P erché i crimini dei nazisti sono stati riconosciuti per tali dall’intera comunità internazionale e quelli dei Khmer rossi no? Forse perché le vittime degli uni erano degli ebrei, bianchi, e quelle degli altri erano dei semplici cambogiani dalla pelle scura?”, domandava Tiziano Terzani sul Corriere della Sera del 20 Giugno 1992, e ipotizzava: “Forse perché a Norimberga i vincitori ebbero modo di imporre la loro giustizia ai vinti, mentre in questa maledetta guerra indocinese, finita senza una chiara sconfitta, ma solo con milioni di morti, nessuno è in grado di processare nessuno e la giustizia resta fra le tante speranze frustrate?”.
Arrivo in Cambogia via terra dalla capitale Thailandese, prendendo mezzi locali per cercare di immergermi tra i cambogiani che lavorano in Thailandia e tornano a casa a trovare i parenti. Raggiungo la frontiera, precisamente il border di Poipet all’imbrunire. Caldo, tanta gente, e appena passato il confine con la Thailandia cambiano le vibrazioni.
Nella stanza per richiedere il visto tutto è molto sporco, c’è tensione nell’aria e troppi militari. Viaggiatori siamo pochi, massimo una decina. Compilo il foglio per la richiesta del visto e vado a consegnare il passaporto ai militari. Sapevo che il visto costava 30 dollari ma allo stesso tempo sapevo che sarebbe stato molto probabile che mi chiedessero una mazzetta. Così è: appena gli allungo i documenti mi chiedono 200 baht per loro. Qui in Cambogia i militari sono corrotti: chiedere la loro parte, senza vergogna né segretezza, davanti a tutti, è la prassi nell’ufficio della frontiera. Addirittura la cifra da dargli si trova scritta su un foglio in matita negli uffici governativi.
La prima intensa settimana in Cambogia la passo in città piccole e non turistiche, per cercare di incontrare persone con le quali capire meglio il passato recente. Battambang è una città sporca e inquinata. Anche i templi sono sporchi e semi distrutti, la povertà è tanta, le uniche vetrine illuminate sono quelle dei negozi di smartphone, onnipresenti, surreali se pensati in relazione alla povertà che si vede in strada.
In questa cittadina incontro un uomo sorridente che si propone di farmi da autista con il suo mototaxi costruito da sé, a metà tra una moto e una carrozza di legno. Mi passa subito tra le mani il suo tripadvisor analogico: un quaderno con tutte le recensioni che i suoi clienti gli hanno lasciato negli ultimi anni. Mi convince, oltre che con un prezzo dignitoso sia per il suo lavoro sia per le mie tasche, facendomi capire che ha voglia di parlare e raccontarsi.
Il giorno dopo mi accompagna in giro per la città e mi faccio portare a Lang La’Coun, una delle grotte dove avevano luogo torture e uccisioni sommarie durante il regime di Pol Pot, famose come Killing Caves. La prima cosa a colpirmi è la sporcizia che caratterizza questo luogo così importante per la memoria dei cambogiani. Tutto è privo di indicazioni o spiegazioni storiche e lasciato alla rovina più totale, ma è difficile capire quanto di questa incuria sia legato alla miseria generale e quanto a una rimozione più profonda. Di fatto, niente racconta la storia drammatica che si è consumata qui poco più di quarant’anni fa.
Il 17 aprile del 1975, due settimane prima della caduta di Saigon in Vietnam, l’esercito comunista degli Khmer rossi sconfisse l’esercito del presidente della Cambogia Lol Nol, sostenuto dagli americani, ed entrò nella capitale Phnom Phen. Nel giro di pochi giorni tutti gli stranieri fuggirono dal paese, che fu sigillato dagli Khmer rossi sigillarono per dare inizio a una vera e propria campagna di “pulizia sociale” con l’intento di liberarlo dalle classi borghesi e urbane per creare l’utopia di Pol Pot: un regime autarchico e contadino che doveva partire dal ritorno alle campagne di tutti i cittadini e la semi-distruzione delle città.
Poche ore dopo la presa della capitale guerriglieri vestiti di nero spesso scalzi forzarono gli abitanti delle città in una lunga marcia verso le campagne da ripopolare, dove migliaia di persone furono uccise a colpi di bastone per risparmiare proiettili, accusati senza nessun processo di far parte di una classe borghese e cittadina. La follia del regime durò per 4 anni, si macchiò di crimini atroci, giorni poco ricordati in Occidente.
È difficile capire quanto dell’incuria nelle “killing caves” degli Khmer rossi sia legato alla miseria generale e quanto a una rimozione più profonda.
Gli Khmer rossi furono rimossi dal potere non dagli americani, ma dall’invasione vietnamita del 7 gennaio 1979. Almeno 1,7 milioni di persone in quei pochi anni di regime morirono per esecuzioni, torture, malattie non curate, lavori forzati e malnutrizione. Quello che rimase dell’esercito degli Khmer rossi si rifugiò nella foresta e diede inizio a due decenni di guerriglia, sostenuta anche dalle forze occidentali in funzione anti Vietnam.
Solamente nel 2003, il governo cambogiano e le Nazioni Unite istituirono un tribunale per processare alcuni dei leader degli Khmer rossi. Ancora oggi sono sotto processo, tutti sono ultraottantenni e nel Paese non esiste un vero dibattito su quello che successe in quei terribili anni in Cambogia.
Arrivato quasi davanti alla grotta della morte, trovo tutto il contrario quanto mi aspettassi. Né immagini cruente, né cifre che riportano il numero dei morti, né teschi e ossa umane: non si fa menzione di cosa succedeva in quel luogo durante la dittatura militare. Neanche un cartello, una foto o una spiegazione, niente di niente: un luogo tragico tramutato in qualcosa da vendere ai turisti semplicemente grazie a un nome forte come Killing Cave. Presto arriva un bus di anziani, turisti sudamericani, con guida locale che urla ai suoi clienti: “Da qui ammazzavano le persone e poi le buttavano giù nella grotta”. Lo urla più volte per farsi sentire da tutta la comitiva, senza contestualizzare e senza dire chi aveva commesso il crimine, senza dire nulla dei carnefici e delle vittime.
La domanda su come sia stata costruita la memoria storica del regime negli ultimi vent’anni da parte dei cambogiani si fa sempre più urgente. La prima persona con la quale approfondisco il discorso è proprio l’autista del mototaxi. Lo invito a mangiare qualcosa insieme e cominciamo a parlarne. La discussione si fa subito accesa perché Arun non concorda sulla versione che dei cambogiani abbiano trucidato e assassinato altri cambogiani, e mi spiega che secondo lui è tutta un’invenzione vietnamita, creata per occupare militarmente il territorio cambogiano. Come se l’evidenza della violenza e dell’assurdità del regime di Pol Pot non fosse mai esistita.
A sconvolgermi è non solo l’oblio della storia recente, ma quello che questa discussione dice su come oggi ancora si viva in Cambogia. La vita della maggioranza della popolazione continua a essere molto faticosa e mediamente breve, specie se non si hanno abbastanza soldi per curarsi, per mandare i figli a scuola e farli crescere senza mancanze alimentari: in Cambogia tutto è privato, e quello che è pubblico è estremamente corrotto.
Il giorno dopo vado via da Battanbang e mi dirigo verso la capitale, dove visito la prigione di Tuol Sleng, nota come S21, la sede di una scuola che divenne il principale centro di detenzione e rieducazione degli Khmer rossi. Tuol Sleng oggi è il museo del genocidio. Un luogo pesante, che trasuda tristezza, con le stanze vuote e le piccole celle di mattoni. Nei piani bassi della struttura ci sono migliaia di ritratti in bianco e nero, allineati su dei pannelli di legno, rinchiusi dietro delle teche di vetro. Sono le foto scattate ai prigionieri al momento del loro ingresso a Tuol Sleng. Un luogo dove morirono più di 12.000 donne, uomini e bambini torturati e uccisi a bastonate oppure condotti verso i campi della morte simili alla Killing Cave di Battambang. Durante la visita sento gli occhi dei torturati addosso e mi sconcerta la debolezza dei pannelli che spiegano la storia del luogo: teche semi distrutte, sbiadite e spesso con pezzi mancanti, più simile un’attrazione ormai decadente che a un luogo di memoria per il presente.
Per fortuna incontro Chum Mey, uno dei pochissimi sopravvissuti (si parla di una sola dozzina) a questo luogo di prigionia, morte e tortura. Chum Mey ha raccontato la sua storia infinite volte ai giornalisti, visitatori, ricercatori, ha fondato l’associazione delle vittime chiamata Ksaem Ksan, nel 2012 ha scritto un libro, Survivor: The Triumph of an Ordinary Man in The Khmer Rouge Genocide, tradotto in molte lingue, ma cercando il suo nome online in italiano non si trova quasi nulla.
Chum Mey è sopravvissuto alla prigione di Tuol Sleng, nota come S21, il principale centro di detenzione e rieducazione degli Khmer rossi.
Le chiedo di presentarsi velocemente a un pubblico italiano che purtroppo conosce poco la storia del suo Paese.
Quando è stato arrestato e perché?
Ti interrogarono? Cosa volevano da te?
Come stavano gli altri detenuti? Come passavate le vostre giornate da prigionieri?
Come ti sei salvato?
Cosa diresti o cosa vorresti dire ai tuoi torturatori?