P
rima di assumere gli apologetici toni da commedia della Trilogia del campus di David Lodge che negli anni Settanta lo hanno reso una forma romanzesca di spicco nel mondo anglofono, il campus novel, nato all’inizio degli anni Cinquanta quasi contemporaneamente negli Stati Uniti con The Groves of Academe di Mary McCarthy e nel Regno Unito con The Masters di C.P. Snow, si presentava come un sottogenere impegnato, improntato alla rivelazione al pubblico di quelli che Bourdieu definiva “i segreti della tribù”: le norme di selezione e riproduzione del corpo accademico, nonché il funzionamento politico interno dell’università.
In Italia, pur essendo rimasto a lungo escluso dalle nomenclature critiche ed editoriali, il romanzo accademico ha in realtà una storia lunga e nutrita di opere firmate da grandi autrici e autori che sovente hanno cercato di recuperare le intenzioni politiche del genere, rintracciando il fitto rapporto tra le dinamiche di potere interne all’istituzione accademica italiana, le numerose e sempre contestate riforme della stessa e la storia nazionale. Nel corso dell’ultimo decennio la diffusione di opere di e su docenti e ricercatori, con un’attenzione particolare alla condizione della seconda categoria, si è ulteriormente affermata, tanto da trovare una sua fortunata forma cinematografica nella trilogia Smetto quando voglio diretta da Sidney Sibilia.
Nel corso dell’ultimo decennio la diffusione di opere di e su docenti e ricercatori, con un’attenzione particolare alla condizione della seconda categoria, si è ulteriormente affermata.
Dario Ferrari, che ha pubblicato quest’anno La ricreazione è finita, si è prestato a questa conversazione sul suo romanzo, sulla tradizione del genere a cui si è dedicato e su luci e ombre dell’università italiana.
Nel mondo anglofono come in quello di lingua spagnola il campus novel è un sotto-genere riconosciuto della fiction, noto al grande pubblico e ampiamente registrato nella letteratura secondaria, mentre in Italia raramente se ne sente parlare, tanto che il tuo La ricreazione è finita è forse la prima opera a cui ho visto riferirsi esplicitamente come “romanzo universitario” dalla promozione editoriale come nella ricezione. Tu avevi intenzione di inserirti in una tradizione ben precisa quando hai iniziato a scriverlo?
A dire la verità la mia intenzione iniziale non era di scrivere un “romanzo universitario”, ma un romanzo di formazione (più o meno); poi però il fatto che il protagonista dovesse, per ragioni narrative, essere un dottorando mi ha portato a creare quell’ambientazione universitaria che poi ha preso sempre più spazio, fino a essere percepita come dominante: quindi diciamo che, al netto dei romanzi di questo genere che avevo letto, la mia consapevolezza e la mia volontà di inserirmi in un genere specifico e codificato era piuttosto limitata. D’altronde avendo frequentato per un certo periodo l’università, avevo una certa dimestichezza con l’ambiente, e soprattutto mi divertivo molto a scrivere le parti “accademiche”: è così che il mio romanzo è diventato (anche) una sorta di campus novel, quasi suo malgrado. Poi però è successo quello che dici tu, ovvero che le reazioni di lettura tendevano sempre a concentrarsi su quell’aspetto, e a partire dal mio editore fino a molti lettori la ricezione è stata molto orientata in quel senso. Devo dire che la cosa non mi dispiace.
Dalla pubblicazione di Scuola di nudo di Walter Siti, Pisa e le sue strutture universitarie hanno conquistato un vero e proprio primato come set privilegiato del sottogenere: penso soprattutto a L’amica geniale e a Etica dell’acquario di Ilaria Gaspari, ma anche al film che Stefano Alpini ha tratto da Il giocatore invisibile di Giuseppe Pontiggia e La vita nascosta del professore di letteratura italiana contemporanea Raffaele Donnarumma, pubblicato pochi mesi prima del tuo romanzo.
Mi sembra che questo confermi l’idea, diffusa soprattutto presso la critica anglofona, che perché un campus novel ‘funzioni’ sia necessaria un’ambientazione ristretta, simile a quella delle università inglesi, ma vista l’importanza che ha la storia politica nel tuo romanzo mi viene da chiederti se non abbia altrettanta importanza la centralità della cittadina toscana in quella storia: in fondo il Sessantotto italiano è iniziato in quelle aule.
In effetti Pisa ha un primato abbastanza impressionante per quanto riguarda il romanzo universitario. Credo che in parte questo sia dovuto alla presenza della scuola Normale, che la rende in un certo senso un ateneo sui generis, frequentato per altro dalla crema dell’intellighenzia patria (se non è l’unica scuola di eccellenza, di sicuro è la più rinomata, con una tradizione e una fama secolari): la Normale da questo punto di vista offre delle dinamiche di competizione e vita collegiale per così dire “in purezza”. Non a caso molti degli esempi che citi sono ambientati in Normale o sono scritti da normalisti/e (o entrambe le cose). Io in questo senso faccio eccezione, dal momento che non sono normalista e racconto l’università da una prospettiva “dal basso” anziché dall’alto.
Di sicuro poi hai ragione a dire che un contesto chiuso favorisce la narrazione: è meno dispersivo e permette a chi legge di entrare immediatamente nelle dinamiche interne e di ritrovarci alcuni degli aspetti che già conosce dalla propria esperienza, ovunque sia stata. Poi, certo, la tradizione “rivoluzionaria” ha inciso, ma meno di quanto si possa pensare, dal momento che il modo che ho scelto per raccontare la lotta armata era in realtà non quello realistico di una città militante e intellettuale, ma all’opposto quello improbabile di una brigata che nasce tra vitelloni di provincia senza preparazione culturale e politica.
IIn effetti il campus novel nasce e sviluppa, con toni ora critici ora apologetici, come romanzo sulla gestione del potere interno all’accademia: in Italia arriva nel 1975 con La scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia, e da allora si è spesso concentrato sui suoi rapporti d’interdipendenza con la politica nazionale. Le opere che giungono a conclusioni più aspre tanto sullo stato di corruzione appaiono però quasi tutte all’inizio dello scorso decennio: ne La cospirazione delle colombe di Vincenzo Latronico si approfondisce la corruzione interna e la connivenza con i processi di gentrificazione, la già citata Gaspari riporta la drammatica influenza del clima sempre più competitivo sulla salute mentale dei giovani ricercatori, ne La fine dell’altro mondo di Filippo D’Angelo si tenta di tirare le fila di un discorso generazionale.
Nel tuo romanzo provi una connessione proprio tra i nuovi anni Dieci e gli anni Settanta del secolo scorso o se vogliamo, tra baronato e brigatismo.
È una lettura interessante. È vero che da un certo punto di vista gli elementi che tu metti in evidenza tramite il riferimento a questi libri recenti sono presenti nel romanzo (la corruzione interna, il carico psicologico che si abbatte sui ricercatori sottoposti allo stress della performance a fronte di possibilità sempre più remote di vedere soddisfatte le proprie ambizioni, il conflitto tra generazioni); e però nelle mie intenzioni, al di là di alcune convergenze di intreccio, non c’era la volontà di mettere in relazione la contestazione del potere degli anni Settanta e il potere consolidato dell’università odierna. Giorgio Gaber parlava di quegli anni come dei “tempi degli Unni”, per poi constatare che Attila ormai era diventato consigliere regionale. Ma a parte questa constatazione – i molti Attila finiti a fare gli ordinari – non volevo instaurare un nesso tra i due periodi, e anzi l’intenzione era semmai di metterli a paragone per opposizione: mostrando come personaggi che si assomigliavano, se calati in contesti diversi, davano esiti opposti.
A dire il vero le opere firmate da docenti di discipline scientifiche, dai racconti Zinco e Ferro ne Il sistema periodico di Primo Levi a La chimica della bellezza di Piersandro Pallavicini, esprimono delle posizioni più concilianti rispetto alle dinamiche di potere interne all’accademia, a favore della tematizzazione dell’amore per il sapere.
Ho una conoscenza marginale del mondo accademico delle discipline scientifiche, ma mi pare che ci siano delle differenze macroscopiche. In generale, e in maniera piuttosto brutale direi che la prima differenza è che nel mondo scientifico ci sono tendenzialmente dei risultati da ottenere: chi risolve un problema è migliore di chi non lo risolve, chi dà un risultato più elegante o più economico è meglio di chi ne dà uno farraginoso o costoso. So che è una semplificazione, ma in linea di massima nelle scienze c’è una maggior oggettività, anche nella valutazione (in linea di massima, poi di eccezioni possono essercene moltissime). Nelle materie umanistiche, invece, non ci sono criteri oggettivi per valutare le persone e gli studi, sebbene ne siano stati cercati (in maniera di solito inadeguata): il che lascia uno spazio enorme all’aleatorietà e all’arbitrio di chi deve scegliere le nuove generazioni di ricercatori e professori. A questo si aggiunge poi la questione dell’assenza di sbocchi lavorativi per gli umanisti, che finisce per esasperare la competizione per aggiudicarsi i pochi posti in accademia (laddove in campo scientifico o tecnico restare in università non è l’opzione migliore rispetto ad andare a lavorare altrove, per cui la pressione si riduce notevolmente, e finisce per restare solo, o soprattutto, chi è motivato e preparato).
Di contro, tu stesso hai definito il tuo dottorato di ricerca in Filosofia “un titolo ornamentale che serve quasi esclusivamente a impreziosire le note biografiche”. Ci sono delle difficoltà specifiche da dover affrontare se ci si vuol dedicare allo studio delle discipline umanistiche, anche a fronte di un entusiasmo quale quello dimostrato dal tuo alter ego finzionale all’inizio del suo percorso? Come anche altri autori e autrici della tua generazione, infatti, una volta conclusa la carriera nella ricerca sei approdato alla traduzione e all’insegnamento oltre che alla scrittura. Mi piacerebbe approfondire le dinamiche del lavoro culturale, fare un confronto con quelle accademiche.
Sebbene il dottorato fosse in origine pensato come primo passo di un percorso di carriera accademica, oggi è soprattutto il coronamento di un buon percorso di studio; se dire che si tratta di un titolo “puramente ornamentale” era un modo per riderci su, c’è anche un fondo di verità: nell’estrema dilatazione (e diluizione) dei percorsi di formazione, di fatto oggi fare un dottorato assomiglia sempre di più a prendere una laurea di trent’anni fa. Sta di fatto che oggi solo pochi di coloro che hanno un dottorato finiscono per fare effettivamente ricerca, e solo pochissimi riescono a farlo senza prima un lungo girovagare in cerca di borse in giro per l’Europa: questo fa sì che molti debbano reinvestirsi in altri campi del lavoro culturale. I due che ho frequentato io sono l’editoria, soprattutto da traduttore, e la scuola, che è in un certo senso diventata la grande destinazione di molti dottori di ricerca che non sono diventati ricercatori; un’osmosi molto positiva, per altro, a patto che chi imbocca questa strada non lo faccia come un ripiego.
Non vorrei chiudere su una nota dolente, ma tornando sul romanzo e in riferimento soprattutto al personaggio di Carlo Ceccanti, mi sembra che il mondo universitario offra anche vie d’uscita di più radicali e meno felici; per quanto di agghiacciante attualità, il suicidio non è in realtà un tema discusso di frequente nei romanzi accademici, siano essi italiani o scritti in altri lingue.
La questione dei suicidi universitari è una questione delicata, su cui è difficile fare un discorso generale, prescindendo dalle specificità dei singoli casi. Quello che volevo mettere in luce era però un possibile esito estremo di un sistema potenzialmente tossico che spinge alla competizione, è ossessionato dalla performance e grava su persone che spesso il sistema stesso ha contribuito a rendere fragili. Il personaggio di Carlo è un esempio di vittima che ha ormai talmente interiorizzato la logica da cui è oppresso da arrivare a condividerla. Ovviamente il suicidio è uno degli esiti possibili, il più eclatante, ma è solo la punta di un iceberg di microsofferenze diffuse. E d’altra parte quando scrivevo era già chiaro che esisteva un problema di suicidi legati all’università, sebbene l’argomento non fosse discusso come oggi, quindi ho voluto dare il mio minuscolo contributo al dibattito e alla tematizzazione dell’argomento.