prima linea l’Italia. Quando la Covid-19 ha fatto la sua comparsa sulla scena, c’erano molte domande a cui rispondere: Quanto è pericolosa questa malattia? Per chi? Da dove proviene? Per quanto tempo dobbiamo accettare il lockdown? Quali saranno gli effetti delle misure di contenimento sulla salute infantile? Di fronte a una minaccia in evoluzione, una maggiore attenzione alla libertà di parola avrebbe consentito il dibattito tra diverse teorie. Invece, senza molti complimenti, abbiamo abbracciato la cultura della cancellazione. Chiunque dissentiva dall’ortodossia sanitaria, ponendo domande sull’efficacia dell’isolamento, l’innocuità della chiusura delle scuole, l’immunità recuperata, il mascheramento dei bambini, i mandati per i vaccini, rischiava di essere ferocemente silenziato.
Uno dei più sbalorditivi esempi di gaslighting dei dissidenti di Covid nel nostro paese ha visto coinvolti gli autori della Dichiarazione di Great Barrington, in cui si sosteneva la necessità di chiusure mirate che avrebbero mantenuto al sicuro le popolazioni a rischio, mitigando al contempo i danni collaterali causati al resto della società − un concetto chiamato “protezione focalizzata”. La proposta scritta da tre epidemiologi di fama mondiale, e sottoscritta da oltre 15.700 scienziati e 46.700 medici nel mondo è stata citata nei nostri telegiornali in un numero pari a zero. Cancellata dai media italiani, come se non fosse mai esistita. La logica dietro questa dinamica è stata efficacemente sintetizzata dal senatore Mario Monti durante una trasmissione televisiva del periodo, quando ha candidamente affermato che “in una situazione di guerra […] si accettano delle limitazioni alla libertà”. Compreso, evidentemente, estromettere dal dibattito pubblico opinioni considerate inaccettabili.
Sintomo di un problema più grande
Possiamo anche ripeterci che la cancel culture è un’invenzione propagandistica della destra o sforzarci tutti assieme per trovare locuzioni meno inflazionate. Ma non si può negare che la cultura della cancellazione esiste come parte di un problema più vasto: l’approccio disfunzionale che molti di noi si sono abituati ad adottare quando si confrontano con chi la pensa diversamente da loro. Il concetto è molto semplice: per vincere le discussioni, è sufficiente fare in modo che le persone siano troppo spaventate per esprimere apertamente ciò che pensano.
La pandemia di Covid 19 è stata la più grande operazione di cancellazione su larga scala degli ultimi decenni, e ha visto coinvolta in prima linea l’Italia.
Per capire quanto siano diffuse queste pratiche retoriche a buon mercato non c’è bisogno di guardare oltre oceano. È sufficiente osservare quello che succede tutti i giorni sui nostri social media. Non è un caso che il libro Piacenza dedichi ampio spazio proprio ad analizzare come la cancel culture abbia a che fare con la nostra involuzione di animali sociali che passano sempre più tempo a discutere online. I media digitali hanno certamente grandi meriti: hanno permesso a molte più voci di partecipare a conversazioni e scambi di idee. Ma ci hanno anche polarizzato. Ci hanno chiuso nelle nostre camere d’eco, rendendoci più tribali e più ostili nei confronti dell’altra parte. Uno studio del 2019 ha rilevato che, sia a destra che a sinistra, le persone che si affidano ai social media per seguire le notizie sovrastimano la prevalenza di opinioni estreme nella parte opposta. Le ricerche sul fenomeno della polarizzazione affettiva dimostrano che le persone sono guidate a partecipare all’azione politica non dal sostegno per il candidato del loro partito, ma dall’odio verso il candidato avverso.
Nelle bolle ideologiche in cui certi valori sono dominanti, è naturale immaginare che tutti gli altri la pensino come te − che tu e i tuoi amici siate moralmente buoni e che chiunque non sia d’accordo sia semplicemente un altro immorale, “un cretino da ricacciare senza tanti complimenti sul suo scaffale sottosviluppato, oppure un nemico da rieducare in modo ferreo a colpi di sanzioni esemplari”, come si legge in un passaggio del libro. I social network non fanno che ingigantire questo processo.
Le piattaforme digitali si rivelano ingegnerizzate per piegarci alla logica deviata dell’incomunicabilità: niente attira tanti “mi piace” o “condividi” come un post che semina odio da rivolgere ai gruppi sociali, di opinione o interesse di cui non facciamo parte e che abbiamo eletto a nostri avversari. Molte ricerche attestano, difatti, che un contenuto ha maggiori possibilità di diffondersi in modo virale se sfrutta emozioni ad alta eccitazione – quali timore, odio o ansia, producendo un innalzamento dei livelli di stimolazione fisiologica, una piccola scarica di dopamina in formato notifica.
La conseguenza è che la società nel suo insieme è sempre più divisa, frammentata e sospettosa del prossimo. Nessuno parla più la stessa lingua. Ogni discussione diventa questione di vita e di morte. Non c’è spazio per la contestualizzazione, la carità interpretativa, la capacità di scindere le persone dalle loro opinioni. Si è persa sostanzialmente la volontà di sapere negoziare i conflitti, affrontare il disaccordo senza ricorrere all’annullamento dell’altro. Le persone non hanno più voglia di confrontarsi e sfruttano tutte le tattiche retoriche possibili per isolarsi dai punti di vista opposti.
Le piattaforme digitali si rivelano ingegnerizzate per piegarci alla logica deviata dell’incomunicabilità.
Come ci ricorda l’autore, le correnti riformatrici dovrebbero essere le prime a mostrare preoccupazione per questa deriva deleteria. E invece la tribalizzazione del discorso pubblico in nicchie regolate dall’esaltazione emotiva ha portato il fenomeno a sfondare anche a sinistra, dove si è andato a saldare in un’unione scellerata con l’interesse delle aziende a mostrarsi dalla parte giusta delle cause sociali più sfruttabili commercialmente. Nella corsa all’oro dell’attenzione algoritmica, molti intellettuali progressisti hanno compreso che adeguarsi al linguaggio premiato dalle metriche di misurazione, che fa leva sull’ indignazione morale e stimola una certa eccitazione bellicosa nei propri pubblici, offre più veloci ricompense in termini di promozione e prestigio personale.
Conclusione
Tirando le fila del prezioso libro di Davide Piacenza, ne ricaviamo tre indicazioni conclusive. Anzitutto, la cultura della cancellazione è controproducente, se non ad alimentare una spirale infinta di polarizzazione tra nemici contrapposti. Ogni volta che un gruppo di sinistra impedisce di parlare ad un oratore le cui opinioni si considerano aggressive o discriminatorie, i conservatori si sentiranno ancora più legittimati a praticare forme di censura verso le idee promosse dalle forze progressiste. A loro volta, i progressisti reagiranno mettendo al rogo qualsiasi pensiero che non si allinei con la loro visione del mondo, e così via, in un gioco infinito di rovesciamenti di potere, per cui ad ogni azione seguirà sempre una reazione sproporzionata. La conseguenza è che ogni gruppo finirà per blindarsi entro i propri confini ideologici, cercando di difendersi in maniera sempre più radicale dall’assalto delle idee contrarie.
Questo ci porta alla seconda considerazione. Nel loro acclamato libro The Coddling of the American Mind, Greg Lukianoff e Jonathan Haidt hanno dimostrato come l’emergere di un’ortodossia del pensiero sia il risultato di una società che ha barattato il valore della discussione aperta e critica con l’ossessione per la salvaguardia della propria sicurezza, in primis la sicurezza emotiva. Le persone vogliono sentirsi talmente protette da tutto quello che pensano possa triggerarle o farle sentire a disagio, che persino ascoltare chi ha un punto di vista radicalmente diverso da loro può essere considerato potenzialmente un’offesa, una forma di microaggressione, o addirittura una violenza. Il disaccordo non è più visto come un’opportunità di crescita, ma come una minaccia alla propria identità. L’analisi di Lukianoff e Haidt descrive prevalentemente la realtà dei campus universitari statunitensi, dove gli sforzi per creare ambienti inclusivi e rispettosi per la comunità studentesca porta con sé il rischio non trascurabile di erodere la capacità degli studenti stessi di crescere intellettualmente attraverso il confronto con punti di vista differenti dal proprio.
Ma la cosiddetta cultura della fragilità, così come la descrivono gli autori, ha esteso la sua influenza ben oltre l’ambito accademico, trovando terreno fertile in molti altri settori della società. Alcune delle più prestigiose riviste scientifiche e mediche del mondo stanno controllando in modo proattivo il linguaggio delle ricerche nelle loro pagine per prevenire le offese. Per esempio, Nature Human Behaviour ha presentato una nuova linea guida nel 2022: la rivista inizierà a decidere quali studi pubblicare non solo in base alla loro validità scientifica, ma anche in base al fatto che possono causare danni a gruppi protetti. In tal modo, come documenta bene Piacenza, si finisce per soffocare l’espressione di opinioni eterodosse, nel timore che possano essere percepite come offensive da qualcuno, anche quando non vi sia alcuna intenzione di farlo: un sondaggista è stato licenziato per aver twittato dati che rivelavano come alcuni episodi di vandalismo a Minneapolis seguiti all’uccisione di George Floyd avevano rinvigorito il consenso dell’allora presidente Trump; il direttore responsabile del Journal of the American Medical Association (JAMA) è stato costretto a rassegnare le dimissioni per aver messo in discussione in un podcast l’esistenza del razzismo strutturale nella medicina; Matt Yglesias, scrittore di Vox, ha lasciato la rivista da lui fondata, in seguito alla sua firma sulla famosa Harper’s Letter, un gesto che è stato percepito da alcuni come controverso e che ha portato una sua collega ad affermare che la presenza di un collaboratore che aveva appoggiato pubblicamente tale lettera la faceva sentire “meno sicura” all’interno della redazione.
L’’ortodossia del pensiero è effetto di una società che ha barattato il valore della discussione aperta e critica con l’ossessione per la propria sicurezza, in primis emotiva.
Ogni qualvolta un’opinione impopolare, ma magari in buona fede, viene messa sullo stesso piano di una affermazione volutamente xenofoba, il messaggio trasmesso all’opinione pubblica è potente e inequivocabile. Non si può più essere sicuri di ciò in cui si crede o che si dice, perché, anche se magari non si rischia di essere perseguitati, accusati o addirittura licenziati, la vergogna di aver detto qualcosa di terribilmente sbagliato è sempre dietro l’angolo. Come spiega Jonathan Friedman, la vergogna è un potente meccanismo di controllo esercitato dal gruppo, fondato non sull’argomentazione ma sulla classificazione, cioè sulla paura di essere categorizzati in termini inaccettabili. Ce ne offre un esempio un passaggio del libro: Qui, spesso, basta un’opinione troppo sfumata su alcuni approcci alle questioni identitarie per vincere il poco ambito appellativo di «Terf», che in origine indicava propriamente una
Trans-exclusionary radical feminist, una femminista che non riconosce o si oppone alle lotte per il riconoscimento delle persone transgender, ma oggi si è espanso fino a diventare un’etichetta passepartout. La preoccupazione per la cultura della cancellazione aumenta così lo scollamento tra ciò che le persone sono disposte a dire in pubblico e ciò che credono davvero, specie su certi argomenti. Prendere consapevolezza di questo non significa, quindi, difendere il potere dei privilegiati di affermare tutto quello che vogliono senza subirne le conseguenze. Vuol dire preservare gli individui dalla pressione al conformismo, riconoscendo come diritto imprescindibile all’interno della nostra società la libertà di pensare l’impensabile, discutere l’innominabile, sfidare l’incontestabile.
E così arriviamo al punto conclusivo. Una volta compreso cosa è davvero la cancel culture, la soluzione diventa abbastanza chiara: dobbiamo rifiutarci di giocare secondo le sue regole. Se vogliamo veramente tendere alla verità, dobbiamo imparare ad uscir fuori dalle nostre bolle di comfort ideologico, liberarci dagli schemi di pensiero che ci portano a valutare le persone piuttosto che i loro argomenti, smetterla di fare dei nostri sentimenti il metro di valutazione di ogni intenzionalità altrui. Dobbiamo scegliere di affrontare i problemi in modo orientato alle soluzioni. Dichiarare una tregua con i nostri avversari politici e adottare un approccio benevolo nei loro confronti, invece di dare per scontato il peggio degli altri all’interno di una semplicistica morale noi contro loro. Dice giustamente Piacenza: “ci servirebbe fare l’esercizio di ginnastica mentale di ricordare a noi stessi che non tutte le persone che non la pensano esattamente come noi sul Web sono omofobe, o razziste, o complici magari inconsapevoli di criminali e oppressori”.
È un insegnamento che vale sia per la sinistra che per la destra. I progressisti dovrebbero smetterla di pensare che i loro avversari siano stupidi o malvagi, e i conservatori dovrebbero piantarla di credere che i loro rivali tramino per minare le basi della società civile. Entrambi i gruppi dovrebbero essere meno propensi a demolire senza pietà i loro simili con la cultura della cancellazione. La storia dell’umanità ci insegna che l’erudizione, la scienza e la stessa democrazia si basano su un’umile consapevolezza: che tutti noi potremmo avere torto. Pertanto, piuttosto che annullare i nostri oppositori, dovremmo imparare ad ascoltare attentamente ciò che hanno da dire. Poi potremo confutarlo aspramente, accettarlo o arrivare ad una posizione di compromesso. Ma cedere alla cancel culture sarà solo un tentativo di scrollarsi di dosso questa responsabilità.