H o smesso di seguire Britney Spears su Instagram alla fine di novembre, il giorno in cui ha postato una foto di se stessa completamente nuda nella vasca da bagno con le mani a coprirle i seni e una emoji a forma di fiorellino tra le gambe. Mi era diventata insopportabile da sostenere l’ennesima esposizione al pubblico ludibrio di una donna che sentivo familiare come una specie di amica d’infanzia. La caption diceva più o meno così: “I like to suck… never professional pics… sucking comes easy for me”. Dico “più o meno”, perché quando sono andata a rivedere il post, qualche giorno dopo, mi sono accorta che l’intero account era stato cancellato. Ho controllato se ci fossero notizie a riguardo: il Daily mail e il Mirror erano tra le poche testate internazionali ad aver riportato il fatto, ormai del tutto privo di sensazionalismo, dato che era la sesta volta che succedeva.
È diventato un pattern: Britney posta qualcosa di controverso (un attacco alla sua famiglia) o assolutamente nonsense (foto di nudo con strane didascalie) e l’account scompare, per poi tornare online qualche settimana dopo. La prevedibilità con cui questo meccanismo si è verificato ha fatto sì che nascessero account come @backupbritneyspears e @britneysdeletedposts a opera di alcuni fan ed esponenti del movimento #freebritney, che salvano e ripubblicano tutti i post della popstar nell’eventualità che vengano cancellati. La cosa più interessante di questo progetto sono senza dubbio gli hashtag utilizzati: #whereisbritney #justiceforbritney #britneyisnotfree. Tutti sembrano alludere al fatto che la fine dei tredici anni di conservatorship nel novembre 2021 non sia coincisa con l’effettiva liberazione della cantante, la quale ancora oggi sarebbe soggetta per vie indirette al controllo di suo padre Jamie Spears. Molti profili collegati a questi hashtag parlano di CONservatorship, alludendo alla conspiracy attuata – secondo loro – ai danni della popstar; altri si riferiscono a Sam Ashgari, suo attuale marito, indicandolo con il nome di Scam: imbroglio, truffa. La vulgata che gira tra i fan più accaniti interpreta infatti il recente matrimonio con l’ex personal trainer e (ora) attore iraniano come un semplice passaggio di testimone per il controllo sulla vita e sul patrimonio generato dalla cantante. Molti altri invocano alla fine del care-plan, un piano medico che tutela e monitora l’attuale salute mentale della star.
Perché sei così ossessionata da questa storia? mi ha chiesto qualche giorno fa il mio compagno, a cui non era mai risultato di vivere insieme a una fan incallita di Baby one more time. La verità, in effetti, è che non lo sono mai stata. Per rispondere alla sua domanda ho dovuto rifletterci un po’, fino a quando non mi sono resa conto che tracciare la storia di Britney Spears oggi significa inoltrarsi in una foresta intricata che parla non solo di violenza patriarcale sistemica, ma anche delle conseguenze estreme dello showbiz capitalista, di teorie della cospirazione e di attivismo LGBT+. Molte le zone d’ombra, molti i dubbi, ma una cosa è certa: tutti si domandano cosa stia succedendo a Britney Spears e nessuno riesce a darsi una risposta. Un paradosso estremo, considerando che, fin dal suo esordio, il racconto dell’ascesa e conseguente implosione della popstar è stato registrato per tappe iconiche sull’autostrada del nostro mainstream.
Britney ha invaso le camerette delle giovani millennial con i poster che uscivano fuori dai settimanali, quelli con i lucidalabbra in omaggio al gusto fragola e le copertine adesive. Era in televisione, era sui diari delle nostre compagne. Era la popstar per le brave ragazze. Ascoltare lei piuttosto che Avril Lavigne significava scegliere per se stesse uno spazio non problematico. Ma soprattutto, Britney era una ragazza normale: non particolarmente bella, non particolarmente dotata vocalmente, che tuttavia lavorava duro. La sua immagine pulita aveva qualcosa di noi più un superpotere: la celebrità, che in quegli anni pre-reality e pre-social media era qualcosa di tanto desiderabile quanto eccezionale ed accessibile a pochi. La promessa inclusa nel sogno venduto alle ragazzine ordinarie era quella tipica del mondo di fine anni Novanta, un contesto fondato sull’idea che se credi in qualcosa con tutta la tua forza e lavori duramente per ottenere un risultato allora quello non potrà che avverarsi. In questo, anche io le ho creduto. E forse non avevo in camera il suo poster, ma leggevo tutte le sue interviste.
Tracciare la storia di Britney Spears significa parlare non solo di violenza patriarcale sistemica, ma anche delle conseguenze estreme dello showbiz capitalista, di teorie della cospirazione e di attivismo LGBT+.
Nel settembre 2007 avevo vent’anni e preparavo un esame universitario con un’amica mentre su MTV passavano le repliche dei Video Music Awards di Las Vegas. Britney Spears appariva in televisione quasi ogni giorno mentre cantava Gimme More col suo bikini glitterato e i movimenti solo accennati, mai del tutto definiti, come fossero ancora delle prove generali. Nel video di quella performance i ballerini la fanno girare, la aiutano a salire e a scendere dalle scale della scenografia, e il corpo si adegua alle sequenze di passi ma niente più di questo. Basta poco a capire che Britney, capelli corti e corpo stanco, non è più la stessa persona che nel 1999 aveva debuttato in lingerie in una cameretta da adolescente sulla copertina di Rolling Stone. Il sogno si era frantumato, la promessa non era stata mantenuta. Le ragazzine cresciute con l’idea che bastava solo lavorare duramente per avere successo e realizzare i propri sogni hanno visto davanti ai loro occhi le conseguenze di anni di rinunce, abusi e umiliazioni di una donna inghiottita dallo showbusiness. Il successo e la fama mostravano allora il loro lato oscuro nella non reversibilità, l’impossibilità di mettere in pausa i riflettori quando si avrebbe avuto bisogno di privacy e supporto psicologico. In un’intervista del 2006 con la NBC la popstar è scoppiata in lacrime in diretta dopo aver ascoltato il giornalista parlare dei suoi recenti problemi con i servizi sociali e di alcuni dottori che l’avrebbero definita una cattiva madre, dopo aver soccorso il suo primo figlio che aveva battuto la testa.
In neanche dieci anni Britney è passata da role model in equilibrio tra innocenza e sensualità a ragazza interrotta. Il modo in cui questo passaggio è stato rappresentato dai media lo ha raccontato molto bene Jude Ellison S. Doyle nel saggio Spezzate, che legge Britney quale figura metonimica per tutte quelle donne pubblicamente attaccate appena scavalcati i confini del proprio ruolo di genere. Nel 1999 la pop star ammiccava a una terza via di femminilità: mentre il mondo degli adulti divideva le donne in tipi alla Monica Lewinsky e tipi alla Hillary Clinton – la puttana e la frigida – Britney offriva un modello in bilico tra l’innocenza e la sensualità barely legal. Un modello che è sembrato percorribile a molte adolescenti a cavallo del nuovo millennio, ma che tuttavia, a partire dai fatti del 2007, si è manifestato in tutta la sua artificiosità. Britney Spears allora si è rivelata quale persona sprofondata sotto il peso della performance, e non solo quella sostenuta sul palco, ma quella di tutti i giorni, in cui doveva sforzarsi di entrare in un ruolo impostole da altri. In particolare dagli uomini.
A proposito di questo, uno degli episodi del documentario Netflix This is pop racconta come l’intero fenomeno Baby one more time sia stato scritto dal produttore svedese Max Martin (anche co-autore dei singoli I kissed a girl di Katy Perry e Shake it off di Taylor Swift) e dal suo collega Jörge Elofsson. Penso allora ai testi di quell’album, me li vado a cercare: non solo il primo, famosissimo singolo, ma anche i successivi, come per esempio Sometimes, in cui la voce narrante è quella di un’ adolescente innamorata che dice al suo ragazzo di avere bisogno di tempo prima di decidere se “avere una relazione con lui” (stando all’interpretazione edulcorata di Genius lyrics), oppure quello di Born to make you happy, in cui, per l’appunto, la narrazione è quella di un io sempre e solo riportato in relazione a un compagno, a un amore. Ritratto struggente di una ragazzina come lo showbiz voleva che fosse: pura ma ammiccante.
I problemi più grandi sono nati quando Britney, da oggetto del desiderio, ha iniziato a desiderare e a comportarsi di conseguenza, con ribellione. Questo è accaduto nel 2007, l’anno dei Video Music Awards di Las Vegas, ma soprattutto l’anno in cui la foto della cantante con un rasoio elettrico in mano e la testa completamente calva ha occupato le prime pagine di tutte le principali testate di gossip. Britney era appena rientrata dalla rehab e la prima cosa che aveva cercato di fare era stata vedere i suoi figli, ma Kevin Federline, il marito di allora, glielo aveva impedito. Nessuno la voleva madre imperfetta, tutti la volevano invece superstar produttiva, sensuale, attraente. Ecco che i capelli diventano l’elemento simbolico di un corpo che vuole sottrarsi alla manipolazione altrui, al punto da trovare come estremo atto risolutivo la recisione, il taglio. La conservatorship è entrata in vigore nel febbraio del 2008, a circa un anno da questo espisodio.
Ricordo un concerto di Britney Spears a Brighton per il Pride del 2018. La scelta di avere lei come headline non mi aveva stupito: da che avevo memoria la cantante si era creata un posto speciale come icona della comunità LGBT+. Quell’occasione mi è però rimasta impressa per un altro dettaglio. Era la prima volta che leggevo l’hashtag #freebritney in tutte le tonalità del rosa su magliette, cartelli, fascette di ogni tipo. Il movimento che lo aveva lanciato sarebbe diventato mainstream solo nel 2021 con il documentario del New York Times, Framing Britney Spears, diretto da Samantha Emmings. Una conservatorship è una forma di tutoraggio legale su un soggetto che non è capace di gestirsi da solo – per questioni di malattia fisica o mentale. Nei tredici anni in cui questa formula è stata messa in atto, Britney Spears ha continuato a lavorare incidendo e rilasciando album, è stata sottoposta allo stress di un tour mondiale e ha performato in varie residenze a Las Vegas. Tutto il ricavato è stato gestito da Jamie Spears, legalmente autorizzato a concedere a sua figlia solo una piccola parte. Su un totale di 138 milioni di dollari accumulati in quattro anni di show a Las Vegas, la cantante ha dichiarato di aver avuto accesso solo a duemila dollari a settimana. Per anni non ha potuto guidare la sua stessa automobile, né comprare liberamente libri ai propri figli senza prima chiedere il permesso. Per anni non è stata libera di interrompere la pillola anticoncezionale, benché lo desiderasse.
In neanche dieci anni Britney è passata da role model in equilibrio tra innocenza e sensualità a ragazza interrotta.
Lo scorso agosto Britney ha rilasciato un vocale di ventidue minuti, poi cancellato, in cui accusava la famiglia di aver abusato di lei, della sua persona e del suo ruolo pubblico per i propri ritorni economici. Nel vocale spiegava che i sintomi della sua malattia mentale – secondo suo padre e il management – sarebbero stati quello di attaccare i paparazzi con un ombrello e di chiamare il proprio medico simulando un accento inglese per farsi prescrivere dei medicinali. Nel vocale la cantante accusava apertamente Lou M Taylor – la sua business manager – di aver premeditato la conservatorship da tempo, prima che fosse messa in atto. In alcune dichiarazioni riportate dal Guardian Britney ha raccontato di aver continuato a lavorare per più di dieci anni in un regime di terrore, costretta a fingere che tutto andasse bene per paura di subire violenza. Un giorno, dopo essersi rifiutata di eseguire il pezzo di una coreografia, la popstar ha riportato in tribunale di come suo padre l’avesse mandata in una struttura di rehab sotto minaccia. Più volte nei suoi recenti post su Instagram la donna ha denunciato la totale assenza di privacy che ha caratterizzato questo periodo della sua vita, raccontando di come membri del suo team fossero stati istruiti per non lasciarla da sola neanche per fare la doccia.
Gli attivisti del movimento #freebritney – inizialmente liquidati da Jamie Spears come cospirazionisti – hanno avuto un ruolo fondamentale nel decretare la fine della conservatorship e non solo. Portando davanti ai media l’attenzione sul caso della popstar fin dal 2009, il loro lavoro ha incoraggiato la riflessione su una forma di tutoraggio spesso abusante ed eccessivamente restrittiva alla quale oggi, secondo un report del Guardian, sono soggette circa 1.3 milioni di persone in America. Zoe Brennan-Krohn, esponente dell’associazione American Civil Liberties Union, ha riconosciuto quanto Britney Spears fosse solo una delle migliaia di persone in tutto il Paese messe a rischio da un sistema di controllo abusante.
Il movimento #freebritney si dispiega davanti ai nostri occhi nella rete come un movimento politico a tutti gli effetti. L’attaccamento all’icona, prima ancora che alla persona, determina l’ urgenza e il desiderio di una rappresentanza che manca o che è ancora troppo debole perfino nell’America post-trumpiana. Oggi guardiamo Britney Spears e in verità quello che contempliamo è un sentimento che coinvolge non solo le donne, ma anche tutte quelle identità forzate a rientrare in forme e ruoli di genere socialmente accettati.
Quando alla fine della scorsa estate è stata annunciato l’uscita di una collaborazione con Elthon John, insieme al luccichìo delle emoji incluse nella caption e ai toni entusiastici per il primo lavoro ufficialmente uscito al di fuori della conservatorship, Britney ha aggiunto una riflessione che scavalca l’immagine patinata della star che lo showbiz le ha costruito addosso. “Ho una canzone fantastica con una delle persone più incredibili del nostro tempo, e ne sono grata”, ha scritto nel post, “ma se sei un tipo strano, una persona introversa e bizzarra come me, che si sente sola la maggior parte del tempo, sappi questo: la mia vita è stata tutt’altro che facile, e tu non sei solo”.
Restano legati agli hashtag per Britney altri account che portano avanti un vero e proprio lavoro investigativo con l’obiettivo di provare una teoria come quella del deepfake, secondo cui la persona che abbiamo visto raccontarsi dopo il termine della conservatorship non sarebbe davvero Britney Spears ma qualcuno che la interpreta dietro un apposito filtro. Per non parlare degli utenti che collegano il recente scandalo della campagna Balenciaga con bambini in accessori BDSM alla CONservatorship, stilando un filo rosso che passa da Jamie Spears a Sam “Scam” Asghari per arrivare fino a Kim Kardashian e Paris Hilton. La rete li chiama i B-Anon, in relazione al gruppo cospirazionista Q-Anon. Nonostante tutto, il loro accanimento, per quanto diverso in intensità e metodologia, ha qualcosa di simile al mio e a quello di chi, come me, non riesce a non tornare sul profilo della popstar compulsivamente.
Siamo stati noi i primi a volere di più, e la macchina dello spettacolo ha risposto, come sempre fa il mercato quando la domanda sale.
Alla domanda “perché sei così ossessionata da lei?” credo di aver trovato alla fine una risposta. Si tratta della difficoltà ad ammettere che il trauma di Britney Spears non sia finito con il termine della conservatorship. Che lei non abbia nessuna intenzione di tornare alla vita di prima, fatta di tour, rinunce, orari impossibili, paparazzi e compromessi da showbuisness. Pur riconoscendo che nel 2008 la sua condizione di salute mentale non avrebbe richiesto misure così estreme di controllo, oggi ci troviamo davanti una persona spezzata e traumatizzata che, dopo tredici anni di abusi, ha realmente bisogno di supporto.
Fa paura parlare di malattia mentale, un nemico sul quale neanche i fan più fedeli o gli attivisti del movimento #freebritney possono avere il controllo. Il fatto che sia accaduto a lei, oltretutto, a partire dall’enorme successo del suo debutto, ci rende in parte complici. Siamo stati noi i primi a volere di più, e la macchina dello spettacolo ha risposto, come sempre fa il mercato quando la domanda sale. Allora si lavora più forte, più duramente per esaudire l’unico desiderio che in questo caso conta davvero: non quello della donna, della performer o della madre, ma quello dei fan. Se da un lato smettiamo di seguire il profilo Instagram di Britney Spears perché ci fa male vederla lottare ancora con il suo trauma, ecco allora che dall’altro periodicamente ci torniamo. Un solo sguardo, per accertarci di come procedono le cose. E a ogni visita speriamo sempre che migliori, che stia meglio, perché nel profondo ci sentiamo in colpa.