M aggio 2023, è un piovoso pomeriggio di primavera. L’ufficio postale di Garbatella, a Roma, è insolitamente semivuoto. La lettera che sto per spedire è per Rodney Rachal, dovrà volare dall’altra parte dell’oceano, raggiungere il Texas, varcare il cancello del carcere maschile del dipartimento di giustizia penale Stiles Unit.
Rodney Rachal è un uomo di 54 anni di Houston, è stato il primo detenuto nel braccio della morte con cui ha corrisposto Bianca Cerri, amica, scrittrice, giornalista e attivista. Bianca aveva iniziato a scriversi con lui nell’estate del 1996, dopo avere letto un annuncio su un quotidiano italiano che invitava a mettersi in contatto e corrispondere con i detenuti nel braccio della morte. Dopo quella lettera ce ne sono state altre centinaia, con condannati da ogni angolo dell’America del Nord.
Bianca è morta nell’inverno del 2022, era già malata e il Covid le è stato fatale. Qualche mese prima avevamo mangiato una pizza e durante quella insolita cena mi aveva fatto intendere che quelle centinaia di lettere, i documenti e gli appunti raccolti negli anni che conservava disordinatamente a casa, costituivano un bene prezioso, che non doveva andare perso e che anzi avrei dovuto aiutarla a archiviare e divulgare. Dopo pochi giorni dal funerale, una funzione laica e raccolta al Tempietto del Verano, Alessandro, uno dei due fratelli di Bianca, mi ha consegnato due ingombranti buste della spesa cariche di faldoni. Quei fascicoli erano pieni di missive scritte a mano, decine e decine di fogli in buste con i mittenti più disparati, provenienti da ogni carcere degli Stati Uniti: Atmore, Mansfield, Walls, Polunsky Unit, Menard… Sfogliando quelle lettere e un libro di Bianca edito per Derive Approdi nel 2002 con il titolo America letale, per mesi mi sono dedicata a ricostruire le vite di decine di uomini e donne.
Rodney Rachal è del 1970, è cresciuto nell’area più povera di Houston, nato negli anni della presidenza Nixon e diventato uomo quando alla Casa Bianca c’era Reagan. Sin da bambino la strada è la sua casa. Nell’ottobre del 1990, a venti anni, con un gruppo di amici elabora un piano: l’obiettivo è una rapina a danno di alcuni residenti di un quartiere ricco della città. Il piano è piuttosto semplice, tuttavia qualcosa non funziona, lo schema degenera, due passanti perdono la vita. Rodney sarà accusato di omicidio e rapina a mano armata. Bianca lo descrive come un ragazzo poco incline all’autocommiserazione e al rimpianto, in un suo appunto scrive che nonostante la lunga permanenza nel braccio Rodney è sempre stato in grado di mantenere un gioioso senso dell’umorismo, sforzandosi di non essere mai un peso per le persone che si occupano di lui, nonostante la malattia, l’aids, e una quasi completa cecità dovuta a un virus collaterale. Dopo anni di battaglia Bianca aveva ottenuto per lui degli occhiali speciali con cui può vedere qualcosa e muoversi in autonomia tra le mura del carcere. La sua sentenza di pena di morte è stata annullata nel 2012, la condanna commutata in quattro ergastoli.
Da Houston a Dallas, stesso anni di nascita: 1970. È il 9 agosto quando sul tavolo della cucina di un malconcio appartamento di Dallas vede la luce Emerson Rudd. Emerson cresce senza appoggi né punti di riferimento, in un ambiente caratterizzato da violenza e privazioni, prostituzione e droga. Suo padre picchia e violenta la madre quotidianamente. I suoi riferimenti ben presto diventano altri ragazzi di strada ed è con tre di loro che nel settembre del 1988 entra in un ristorante della città, Captain’s Seafood. I quattro sono armati e minacciano di sparare se non viene loro immediatamente dato tutto il denaro nelle casse. Il direttore del locale, Steve Morgan, un ragazzo di 23 anni, assicura che non ci sono grandi somme disponibili. I rapinatori fanno partire un colpo, Morgan è colpito all’addome, i quattro scappano dopo aver racimolato 800 dollari in contanti. Morgan, il giovane direttore, morirà in ospedale la mattina dopo, i rapinatori saranno rintracciati dalla polizia 48 ore dopo. Durante il processo, un avventore del ristorante riconoscerà in Rudd l’assassino di Morgan, ed è così che Emerson diventa il più giovane condannato a morte di Dallas. Sia nei suoi scritti sia durante le nostre lunghe chiacchierate Bianca ricordava sempre di come Emerson Rudd abbia fatto della conoscenza la sua identità e le abbia usate per la propria riabilitazione personale. In una cella di pochi metri, Emerson ha maturato una grande cultura, che lo ha portato a scrivere saggi politici, piccoli trattati di storia, acute osservazioni sul femminismo. Quando lo hanno giustiziato, il 15 novembre del 2001, era una persona completamente diversa da quella che aveva varcato la soglia del carcere tredici anni prima. Bianca lo considerava un figlio adottivo e di lui ha conservato molti scritti, anche quelli indirizzati alla madre.
Cara mamma,
anche questa estate qui è caldissima. Nelle celle fa quasi 50 gradi e il calore non diminuisce sino a notte inoltrata. Eppure, la mia routine giornaliera è sempre la stessa. Vedo la sagoma degli alberi allineati e in mezzo una strada tutta impolverata. Mi piace immaginare che quella sia la mia strada dai mattoni gialli, quella del Mago di Oz percorsa da Dorothy, la strada che potrò un giorno imboccare per tornare a casa. Non smetto mai di pensare a casa. Ogni altra cosa passa in secondo piano quando penso a te e alla nonna, a voi che sperate che un giorno io possa tornare. Non vi vedo da tanto tempo, la nonna non viene da più di un anno e sono passati quasi sei mesi dall’ultima volta che ti ho visto. Credo che quel lavoro faticoso che siete costrette a fare vi faccia pagare ormai un prezzo troppo alto. Neanche io riesco a stare bene. Spesso penso che il mondo è un posto strano, specialmente quando si vive all’interno di un sistema governato dal capitale in cui il mondo, oltre che strano, è ingiusto. Specialmente con tutti noi, quelli della nuova generazione. Ogni giorno vedo un gruppo di giovani fratelli in cortile. Alcuni li vedo leggere, altri fanno ginnastica, parecchi giocano a baseball, con i corpi sudati che brillano al sole. Mi sembrano il riflesso della mia immagine, attraverso loro rivedo me stesso, mi rivedo a 18, 19, 20 anni: giovane, nero, ribelle! Non faccio che chiedermi se giocano a baseball, fanno ginnastica o leggono per sfuggire alla realtà, per non sentire il dolore e la paura dell’incertezza. Come loro, una volta non avrei mai ammesso di avere paura. Mi dicevo che ammettere di aver paura era cosa da deboli, una cosa quasi indegna di un essere umano. Oggi è diverso: scopro spesso di aver paura, di essere spaventato e anche terrorizzato. Non tanto per me ma per i fratelli della generazione che verrà.
Per un giovane nero è una cosa quasi impossibile spiegare cosa vuol dire essere nati in un mondo in cui le possibilità sono limitate a causa del colore della pelle o dello status sociale. Non ho avuto una figura forte che mi ha fatto da guida, come non ce l’hanno molti fratelli più giovani e credo che questo faccia rimanere molti in una specie di stato di sottosviluppo, una specie di congelamento che poi porterà alcuni a sbagliare gravemente. È impossibile per un bambino nero passare senza traumi dall’infanzia all’adolescenza e dall’adolescenza alla maturità senza un ruolo maschile positivo. L’idea che ci facciamo della nostra virilità è spesso basata su falsi concetti, proprio perché maturiamo in una specie di congelamento provvisorio. Inconsciamente, ogni tentativo di maturazione è pregiudicato da questo. È veramente un grave danno avere un concetto di mascolinità pregiudicato da concezioni errate. Molti di noi hanno maturato tutto quello che sanno vivendo per strada. Ritengo che molti neri della nuova generazione finiranno inevitabilmente in prigione. Come me, si troveranno a vivere tra sbarre d’acciaio e cemento armato. Ormai, tutto il mondo per me è al di là di queste sbarre. Un futuro? …è veramente triste ma, tra 20, 30 anni, vedo un’altra giovane vita, un altro fratello nelle mie stesse condizioni. Forse sarà addirittura più giovane di quanto ero io quando arriverà anche lui nel braccio della morte, forse lo metteranno in questa stessa cella. E starà qui, al buio e cercherà di capire. Cercherà di trovare un perché. Come me, guarderà fuori da questa stessa finestra, sbircerà tra le sbarre, anche lui alzandosi in punta di piedi – e vedrà la stessa strada polverosa, la stessa fila di alberi…
Mamma, è ora che qualcuno faccia cambiare le cose!
Ti abbraccio forte.
In lotta,
Emerson – braccio della morte – Texas – 15 luglio 1998.
Mentre i faldoni riposavano sugli scaffali della mia soffitta, mi domandavo come potevo fare uscire dalla carta queste lettere, come dare voce a questi uomini e queste donne che per la maggior parte era ormai morta, uccisa nelle stanze del braccio. Così ho deciso di chiedere a chi un’esperienza di detenzione la sta vivendo oggi. Nell’autunno del 2023, ogni mercoledì, all’alba, io e Ludovica Andò, regista teatrale che lavora all’interno degli istituti penitenziari, abbiamo preso un treno per raggiungere il carcere di Orvieto. Qui un gruppo di detenuti – per cui provo una genuina e profonda gratitudine per la generosità, l’impegno e la serietà – per settimane ha letto, studiato, interpretato e registrato alcune delle lettere che Bianca ha ricevuto nel corso della sua vita, missive scritte dal braccio della morte degli istituti penitenziari più disparati. Le parole di Emerson Rudd sono state interpretate da Rachid, un talentoso studente di scienze delle comunicazioni. Le lettere di Muenda, uno dei più prolifici amici di penna di Bianca, sono state studiate da Gianluca, un ragazzo giovane, entusiasta, brillante, tenace, un grande lettore e un navigato viaggiatore, capace di parlare perfettamente quattro lingue. Ha scelto lui questa lettera, perché, ha detto, spiega perfettamente quello che accade anche all’interno delle carceri italiane.
La domanda che mi rivolgono spesso, o almeno quella che
mi sono sentito rivolgere un numero infinito di volte sino a oggi, è: “Ma come si vive nel braccio della morte?”.
Non so bene cosa rispondere. Credo che non esistano neanche le parole sufficienti per interpretare il vastissimo spettro di emozioni che esistono qui. Ecco, direi che vivere nel braccio della morte è prima di tutto un’esperienza emotiva. E non so se spetti a me dire che cos’è il braccio della morte. Un compagno di prigionia mi ha detto: ”Tu sei un nero e i neri non li sta a sentire mai nessuno”.
Fra l’altro, so benissimo che l’opinione pubblica non ha nessuna simpatia per i prigionieri del braccio della morte. Questo è il mio primo dilemma emotivo. Devo costringermi a mettere una maschera d’indifferenza mentre dentro di me sento risuonare mille emozioni che si alzano e si abbassano come in una marea incessante.
Sono in una bolla di sapone che copre le emozioni, che annulla le illusioni. Il braccio della morte ti costringe a tagliare di netto con il mondo. A volte mi capita di temere di rivedere le persone che hanno fatto parte del mio mondo di prima ma, allo stesso tempo, desidero vederli ardentemente.
Per motivi di sicurezza c’è un vetro divisorio rinforzato tra noi e chi amiamo. Mi è venuto in mente di chiedere a parecchi altri prigionieri se anche loro provano la mia stessa rabbia e frustrazione nel non poter abbracciare le persone che amano. Molti hanno detto che per loro è la stessa cosa. Fra quelli che si trovano qui da lungo tempo è subentrata l’abitudine. Per qualcuno le questioni giuridiche sono le uniche che contano, la vicinanza umana è un lusso che non li interessa. Solo pochi hanno espresso la loro rabbia.
A me manca molto il contatto con l’altro sesso. Non solo dal lato sessuale, ma anche nel senso dell’intimità. Mi sono sforzato di recidere i miei nervi emotivi, altrimenti non avrei resistito. Oltretutto, qui non è consentito mostrare debolezze. Chi si fa scoprire debole perde ogni credibilità. Quello che bisogna fare è soffocare il proprio io interiore e, al tempo stesso, crearsi un’immagine esterna senza cedimenti. Bisogna rimanere freddi e distanti per sopravvivere qui. Solo che non è semplice. Chi tradisce le proprie emozioni, chi non sopporta la pressione viene deriso, ma non si può sempre negare tutto quello che si prova. Un debole qui non ha altra scelta che rintanarsi in un angolo e non uscirne mai più. Sarebbe veramente utopico pensare di trovare qui una spalla su cui piangere. Allora, non c’è altra scelta che rassegnarsi al dolore, alla frustrazione, anche se spesso questo porta a scelte drammatiche.
Tutti i giorni vedo gente che combatte per cose stupide, come una scommessa da pochi centesimi. Eppure, quella è solo una scusa: la rabbia viene da livelli molto più profondi. È una rabbia che proviene dalle emozioni negate dentro. Del resto, qui entrano solo i derelitti, che vengono da ambienti in cui non esiste la sensibilità, e spesso è proprio questo il motivo per cui si finisce dentro: un’esistenza marginale, una povertà estrema, una famiglia disagiata, un problema mentale. È stato provato che chi arriva al crimine non ha mai conosciuto la normalità, l’affetto, il benessere, almeno per la maggior parte.
Qui la pazzia si fa vedere ovunque: in alcune celle ci sono uomini che non fanno che dormire, annegando nel sonno la loro frustrazione. Giù in fondo c’è un uomo che fa finta di essere ubriaco perché soltanto così riesce a far finta di sopportare questo ambiente. Altri non hanno mai detto neanche una parola da quando sono arrivato qui. E c’è il tizio che invece sente musica tutto il giorno e si mette a ballare da solo. La musica è un’ancora di salvezza per lui. La musica è la sola amica che ha. Altri camminano barcollando, come mummie. E per ultimi ci sono quelli che si svegliano una notte e scoprono che l’unico modo di far tacere il dolore che provano è attaccarsi a una striscia di stoffa e lasciarsi cadere. A volte sento il desiderio di mettermi a scrivere poesie, cerco disperatamente un modo di esprimere le mie sensazioni. È che non riesco a dare forma ai miei pensieri. Non credo sia possibile far capire che cosa è il braccio della morte. Giro intorno alle parole ma non ci riesco. L’unica persona alla quale ho saputo dire tutto è mia madre, perché con lei le parole non servono. Lei vive in me.
Muenda – Braccio della morte -Texas – Inverno l997.
Passavano settimane e le lettere ricevute da Bianca prendevano nuova vita. Le interpretazioni dei detenuti con cui abbiamo lavorato sono confluite in un audio documentario in quattro puntate, realizzato anche grazie agli interventi del professore di diritto pubblico Davide Galliani e dell’attivista Maria Grazia Guaschino. Guaschino e Galliani mi hanno aiutato a comprendere il meccanismo processuale che porta a una condanna a morte e soprattutto a capire che la pena capitale è la più politica delle pene, perché sul suo consenso si giocano molte partite elettorali. Guidata dagli appunti e dalla corrispondenza di Bianca, ho conosciuto gli exonered, persone finite nel braccio della morte per errori giudiziari che grazie al lavoro di avvocati volenterosi o caparbi studenti di legge sono riusciti a far valere le proprie ragioni e a uscire dal braccio; ho mappato il percorso dalla cella alla stanze dove avvengono le esecuzioni, ho incontrato storie di donne finite nel braccio, soprattutto ho attraversato vite di uomini e donne in carne e ossa, biografie che si dipanavano grazie ai racconti all’interno delle lettere e alle ricostruzioni di Bianca. Quando l’audio documentario si è concluso – grazie all’agenzia giornalistica Next New Media che ha sostenuto il progetto e a Matteo Portelli che lo ha musicato – il risultato era un lavoro radiofonico di quasi due ore, che abbiamo intitolato Cara Bianca.
Siamo poi tornate in carcere per riascoltare alcuni stralci di Cara Bianca insieme ai suoi protagonisti. Quel giorno Massimiliano si è presentato con alcuni dei suoi compagni di cella. Non avevano partecipato al laboratorio ma le lettere in quei mesi le avevano lette: il rotolino di fogli stampati con alcune delle missive ricevute da Bianca aveva fatto il giro della casa di reclusione. “Ci ha dato speranza” ha detto qualcuno “a noi che abbiamo due o tre anni da scontare”. Massimiliano aveva studiato a lungo la lettera di Michael Taylor, un dettagliato testo descrittivo su come avvengono le esecuzioni.
Mi chiamo Michael Taylor e sono nel braccio della morte
dell’Alabama. Quando mi hanno arrestato dovevo ancora compiere 19 anni. Sono stato condannato a morte dopo un processo durato tre giorni in tutto. In comune con gli altri uomini presenti qui, ho un futuro che si preannuncia molto buio. Sono ben otto anni che mi trovo qui, come ho detto, e, secondo le statistiche, tra un anno potrei essere giustiziato.
Dal momento della condanna a morte sino a quando si viene trasferiti nel braccio, ci si sente la mente annebbiata dall’incertezza. Poi, arriva il giorno in cui ti vengono a prendere per trasferirti e ti trovi a passare su strade che hai percorso tante volte e che, improvvisamente, ti appaiono diverse. Due chilometri prima dell’arrivo, si vedono già dei detenuti che lavorano nei campi e raccolgono immondizie. Poi si viene portati dentro, attraverso uno stretto corridoio. Le entrate sono controllate da dispositivi elettronici simili a quelli delle banche. So che alcuni pensavano, arrivando qui, che li avrebbero giustiziati la sera stessa del loro arrivo.
La mia prima notte qui è stata un incubo, solo perché il posto era completamente nuovo. Ho pensato alla mia famiglia, agli amici e a quanto tutti loro fossero lontani. Sono entrato qui che ero ancora un ragazzo ma oggi sono cresciuto. Eppure, provo sempre un forte senso di angoscia, perché so che i miei giorni sono contati e devo affrontare questa sensazione. È una sensazione difficile da dominare. Fortunatamente, la mia mente è ancora intatta e il mio desiderio di vivere non è mai stato tanto forte.
Dicono che ultimamente molti cittadini americani non vogliano più la pena di morte, ma non so se sia vero. L’Alabama è famoso per essere uno Stato povero, dove gli investimenti riservati all’istruzione, alle riforme sociali e alla tecnologia sono ben al di sotto della media del resto del paese. Il braccio della morte rispecchia la situazione dello Stato.
Ogni uomo condannato a morte passa 23 ore della sua giornata in una cella di pochi metri. Negli ultimi due anni, due uomini sono morti per carenza di cure mediche. Il cibo è orrendo. Ogni giorno ci passano polpette di soia, riso e patate. Lo Stato spende circa 65 centesimi al giorno per la dieta di un condannato a morte. L’attesa della morte, dicono le statistiche, dura mediamente nove anni e l’Alabama rientra in questa media.
Ogni giorno aumenta il numero di coloro che preferiscono morire anziché tentare di resistere qui dentro. Almeno, lo Stato risparmia. Ormai ho perso il conto di tutti gli uomini che ho visto suicidarsi qui. Uno si è tagliato i polsi ed è morto dissanguato. Uno si è impiccato alle sbarre con un pezzo di lenzuolo. Un altro si è strangolato con un cavo elettrico. Io continuo a vivere anche se ci torturano ogni giorno. Il fatto che sia rinchiuso nel braccio della morte ha tolto ogni speranza e ogni voglia di vivere ai miei genitori.
Qui ci sono 183 uomini, ma 33 di loro non hanno neanche un avvocato. Per loro, questo posto è un vero inferno sulla terra. Il 99% dei condannati a morte in Alabama viene dalle classi più povere. La composizione razziale è al 50% nera. Tuttavia, anche se sono un bianco, riconosco che un nero riceve la condanna a morte con maggiore facilità. È assolutamente vero che il colore della pelle gioca un ruolo enorme quando una giuria deve decidere cosa fare della vita di un imputato. Il fantasma della schiavitù e del razzismo è ancora una grande minaccia.
La cosa più brutta che può succederti è veder morire un amico. E pensare che un giorno sarai tu a percorrere la distanza che in quel momento separa lui dalla morte.
Una settimana prima di morire, si ha l’obbligo di trasferirsi nella cella della morte, da dove si assiste alle prove dell’esecuzione: si vede persino il corridoio invaso dalle scintille provenienti dalla sedia sulla quale si dovrà morire. Il giorno dell’esecuzione, si può ricevere un pasto diverso che consente finalmente alimenti che non sono quelli che ti hanno servito per anni. Le esecuzioni, qui, avvengono a mezzanotte in punto. Alle 23, ti concedono un colloquio con un consigliere spirituale. Giunta mezzanotte, si viene portati alla sedia. Prima di farti sedere, ti chiedono se hai un’ultima dichiarazione da fare. Un attimo prima che liberino le scariche, il direttore legge al condannato a morte il certificato di morte. È un banale pezzo di carta che dice, in pratica, che è condannato e che i testimoni sono lì per assistere alla sua morte. Al condannato viene messa una maschera. Nel frattempo, gli altri detenuti battono delle tazze di plastica contro le inferriate per protestare per l’esecuzione. Spesso, coprono la voce della guardia che dà il via all’esecuzione. Partono le scariche: le prime devono bruciare il cervello.
Quando l’esecuzione è finita, arriva l’infermiera per sentire se il polso non batte più. Il giorno dopo viene fatta l’autopsia. Quando il medico compila il certificato di morte, alla voce “causa del decesso” scrive “omicidio”. Spero di non fare quella fine. Per me ogni nuovo giorno è un viaggio. Voglio vivere… amo la vita.
Michael Taylor, braccio della morte – carcere di Atmore – Alabama 26 maggio 2002.
Abbiamo avuto la possibilità di presentare Cara Bianca in diversi contesti. A giugno del 2024 ci ha ospitati la Casa della Memoria e della Storia di Trastevere, a Roma, sede del Circolo Gianni Bosio. L’archivio conserva una meravigliosa intervista realizzata da Alessandro Portelli a un investigatore privato di San Francisco, Joe Barthel. Su ingaggio di avvocati della difesa, Barthel da anni ricostruisce le storie di vita dei detenuti nel braccio della morte grazie a certosine ricerche. In questo lunghissimo e appassionato colloquio racconta: “è bello che i giurati possano sentire le storie degli imputati in modo da pensare criticamente a ciò che condiziona i comportamenti e che questa comprensione possa aiutarli a controllare la propria ira e a pensare più generosamente alle proprie comunità. I racconti ci possono aiutare anche a salvare e riformare quelle comunità, se ne riconosciamo il significato” e conclude “il racconto crea un senso di condivisione, la condivisone genera un senso di storia comune, e un senso di storia comune – sia pure una storia contestata – crea la possibilità di una comunità”.
La prefazione di America Letale di Bianca Cerri è stata affidata a Claudia K. White, attivista e amica di Bianca. Claudia con grande sincerità e umiltà confessa che anche lei, prima di fare della lotta per i diritti dei detenuti una personale battaglia, nella sua vita ha avuto un momento in cui ha avvertito la sensazione che “giustizia fosse stata fatta”: il giorno dell’esecuzione di un uomo che torturava le sue vittime, tutte giovanissime, prima di ucciderle. “Attribuisco quella momentanea debolezza alla mia ignoranza di allora” scrive, ignoranza colmata con anni di lavoro, attivismo e ricerca, che le sono costati anche aggressioni violente: picchiata a sangue da una squadraccia per le sue lotte contro un sistema che, diceva sempre, favorisce unicamente chi è abbiente.
“È decisamente sconcertante” scrive Claudia nelle prime righe della prefazione “che larga parte dell’opinione pubblica non prenda mai in considerazione un’alternativa per la lotta alla criminalità, nonostante sia ormai stato dimostrato che uccidere in nome della legge non ha alcun potere deterrente” tanto che, aggiunge Claudia, un boia che per tanti anni ha accompagnato i condannati alla sedia elettrica de carcere di San Quentin racconta spesso che nessuno dei 150 individui che lui ha allacciato alla sedia aveva pensato all’eventualità di essere condannato a morte mentre commetteva il crimine che gli sarebbe costato la vita. Secondo Claudia, secondo Bianca, secondo Joe Barthel, l’unico modo per smuovere l’opinione pubblica è riuscire a fare sentire la viva voce dei condannati a morte.
Oggi le lettere originali si trovano all’Archivio dei Diari di Pieve Santo Stefano, che si sta occupando di digitalizzarle e renderle pubbliche. Le immagine sono realizzate dall’Archivio stesso.
Le quattro puntate di Cara Bianca si trovano sul sito di Next New Media e su tutte le principali piattaforme di podcasting.