N ata nel 1776 a Ingolstadt, in Baviera, la setta segreta degli Illuminati fu definitivamente stroncata nel 1787 dal principe Carlo Teodoro, che ne temeva le rivendicazioni illuministe, anticlericali e antimonarchiche. O almeno così vuole la narrazione ufficiale: secondo una delle più diffuse teorie del complotto, gli Illuminati sono ancora tra noi. Altro che svanire nel nulla: il loro potere, nel corso di due secoli, si è espanso enormemente. Col tempo, alcune delle più potenti e influenti famiglie del mondo hanno preso le redini degli Illuminati. Tredici famiglie, per la precisione: Rothschild, Rockefeller, Onassis, Kennedy, Li, Astor, DuPont e altre ancora, che messe assieme possiedono il 99% delle ricchezze mondiali.
Un vero e proprio cartello. Un potentissimo cartello che domina il mondo a livello economico, finanziario e politico. I governi democraticamente eletti non sono altro che marionette, al servizio degli Illuminati e dei loro scopi. E quale sarebbe però questo scopo? Semplice: eliminare dalla faccia della Terra gli stati, le nazioni e le loro differenti culture e particolarità. Rendere tutta l’umanità parte di un’unica famiglia, di un unico governo. Un governo mondiale. Questo è il piano: dare vita a un Nuovo Ordine Mondiale, a una dittatura globalista in cui l’intero pianeta è asservito ai voleri delle 13 famiglie degli Illuminati.
Vista così, quella degli Illuminati – di cui ho raccontato storia e leggenda in una puntata del podcast Complottismi – è una teoria del complotto assurda e distaccata dalla realtà, spesso e volentieri intrecciata con l’antisemitismo. Siamo però sicuri che la posizione più logica da adottare nei confronti di questa teoria e dei suoi seguaci sia di totale e sdegnato rifiuto? “Gli Illuminati non controllano alcun governo mondiale, né gli ebrei hanno il controllo del sistema bancario, ma è così sbagliato dire che la classe dirigente faccia parte di una ‘cospirazione’ volta a inseguire i propri interessi?”, scrive Erica Lagalisse in Anarcoccultismo (D Editore). “Le persone hanno davvero torto a sospettare che i governi e le sue strutture agiscano coscientemente ai danni degli individui?”.
Come sarebbe folle credere alla teoria del complotto degli Illuminati, altrettanto ingenuo sarebbe pensare che le élite del mondo imprenditoriale e finanziario non abbiano la volontà (e la capacità) di influire direttamente sulla politica e sulla società. Per molti versi, quella degli Illuminati è una lente che distorce e ingigantisce una chiave di lettura non necessariamente scorretta.
Sarebbe ingenuo pensare che le élite del mondo imprenditoriale e finanziario non abbiano la volontà di influire direttamente sulla politica.
La benevolenza di una ricercatrice dichiaratamente anarchica come Erica Lagalisse (antropologa alla London School of Economics) nei confronti di una tesi complottista facilmente interpretabile in chiave anticapitalista è comprensibile. Per molti versi, gli Illuminati si possono considerare il frutto malato della sana pianta della critica radicale. Lo stesso non sembrerebbe certo potersi dire della famigerata teoria del complotto di QAnon, secondo cui Donald Trump è l’eroe che deve salvare gli Stati Uniti dalla dominazione di un’élite di sinistra formata da pedofili satanisti e che ha le sue radici nel terrore reazionario verso un mondo che cambia; in cui chi non si oppone strenuamente alle trasformazioni sociali e culturali è un pervertito corrotto che punta a distruggere la propria nazione.
E infatti QAnon è una teoria del complotto nata sui forum della alt-right, adottata da paranoici di estrema destra con il fucile sempre in braccio, legata ai più radicali movimenti no-vax e che ha fatto breccia su chi, per esempio, era già convinto che Barack Obama fosse letteralmente l’Anticristo. QAnon sembra confermare, come scrive Leonardo Bianchi in Complotti! (Minimum Fax), “l’idea generale sui complottisti che chiunque si è fatto consultando i media o la cultura popolare (…): si tratta di persone disturbate, ai margini della società, che vanno in giro con cappelli di carta stagnola in testa o pensano di essere inseguiti da elicotteri neri”.
Le cose, in realtà, non sono così semplici: “Le teorie del complotto”, scrive sempre Bianchi, “permeano ogni strato della società e si distribuiscono più o meno equamente sullo spettro demografico, socioeconomico, occupazionale, di genere, culturale e ideologico”. Questo aspetto a prima vista sorprendente è stato in realtà confermato anche dai reporter che si sono intrufolati tra i seguaci di QAnon che hanno assaltato il campidoglio il 6 gennaio 2021, scoprendo che tra essi c’erano parecchi ex elettori centristi e di sinistra disillusi, alcuni che in passato avevano votato Obama e Hillary Clinton o, alle primarie, addirittura Bernie Sanders.
Tra le idee politiche che potrebbero sorprendere chi aderisce a una lettura superficiale dei seguaci delle teorie del complotto ci sono anche quelle di Jacob Chansley, meglio noto come Jake Angeli: lo sciamano di QAnon che con il suo cappello con le corna è diventato il simbolo dell’insurrezione del 6 gennaio. Nel corso della sua vita, Chansley si è dedicato anche alla scrittura, autopubblicando su Amazon un romanzo e un saggio. Quest’ultimo, intitolato One Mind at a Time, è stato letto dal docente di Storia Nicolas Guilhot, che sulla Boston Review ne ha sintetizzato la visione del mondo, tanto distorta quanto ingenuamente progressista. In
One Mind at a Time, Chansley descrive il mondo che emergerà quando il ‘fascismo aziendale militarizzato’ sarà sconfitto assieme al Deep State: le prigioni saranno eliminate e la pena di morte abolita, i confini scompariranno e tutti potranno muoversi liberamente; ci saranno ‘un sacco di soldi’ per gli insegnanti, la sanità coprirà tutti i cittadini, i senzatetto avranno le case e nessun essere umano e animale sarà affamato.
Questa ingenua utopia socialisteggiante, dalla quale Donald Trump sarebbe disgustato, ci racconta quale possa essere il retroterra socioculturale di alcuni dei seguaci di QAnon. Com’è possibile che un confuso adepto delle ideologie new age, vegano e ambientalista, finisca a rifugiarsi – come già era stato osservato nella diffusione di QAnon nel mondo yoga – in una teoria del complotto di estrema destra? Sempre secondo Guilhot, ciò dimostra più che altro “la capacità della alt-right di di assorbire idee progressiste o controculturali e incanalarle in una direzione reazionaria”.
Teorie trasversali
Accogliendo le teorie del complotto, l’estrema destra le trasforma in una specie di terreno di conquista elettorale. Non solo: radunando sotto un’unica bandiera ideologica seguaci di QAnon, antivaccinisti, chi pensa che la pandemia sia un complotto, seguaci della Grande Sostituzione, ecc. la destra reazionaria contribuisce attivamente a dare forma a una visione complottista del mondo. Una visione complessiva in cui ogni singola cospirazione rappresenta un tassello di un puzzle più grande, in cui il fine ultimo è sempre, in un modo o nell’altro, la conquista del mondo.
Come segnala Leonardo Bianchi rifacendosi a Karl Popper, immaginando cospirazioni secolari di dominazione planetaria, le teorie del complotto ingigantiscono oltre ogni misura l’intenzionalità: tutto si svolge seguendo meticolosamente i piani dei cospiratori; non ci sono mai intoppi, e nessuna persona coinvolta nella cospirazione si lascia sfuggire il minimo segreto. In ultima istanza, la storia è pianificabile e completamente manovrabile dagli esseri umani.
Nel mondo reale, precisa ovviamente Bianchi, le cose non vanno mai così e c’è sempre qualcosa che va storto.
È per questo che, sempre secondo Karl Popper, le teorie del complotto rappresentano una forma di superstizione primitiva che indica l’incapacità di comprendere come gli eventi sociali siano in realtà l’esito di vari processi indipendenti e in cui invece essi vengono visti come l’espressione di un singolo e onnipotente volere. Nella lettura di Popper, quindi, i cospirazionisti sono vittima di un problema cognitivo, che impedisce loro di “pensare bene” e li rende incapaci di elaborare correttamente le informazioni.
La visione che tende a patologizzare chi crede nelle teorie del complotto rischia però di essere eccessivamente parziale e soprattutto di individualizzare un problema che è invece sociale. Sempre nel saggio pubblicato dalla Boston Review, Guilhot riporta una lettura diametralmente opposta, elaborata già nel 1971 dal sociologo Edgar Morin, che – ricostruendo una vicenda di cronaca nera avvenuta a Orléans, in seguito alla quale si era scatenato un ingiustificato e complottista panico morale – spiegò come questa dovesse essere messa in relazione ai cambiamenti nella struttura demografica delle città, alle nuove identità di genere, al ruolo della donna nel mondo del lavoro, ai processi di modernizzazione economica che avevano travolto il tessuto sociale e morale e il lento declino di una città che era passata dall’essere un’ex capitale medievale a banlieue di Parigi.
Anche a cinquant’anni di distanza, una lettura di questo tipo appare molto più sofisticata e robusta dell’interpretazione patologizzante. Le cause della diffusione delle teorie del complotto non sarebbero quindi da cercare (esclusivamente) in eventuali deficit cognitivi o nella “infodemia” provocata dai social network, ma troverebbero origine – semplificando – nei mutamenti e nei terremoti sociali, le cui vittime vanno in cerca di cause univoche e di responsabili diretti. È anche per questo che – come racconta sempre Bianchi in Complottismi! – “le teorie del complotto hanno un andamento oscillante, che raggiunge i picchi più elevati in coincidenza dei cicli di grandi cambiamenti e grande incertezza”.
I problemi del debunking
La ridicolizzazione dei teorici del complotto – trattati come fenomeni da baraccone, come casi patologici – è quindi una lettura sbrigativa e parziale. Non solo: è una lettura pericolosa. La ragione la spiega la docente di Filosofia Donatella di Cesare nel suo libro Il complotto al potere (Einaudi). Quando si parla di teorie del complotto, scrive di Cesare, le linee interpretative sono per lo più due: il complottismo viene visto o come una patologia psichica oppure come un’anomalia logica. Nel primo caso si risale ai recessi oscuri della mente. Nel secondo si giunge invece alla logica delle fake news che si propagano nell’epoca della ‘post-verità’. In entrambi i casi si pensa che il presunto complottista dovrebbe essere avviato a una rieducazione cognitiva. Malgrado ogni sforzo, però, nessuna delle due terapie funziona, mentre l’onda complottista aumenta.
“Una tale stigmatizzazione, oltre a restare inefficace, è controproducente”, scrive ancora di Cesare. Come sempre, la sanzione poliziesca del pensiero e la denuncia inquisitoriale servono a poco. Da qualche tempo si è andata affermando una vulgata anticomplottista che, reclamando il possesso della verità, ridicolizza e delegittima le teorie giudicate devianti, irrazionali, nocive. Ma questo approccio polemico e patologizzante, che squalifica ogni critica alle istituzioni, non fa che confermare il gioco delle parti e aggravare una frattura sempre più profonda: da un canto chi, tacciato di essere complottista, rivendica di essere antisistema, dall’altro chi, ricorrendo ai canoni della propria ragione, è accusato di sostenere l’ideologia dominante. In breve: l’anticomplottismo semplicistico rischia di assecondare lo scarto tra “verità ufficiale” e ‘verità nascosta’ impedendo di comprendere un fenomeno complesso e poliedrico.
Alcune di queste forme di “anticomplottismo semplicistico” assumono anche derive inquietanti e paternaliste, come i programmi di “debiasing” (una sorta di decostruzione della percezione errata che porta a credere alle teorie del complotto) proposti dallo scienziato Steven Pinker, e, in misura minore, in una certa forma di “debunking feroce” che mira a smontare su una base esclusivamente fattuale ciò che ha fondamenta differenti. Il debunking, inoltre, non ha praticamente nessuna utilità “rieducativa”, visto che i complottisti hanno gioco facile a interpretarlo come un ulteriore ingranaggio della macchina del fumo dei “poteri forti”. Forzando il paragone, sarebbe come credere che sia possibile smontare la fede di un credente facendo “fact-checking” dell’esistenza di Dio. Buona fortuna.
Avete presente il meme dei “giovani del PD” che urlano ironicamente al “komplotto!!1!” per sminuire ogni tesi che non sia perfettamente aderente alla narrazione ufficiale? Allo stesso modo, un certo approccio iper-rigido nei confronti del cospirazionismo rischia di trasformarsi – come segnala Guilhot – in una “difesa dello status quo”, in cui le teorie del complotto vengono utilizzate come arma contundente per “restringere ulteriormente lo spazio della politica”. Come dire: per Big Pharma non c’è nulla di più utile che essere presa di mira dai complottisti, se ciò permette di far passare per “complottista” chiunque critichi Big Pharma.
Applicando l’etichetta di “complottista”, tanto gli scienziati sociali quanto gli attivisti non riescono a distinguere tra teorie che potrebbero avere delle linee di critica valide (“il sistema sanitario privato è interessato solo ai soldi”) da quelle più fantascientifiche (“il sistema bancario mondiale è in mano a lucertole ebree aliene”)
scrive Lagalisse in Anarcoccultismo. Etichettare troppo facilmente le interpretazioni anticonformiste come complottiste rischia di ritorcersi contro la ricerca della verità. E in un paese come l’Italia, dove di complotti reali negati in ogni modo dalla narrazione istituzionale ne abbiamo visti in quantità, dovremmo essere perfettamente consapevoli di questo pericolo.
Come evitare allora di diventare tutti – complottisti e anticomplottisti – gli utili idioti della narrazione mainstream? Probabilmente, evitando prima di tutto che questa contrapposizione diventi troppo rigida. Come sottolinea Leonardo Bianchi, “la propensione a credere in una teoria del complotto è universale: tutti, almeno una volta nella vita, siamo finiti nella ‘tana del bianconiglio’ – ci siamo convinti dell’esistenza di qualche cospirazione fittizia”. In secondo luogo, sostiene invece Lagalisse, “sarebbe utile concedere ai complottisti che vi siano realmente delle ‘piramidi’ che sovrastano e dominano lo spazio sociale, e che le persone ai vertici lottano senza sosta per rimanere al potere, che lo ammettano o meno”.
È questo il nucleo centrale della tesi ottimista e propositiva di Lagalisse. Che ci permette di giungere al punto del nostro discorso: se la destra più reazionaria tende ad abbracciare le teorie del complotto – da QAnon alla Grande Sostituzione, passando per le posizioni ambigue su Covid e vaccini – al solo scopo di conquistare quella fascia di elettorato e incurante delle conseguenze, il compito della sinistra dovrebbe invece essere di estrarre il buono (l’anticapitalismo, la critica ai poteri forti, lo scetticismo nei confronti delle multinazionali) di alcune teorie del complotto, separandole però da tutto ciò che è irrazionale, paranoico e spesso razzista.
Mentre i teorici delle cospirazioni sviluppano allegorie che riescono a descrivere l’estrazione capitalista, il fatto che i protagonisti di queste storie siano banchieri ebrei, alieni, Templari o massoni ci distrae da alcune intuizioni che invece meriterebbero più attenzione e che rischiano di restare orfane di approfondimenti politici o sociologici
spiega Lagalisse, secondo la quale è fondamentale prendere le teorie del complotto – che in alcuni casi individuano problemi corretti attribuendoli però erroneamente alla volontà di un manipoli di singoli – e trasformarle in teorie critiche, che si concentrano invece “sulla costruzione di una teoria dei cambiamenti sociali in cui gli eventi si svolgono a causa di forze impersonali”.
È quanto scrive anche Bianchi (seguendo lo psicologo Jovan Boyford): I nuclei di verità su cui si basano le teorie cospirative sono degli ottimi punti di partenza per intavolare una discussione proficua. L’obiettivo, infatti, non è quello di rendere un complottista meno curioso o meno scettico, ma di “cambiare la direzione della sua curiosità e del suo scetticismo”.
La fine delle grandi narrazioni
Seguendo queste indicazioni, si può leggere in controluce un altro elemento d’importanza cruciale, vale a dire la possibilità che la fine delle grandi ideologie (e il declino della religione) abbia lasciato strada alla costruzione di nuove macro-interpretazioni politiche paranoiche e spesso fai-da-te, nello stesso modo in cui anche la religione sta diventando una questione sempre più personale e personalizzata. L’epoca post-moderna, in poche parole, avrebbe fatto sì che i vuoti lasciati venissero colmati (anche) con una lettura cospirazionista del mondo.
L’antropologo delle religioni Ernesto De Martino, citato da Guilhot sulla Boston Review, aveva anticipato già nel 1964 come “l’esaurimento delle ideologie del progresso e il declino della religione avesse lasciato il mondo scarsamente equipaggiato per affrontare la possibilità della catastrofe”. De Martino si riferiva al rischio di apocalisse nucleare della Guerra Fredda. Adesso, la catastrofe che le masse non sempre hanno i mezzi per affrontare, inquadrare e razionalizzare è quella delle diseguaglianze economiche, della fine dell’era dell’ottimismo, della precarietà, della pandemia, della crisi climatica.
Privati delle mediazioni culturali comunitarie delle grandi ideologie e delle religioni, le persone – spiega De Martino – si sentono al centro di una rete di insidie diffuse, di forze ostili, di oscure trame cospirative tessute ai loro danni, esperendo al tempo stesso un continuo spossessamento di sé, un esser esposti irresistibilmente alla perdita di qualsiasi intimità e a un continuo deflusso dissipatore nel mondo esterno.
Considerare il complottismo come se fosse causato da un deficit cognitivo o dai social network (che comunque, ovviamente, un ruolo lo giocano) non è solo un’interpretazione parziale e scorretta, ma è anche una lettura possibile solo da una posizione di privilegio. Lo spiega chiaramente Guilhot: È solo grazie alla posizione di privilegio in cui la certezza del loro mondo viene data per scontata che gli opinionisti odierni possono considerare le teorie del complotto come delle deficienze cognitive che devono essere corrette, rimanendo invece sordi all’ansia esistenziale che esse esprimono (…). Dobbiamo invece recuperare la capacità politica di gettare ponti che attraversano un presente cataclismatico. Ciò può iniziare solo dalla ricostruzione della visione di un mondo comune e di un futuro inclusivo per tutti coloro i quali stanno smarrendo i loro.
Più in concreto, un lavoro di questo tipo passa (anzi, probabilmente parte) da un rapporto differente con le teorie del complotto e i loro sostenitori, che non li rifiuti in toto, ma che cerchi di depurarne le visioni dalle componenti più assurde, senza gettare via il bambino con l’acqua sporca. “Chi accetta queste teorie”, prosegue Lagalisse, “potrebbe essere convertito a un’analisi anticapitalista meno roboante e più aderente ai fatti. (…) Sarebbe opportuno cercare di articolare questi miti all’interno di teorie sociali anticapitaliste per avvicinare queste persone ai movimenti sociali”.
È evidente che – se si accetta la necessità politica di cooptare e depurare le teorie del complotto – non è attraverso il debunking, la ridicolizzazione o il semplice razionalismo che è possibile mettere a frutto delle energie che a volte partono da embrioni critici corretti per poi naufragare, approdando spesso nella destra estrema. E se fosse invece possibile accogliere le premesse di alcune teorie del complotto, disinnescare gli elementi più odiosi (paranoia, razzismo, antisemitismo) e inquadrarle all’interno di una più ampia cornice di senso e politica, offrendo risposte alle domande poste da chi sta precipitando nella tana del bianconiglio? Forse, per dirla sempre con Lagalisse, “non è necessario disincantare il mondo per permettere a un moderno antiautoritarismo di emergere; al contrario, è necessario reincantarlo”.