C artoline di un pasciuto Leonid Brezhnev a torso nudo e placche che celebrano Béla Kun, demiurgo della prima Ungheria comunista: il Memento Park è un parco a tema post-socialista. La finalità non è esattamente celebrativa. Il sito pubblicizza esperienze come il Dicta Tour, il giro della Budapest comunista, o la visione de La Vita di un Agente, un film per imparare a nascondere le cimici e perquisire una casa. Le statue imponenti che formano questo cimitero monumentale sono prive di didascalia. Erano state erette nel centro città per impressionare l’osservatore con le vittorie del socialismo reale; ora, accatastate e anonime, rimangono solo come relitti di un tempo finito, suscitano un misto di compassione e orrore. Budapest non può concedere loro nemmeno l’onore delle armi. Spariscono dal cuore della capitale, per lasciare spazio ad altro: la storia sta cambiando.
“Gli ungheresi sono completamente indifferenti verso la loro memoria storica. Per chi vuole alterare il passato la strada è spianata”, esordisce Gábor Egry, dell’Istituto di Storia Politica. Ci guiderà attraverso la Budapest che cambia, raccontandoci i progetti del governo per modificare, e all’occorrenza inventare ex novo, interi segmenti del passato. Parafrasando la Lösung di Brecht, in Ungheria la storia va sciolta e ne va eletta un’altra.
Il Memento Park è infatti solo un tassello di un’ondata iconoclastica ben più estesa. Già subito dopo la caduta del regime comunista, molte strade e piazze cambiarono nome. Orbán si è spinto oltre, approvando una legge che vieta di intitolare luoghi pubblici a figure connesse in qualsiasi modo al passato comunista. Un’amnesia forzata che si esprime in una rimozione pressoché totale: dal 1993 ai giorni nostri, quasi tutti i simboli del comunismo sono spariti da Budapest, il periodo 1949-1989 è oggi colpito da damnatio memoriae. L’intenzione della nomenklatura è di rinazionalizzare la storia dell’Ungheria, eliminando tutto ciò che non sia considerato pienamente magiaro. Oltre alla rimozione del lascito socialista, questa strategia passa per la glorificazione del regime dell’ammiraglio Miklós Horthy, controverso reggente del paese tra le due guerre mondiali. Nel nuovo manuale di storia di Orbán, il comunismo rappresenta una sciagurata parentesi, l’ultima “Ungheria indipendente” fu il regime ultra-conservatore di Horthy (1920-1944), di cui i conservatori al potere cercano di presentarsi come legittimi eredi. Secondo la storica Gwen Jones, i temi e la retorica illiberale del periodo interbellico sono tornati di moda. Budapest, allora, si sottopone a un’operazione chirurgica che punta a riacquistare lo splendore degli anni ’30.
“Questa è la piazza principale della nazione”, spiega Gábor indicandoci Piazza Kossuth, “un luogo simbolico su cui oggi si cerca di imperniare la nuova narrazione della nostra Storia”. Dalla facciata del Parlamento, accanto al tricolore ungherese, sventola la bandiera dei secleri, minoranza magiara che popola la Transilvania romena. Ratificato dopo la Prima Guerra Mondiale, il trattato del Trianon del 1920 ridimensionava il Regno d’Ungheria, costringendolo a perdere due terzi dei territori e a lasciare cospicue minoranze in Cecoslovacchia, Jugoslavia, Ucraina e Romania. Con Orbán, la retorica irredentista è tornata a tuonare. Oggi, in tempi di aneliti nazionalisti, i secleri incarnano “l’Ungheria etnica più originale, più autentica”. Dal 2011 il governo ha semplificato l’iter di ottenimento della cittadinanza per queste minoranze all’estero.
A Lajos Kossuth, emblema della rivoluzione anti-asburgica del 1848 e dell’Ungheria moderna, è dedicata la piazza del Parlamento. Meno incensato è invece il leader della rivoluzione anti-sovietica Imre Nagy, premier per due settimane nel turbolento autunno del 1956. La sua statua è esiliata in una piazzetta laterale, da dove Nagy osserva il Parlamento. Ha la posa malinconica del vinto che, nell’atto di attraversare un ponte – e allontanarsi simbolicamente dal comunismo – si volta a guardare per l’ultima volta la piazza che il 4 novembre 1956 fu uno dei teatri della brutale repressione sovietica, costata circa 3000 morti (perlopiù civili) in tre settimane. “Oggi il ‘56 è dipinto come un’insurrezione nazionalista. Nagy, comunista riformatore, è visto con indifferenza, di sicuro non come un eroe”, sottolinea Gábor. Non stupisce che nelle commemorazioni ufficiali per i sessant’anni dalla rivoluzione il suo nome sia stato a malapena menzionato. La rivolta repressa nel sangue dal Patto di Varsavia, depurata dei suoi connotati politici (si chiedeva un socialismo dal volto umano), è raccontata soltanto come l’ennesima dimostrazione dell’eroismo magiaro. Un messaggio spedito a chiunque minacci l’indipendenza dei discendenti di santo Stefano.
Orbán ha più volte identificato in Bruxelles quell’oppressore straniero che fino al 1989 era incarnato dai sovietici. E paradossalmente, in questa contro-rivoluzione intestina all’UE, proprio la Russia di Putin si propone oggi come principale alleato. Non deve troppo stupire, allora, che nel 2015, in occasione della Giornata della Memoria per le Vittime del Comunismo, il primo ministro magiaro si spinse a sostenere che l’Europa Occidentale fosse da considerare colpevole per gli orrori generati dal comunismo, non l’Unione Sovietica. La mistificazione si accompagna alla rimozione.
L’Imre nazionale non è l’unico personaggio escluso dai riflettori della piazza del Parlamento. Il busto di István Bibó è ancora più nascosto, dietro al Parlamento. Figura complessa, Bibó fu avvocato, saggista, politico, convinto pacifista, ma soprattutto uno dei più strenui difensori della democrazia parlamentare ungherese. Un turista scatta una foto del Danubio, dando le spalle a colui che nel 1948 fu il primo a chiedere agli ungheresi di ammettere le loro responsabilità nell’Olocausto, nonché l’ultimo ad abbandonare il Parlamento, assediato dai carri armati sovietici nel tragico 1956. Mentre i colleghi si nascondevano o cercavano riparo (invano) nell’ambasciata jugoslava, lui rimase seduto al suo posto e, in attesa di farsi arrestare, scrisse il proclama Per la Libertà a la Verità, il canto del cigno di quella rivoluzione che così tanto entusiasmo aveva generato. Anche per questo gesto eroico, “negli anni Settanta, attorno alla sua figura si formò la nuova generazione anti-comunista”, spiega Gábor. Ma oggi un comunista come lui, per quanto critico e tormentato, non può meritare troppo spazio.
A due passi dal Parlamento, in piazza Szabadság (Libertà), sorge l’elemento più controverso del restyling nazionalista di Budapest: il Monumento alle vittime dell’Occupazione Tedesca. Svelato una notte nell’estate del 2014 senza alcuna cerimonia ufficiale, è “un contro-monumento all’Olocausto”. Un’innocente Ungheria, rappresentata dall’arcangelo Gabriele, è attaccata da un’aquila nera nazista. Sul ruolo che i collaborazionisti ungheresi giocarono nelle persecuzioni antisemite cala un discreto riserbo, per non infangare la memoria del regime autoritario. Nemmeno nella sinagoga di Budapest, la più grande in Europa e la seconda al mondo, compare una menzione all’antisemitismo di Horthy e sodali. “Come abbiamo costruito una narrazione vittimista?”, si chiede lo storico Krisztián Ungváry.
La nostra passeggiata sulle tracce del passato che va di moda non può che concludersi con una visita all’ammiraglio. Non lontano dal Monumento alle vittime dell’Occupazione Tedesca, all’ingresso di una chiesa protestante, si trova un busto dedicato proprio a Miklós Horthy. “Non poteva essere eretto su suolo pubblico, quindi è stato posizionato sul suolo della chiesa, ma affacciato in strada”, conclude Gábor. Per un attimo pensiamo all’effetto che farebbe un busto di Mussolini messo a squadrare i passanti in Piazza Navona.
Gli alfieri di questa offensiva ultra-nazionalista condotta dal governo magiaro verso la memoria storica sono vari. Tra i più emblematici, l’istituto Veritas, centro di ricerca filo-governativo, un nome dalle tinte orwelliane. Tuttavia, pochi hanno dubbi su chi sia da considerare il grande Vecchio dietro a questa operazione temeraria: Maria Schmidt, direttrice della Casa del Terrore, il museo dei crimini di nazismo e comunismo, ospitato in via Andrássy 60, a cinque fermate di metro da Piazza Kossuth. Nello stesso edificio, dal 1944 al 1956, prima i fascisti di Ferenc Szálasi (primo ministro collaborazionista durante gli ultimi sei mesi della Seconda Guerra Mondiale), poi la polizia segreta comunista torturavano e giustiziavano i propri oppositori politici. Il museo gioca su un meccanismo ben collaudato dalle élite salite al potere in Europa Orientale dopo il 1989: si equiparano nazismo e comunismo in toto, accomunando entrambi sotto l’etichetta di “regimi del terrore”, per legittimare la demonizzazione assoluta del secondo tramite l’identificazione con il primo. Sacrificando la precisione storiografica sull’altare dell’ideologia, si presenta allora una storia idealizzata, fedele a una dicotomia tra buoni e cattivi che permette di selezionare solo gli eventi del passato utili ad avere una visione edulcorata dei propri antenati e, per metonimia, della propria nazione.
Coerentemente, il governo sta caldeggiando un passaggio simbolico ben più sostanzioso di un busto in bronzo. Sono ormai anni che le truppe di Orbán meditano il colpo grosso: trasferirsi al Castello di Buda. Un progetto faraonico, da 0.5% del PIL nazionale, che punta a rendere abitabili e utilizzabili palazzi che da anni accolgono solo semplici turisti. Spostarsi nel distretto di Buda – patrimonio UNESCO – coronerebbe il sogno del primo ministro. Il Castello di Buda era la sede del potere durante i fasti del periodo imperiale e, soprattutto, durante il regime autoritario di Horthy, quella “democrazia illiberale” ante litteram che appassiona l’attuale classe dirigente ungherese.