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ell’introduzione del saggio Il braccio armato del potere. Storie e idee per conoscere la polizia italiana (2024) Michele Di Giorgio scrive: “Ho adottato un approccio sempre critico, senza avere un’impostazione ‘contro’”. “Pur essendo costruito con un approccio che mette costantemente in discussione le ricerche più allineate e le narrazioni istituzionali, questo è il lavoro di un ricercatore, è un libro di storia della polizia – mi racconta l’autore –. Non avevo alcun interesse a scrivere un opuscolo di denuncia o un ‘libro nero’, non fa parte del mio modo di lavorare, mi interessava costruire un lavoro che aiutasse a comprendere la storia della polizia”. Il volume è sostenuto da ampi riferimenti agli studi esistenti e alle ricerche più aggiornate, non soltanto di storia, ma anche di sociologia e criminologia ed è frutto di lunghi periodi di ricerca sulle fonti primarie d’archivio, a stampa e orali.
Quale spazio intende occupare questo libro?
In una
sua pubblicazione recente, Giuseppe Campesi ha evidenziato come in Italia sia mancata, tra gli studiosi delle polizie, la forza e la volontà di veicolare a un pubblico più vasto le conoscenze acquisite nella ricerca. Il mio lavoro cerca di dare una prima risposta anche a questa esigenza divulgativa.
Su quali studi si basa questo libro di divulgazione?
Ho iniziato a studiare la storia della Pubblica sicurezza, il corpo da cui è nata la Polizia di Stato, già nel corso della mia formazione universitaria. È in quel periodo che mi sono appassionato alla
storia del movimento democratico per la smilitarizzazione e del sindacato della polizia negli anni Settanta e successivamente, dopo aver vinto una borsa di dottorato all’Università Ca’ Foscari Venezia, mi sono dedicato a tempo pieno a quel tema per alcuni anni. Ho poi seguito e sviluppato l’interesse per le polizie durante vari incarichi di ricerca, approfondendo le vicende della polizia nella storia unitaria d’Italia dall’Ottocento fino alla riforma, aprendomi anche a un approccio di lavoro più interdisciplinare, poiché sulle polizie possiamo imparare molto dal lavoro fatto dai sociologi e dai criminologi.
I miei studi si sono concentrati innanzitutto sulla stampa professionale riservata alla polizia. L’accesso alla documentazione archivistica non è sempre facile e per questo motivo riviste e giornali mi hanno molto aiutato a comprendere la polizia. Si tratta di fonti interessantissime, che sin dalla seconda metà dell’Ottocento raccontano la vita e le visioni dell’istituzione, la mentalità, le culture, le trasformazioni, ma anche i problemi e le difficoltà di chi sceglieva il mestiere di poliziotto. Su questi argomenti è stato fondamentale, naturalmente, anche un lungo e profondo lavoro di scavo e analisi archivistica, che ho svolto principalmente sui materiali che sono in parte disponibili presso l’Archivio centrale dello Stato, che è stato basilare per comprendere i funzionamenti di molti meccanismi istituzionali. Alle ricerche su queste fonti specifiche ho sempre affiancato sguardi diversi sulle polizie, meno istituzionali, come quelli provenienti dalla stampa periodica o dalla pubblicistica coeva, che mi hanno aiutato molto spesso ad avere una visione più articolata delle questioni e a poter collocare meglio la storia della polizia in quella della società italiana. Oltre a queste e ad altre ricerche documentali, c’è naturalmente un vasto lavoro di lettura bibliografica e di confronto con altri esperti della materia. Negli anni ho avuto la fortuna di potermi confrontare con colleghe e colleghi che, a vari livelli e partendo da discipline diverse, si occupano o si sono occupati di polizia.
Nelle modalità di comunicazione delle polizie spesso ci si trova di fronte a celebrazioni acritiche, istituzionalizzate, come scrivi, o a narrative di finzione che restituiscono una immagine se non altro parziale.
Queste sono forme di rappresentazione molto forti. Da un lato ci sono le istituzioni, che curano e difendono la loro immagine con tutti gli strumenti che la modernità consente: comunicazione, social media, spot, prodotti televisivi, spazi museali, pubblicazioni. Nell’armamentario propagandistico istituzionale possiamo includere anche gran parte del giornalismo mainstream, che attinge alle fonti ufficiali senza nessun approccio critico. Dall’altro ci sono prodotti di finzione indipendenti (o presunti tali), che sono altrettanto fuorvianti e in parte riflettono e distorcono culture e visioni istituzionali.
Si tratta di visioni, immaginari e racconti che ci allontanano dalle vicende delle polizie. Dinanzi a fenomeni complessi e stratificati come quelli delle istituzioni poliziesche, si propongono al contrario chiavi di lettura comode, semplificate e spesso fuorvianti. A farne le spese come sempre è lo spirito critico, la capacità di farsi un’idea articolata del problema.
I fatti di Genova del G8 del 2001 come hanno inciso sulla narrazione delle polizie?
Le violenze di quei giorni hanno sicuramente segnato con forza l’immagine e la percezione che una parte degli italiani ha della polizia. Non poteva essere altrimenti vista l’enorme esposizione mediatica che ebbero quelle giornate, senza contare il fatto che migliaia di persone subirono la violenza delle forze dell’ordine o furono testimoni di abusi. Si tratta di qualcosa che ha segnato nel profondo anche l’opinione pubblica internazionale, e non certo per la condanna della Corte Europea dei diritti dell’uomo (arrivata quattordici anni dopo), ma per il clamore immediato suscitato da fatti avvenuti davanti alla stampa di mezzo mondo e per i racconti di tanti ragazzi e ragazze stranieri che subirono abusi.
Il ricordo di quelle giornate sembra essersi diffuso anche nella memoria delle generazioni più giovani, che di quegli episodi non hanno una memoria diretta. Sull’altro fronte i processi e le successive condanne di agenti hanno lasciato qualche segno anche nelle istituzioni, ma resta ancora da capire se e quanto ci sia stato un dibattito interno su quelle vicende. Sul piano della comunicazione istituzionale, la Polizia di Stato ha tentato di archiviare in maniera piuttosto frettolosa quella pagina, pur riconoscendo “degli errori”. Da parte degli altri corpi coinvolti invece il silenzio è stato quasi totale.
Il sistema poliziesco italiano è composto da una pluralità di corpi. Il comparto sicurezza è formato da diversi corpi, militari e civili, dipendenti da ministeri differenti, con funzioni diverse ma anche in parte sovrapposte, che cooperano nella gestione dell’ordine pubblico. Il tema, o problema, del coordinamento delle forze è antico, come ricorre nel saggio. Che cosa rappresenta ancora oggi?
Sul fronte del coordinamento alcuni dei problemi che esistevano in passato appaiono oggi superati, almeno in parte. Permane ancora una frammentazione del comparto e con essa una concorrenza tra i corpi, soprattutto a livello dirigenziale e di comando, ma ci sono in parallelo potenti organismi di collegamento che in passato non c’erano. Oltre a ciò, tutte le polizie hanno fatto negli ultimi trent’anni un colossale sforzo informatico, tecnologico e logistico che ha giovato anche sul piano del coordinamento. Per capire a quali strutture mi riferisco, basta pensare ai grossi “uffici” interforze che coordinano l’attività delle tre principali polizie, specialmente su problemi specifici e importanti. Si pensi alla Direzione investigativa antimafia, oppure alla Direzione centrale per i servizi antidroga.
Qual è l’ambito più critico?
Se si osserva la storia del comparto negli ultimi trent’anni, si ha l’impressione che ciascun corpo tenda comunque a replicare le funzioni degli altri e a moltiplicare competenze e articolazioni. Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di finanza esprimono comunque poteri, tradizioni, interessi e ambizioni solo in parte convergenti; sarebbe compito della classe politica mettere ordine in questa partita e razionalizzare il comparto, poiché davanti ai numeri imponenti degli organici è difficile dire che il sistema non abbia bisogno di essere riformato.
Il giudice Rocco Chinnici nel giorno del funerale del magistrato Ciaccio Montalto, assassinato dalla mafia, espresse al presidente della Repubblica la drammatica urgenza e il ritardo nella istituzione della banca dati nazionale sulla criminalità organizzata. Sappiamo quanto sia decisivo il flusso delle informazioni. Qual è lo stato dell’arte oggi tra le forze di polizia?
Da quel momento sono passati più di quarant’anni e molti progressi sono stati fatti. Esistono, per le forme criminali specifiche e più urgenti (è il caso ad esempio di criminalità organizzata e traffico di droga) degli organismi interforze in cui convivono appartenenti di tutte e quattro le polizie, insieme con personale civile del ministero dell’Interno; nel caso specifico della criminalità organizzata esiste dal 1991 la DIA (Direzione Investigativa Antimafia). Accanto alla creazione di questi uffici centrali, lo sforzo compiuto dalle istituzioni sul piano tecnologico e informatico ha giovato enormemente alla circolazione delle informazioni. Rispetto al passato le polizie dispongono di mezzi di indagine e basi informative di dimensioni poderose, interrogabili in maniera rapida ed efficace. Tutto sommato, su questioni gravi e importanti come l’antimafia sembra esserci tra le istituzioni un discreto livello di comunicazione.
Che cosa intende per “pervasività” dell’apparato poliziesco?
È un fenomeno che osservatori e studiosi hanno sottolineato spesso, una deformazione di lungo periodo delle polizie italiane. Si tratta di un modo sintetico per descrivere la tendenza degli apparati a diffondersi e a scivolare, con la loro attività, in molti campi della vita civile che non attengono strettamente al lavoro di polizia. Storicamente se guardiamo alla vasta quantità di mansioni amministrative delle polizie gli esempi abbondano: si pensi soltanto ai passaporti o ai permessi di soggiorno che ancora oggi sono in gran parte di competenza delle questure. Più in generale, se vogliamo fare un esempio meno tecnico che guardi alla contemporaneità, questa pervasività si esprime nella gestione esclusivamente poliziesca di quelli che sono di fatto problemi sociali, che attengono alla carenza di welfare e all’assenza di risposte pubbliche adeguate nei confronti delle categorie più deboli.
Molte delle questioni affrontate nel saggio riconducono al rapporto tra potere politico e polizia. Scrive che in Italia le forze dell’ordine hanno avuto da sempre un legame molto stretto con la politica. Come si è evoluto questo rapporto e c’è stato un momento di cesura? Lei colloca questa fase in coincidenza della fine della Prima Repubblica.
Un parziale cambiamento ci fu già qualche anno prima della riforma del 1981, in parte perché la situazione politica del Paese iniziava a mutare: il movimento democratico nato all’interno della polizia era riuscito a portare con forza nel dibattito pubblico l’idea di una possibile democratizzazione della polizia. Un’ulteriore discontinuità avvenne in effetti con la fine della Prima Repubblica e nel corso di tutti gli anni Novanta, ma si tratta di una fase ambivalente e ancora piuttosto nebulosa dati i pochi studi sul periodo. Non possiamo pertanto dare una definizione del tutto chiara di come si siano trasformati i rapporti tra i governi e le polizie, anche se il legame resta sempre forte. Alcuni osservatori e studiosi hanno notato una certa capacità, da parte dei vertici di istituzioni e corpi, d’influenzare i ministri di turno riguardo alle politiche di sicurezza e alla gestione del comparto polizie. Condivido in pieno questa visione, anche se sono convinto che ciò sia dipeso più da una sostanziale insipienza delle gestioni politiche del ministero dell’Interno che non dall’attivismo di un presunto “partito della polizia”.
“Nella riorganizzazione postbellica della polizia prevalse in sostanza una visione di parte, fortemente conservatrice, e rientrarono in tutti i livelli dell’istituzione uomini compromessi con il fascismo”. Si trattò di una restaurazione?
Ci sono ormai decine di studi importanti che illuminano la continuità e il passaggio di uomini tra fascismo e Repubblica e non soltanto per quanto riguarda le polizie. Innanzitutto è un fatto che la polizia non subì alcuna riforma dopo la caduta del fascismo, se non – in negativo – una militarizzazione emergenziale, che poi divenne permanente. L’unico segno di progresso e di cambiamento al termine del conflitto fu l’immissione nella polizia di un grosso contingente di uomini provenienti dalle file della Resistenza. Migliaia di ex partigiani che a partire dal 1947, dopo l’avvento del ministro democristiano
Mario Scelba, furono in gran parte cacciati dal corpo, con le buone o con le cattive.
Ne conseguì che dal punto di vista democratico la polizia rimase, come nel passato, uno strumento del partito di maggioranza e la militarizzazione risultò congeniale al suo utilizzo in funzione anticomunista. Questa modalità d’impiego incise molto anche sulla preparazione professionale del personale. D’altro canto, la disciplina militare, l’obbligo al celibato e alla vita di caserma peggiorarono molto le condizioni di vita degli agenti, che per legge furono anche privati di molti diritti civili, tra cui la possibilità di appartenere a un partito politico o a un sindacato. Da un punto di vista democratico, un utilizzo così parziale delle polizie alterò profondamente il loro rapporto con una porzione significativa di cittadini, che mantenne per le istituzioni la stessa diffidenza (e talvolta ostilità) che aveva nutrito durante la dittatura fascista.
La militarizzazione ebbe storicamente un impatto piuttosto pesante anche sulla formazione del personale di polizia. Che cosa è cambiato nei decenni soprattutto con la riforma della Pubblica sicurezza del 1981 e la successiva nascita della Polizia di Stato?
La riforma del 1981 consentì la smilitarizzazione completa e la creazione di una nuova istituzione civile, la Polizia di Stato, in cui fu garantito alle donne un accesso almeno formalmente paritario. Si trattò di una novità significativa, visto che fino a quel momento il comparto polizie italiano era stato interamente militare, un caso unico tra i Paesi democratici dell’Europa occidentale.
Quali furono gli effetti della smilitarizzazione del corpo e la creazione di una nuova istituzione interamente civile?
Per il personale ci furono benefici quasi immediati e sul piano professionale il sistema del reclutamento, delle scuole e della formazione subì una lenta ma profonda trasformazione, che portò a miglioramenti notevoli nella preparazione dei nuovi agenti.
All’inizio degli anni Settanta nella Pubblica sicurezza si formò un movimento democratico che nel giro di pochi anni giunse a coinvolgere migliaia di poliziotti. Quali furono la natura, gli scopi e i progressi del movimento democratico che si sviluppò?
Il movimento per la smilitarizzazione, la riforma e il sindacato della Pubblica sicurezza nacque in forma clandestina all’inizio degli anni Settanta. Sorse dal basso, nella base del corpo, tra le guardie e i sottufficiali, e nel corso degli anni raggiunse una dimensione importante, soprattutto grazie al supporto della rivista Ordine pubblico e del suo direttore, Franco Fedeli, un giornalista e fotografo con un passato da partigiano. Al termine della fase clandestina, a partire dalla fine del 1974, i poliziotti scelsero di portare allo scoperto il movimento e condurre la battaglia apertamente, approfittando del grande supporto offerto dalla Federazione sindacale unitaria (CGIL, CISL, UIL) e da alcuni partiti.
Che cosa chiedevano i poliziotti democratici?
La smilitarizzazione della polizia, una sua riforma profonda, la possibilità di appartenere a un sindacato e di partecipare in pieno alla vita politica e democratica del paese. Dopo un periodo intenso di battaglie con la parte più conservatrice dell’istituzione, non privo di lunghi periodi di stasi e repressione, il movimento riuscì a portare il corpo alla riforma, alla smilitarizzazione e a una parziale sindacalizzazione.
Quali sono stati gli ostacoli nella crescita del sindacalismo nelle forze di polizia?
Il sindacalismo di polizia nacque già segnato dal divieto, stabilito dalla legge di riforma del 1981, di legarsi direttamente alle grandi centrali sindacali che avevano supportato gli agenti del movimento democratico. Si volle creare una separazione sindacale, impedendo agli agenti di entrare e appartenere direttamente alle organizzazioni degli altri lavoratori, per limitare in qualche modo i fattori di crescita dal punto di vista politico e democratico. In parte questo divieto venne aggirato creando collegamenti più o meno forti con CGIL, CISL e UIL, ma nel lungo periodo hanno poi prevalso le tendenze autonome.
A distanza di quarant’anni dalla riforma come appare il settore dei sindacati di polizia?
È occupato da una costellazione di sindacati in gran parte autonomi, quasi del tutto privi dello spirito e della carica che aveva contraddistinto l’avvio del processo di sindacalizzazione della polizia. Se invece guardiamo ai Carabinieri e alla Guardia di finanza, non è possibile nemmeno parlare di sindacati, data la natura associazionistica che hanno le sigle nate negli ultimi anni. Difatti per i sindacati delle polizie militari e delle forze armate si è scelta, di recente, una strada normativa ancora più chiusa e restrittiva. La separazione dai sindacati degli altri lavoratori è totale.
Oggi non appare limitante, davanti anche ai diversi livelli di professionalità, una lettura univoca e stereotipata della composizione della Pubblica sicurezza ancora diffusa? Insomma non è più solo il figlio del povero a presentare la domanda d’ingresso in polizia.
Pur essendo notevolmente aumentata l’attrattiva sociale dei corpi di polizia, rimane vero che i bacini di reclutamento sembrano sempre i soliti. Non parliamo di poveri, ma l’impressione – i dati sul presente sono pochi – è comunque che nei corpi finisca in netta prevalenza, almeno nella base, una grossa quantità di persone che non ha avuto possibilità di accesso a studi superiori e, in generale, a possibilità lavorative migliori. Non si spiegherebbe altrimenti la netta prevalenza, in tutti i corpi, di uomini e donne di provenienza meridionale. Nel volume ho citato le statistiche attuali dell’esercito, che sono pubbliche e offrono un buon metro di paragone: oltre il 70% dei militari di quella forza armata proviene dal Sud e dalle isole.
La polizia femminile fu concepita come un corpo civile separato, con un organico di poco più di 500 donne, distinto sia dal ruolo dei funzionari che dalla componente militare della polizia, rappresentata dal Corpo delle guardie di Pubblica sicurezza. Dopo la riforma e la creazione della Polizia di Stato, le donne sono state realmente inserite all’interno dell’istituzione con le stesse possibilità di accesso e di carriera degli uomini?
Purtroppo a questa domanda dobbiamo ancora oggi rispondere con un netto no. Pur essendo passati quarant’anni dalla riforma, le ricerche recenti sulla presenza femminile nelle polizie – nel volume cito uno studio delle criminologhe Rossella Selmini e Giulia Fabini – ci forniscono ancora una volta percentuali piuttosto basse e nettamente al di sotto dei numeri che si registrano in molti Paesi dell’Unione Europea. La Polizia di Stato è il corpo che presenta il tasso più alto di presenza femminile, in ragione dei molti anni trascorsi dalla riforma, ma si tratta ancora di una percentuale molto bassa. Carabinieri e Guardia di finanza hanno iniziato a fare entrare le donne nei corpi a partire dal 2000 e le percentuali sono tuttora irrisorie.
Lei ricorda giustamente l’altissimo prezzo di sangue pagato dalle migliori forze di polizia nel contrasto alle mafie. Penso a figure come Ninni Cassarà, assassinato a colpi di kalashnikov sulle scale di casa, che con la sua azione investigativa contribuì in modo decisivo alle condanne del maxiprocesso di Palermo. Come ha cambiato quella stagione la percezione generale delle forze di polizia nel Paese?
Si tratta di questioni che andrebbero indagate più a fondo, ma l’impressione è che nel corso degli anni Novanta, proprio grazie alle battaglie antimafia e al sacrificio personale di molti agenti, si fosse creato un certo consenso intorno alla polizia. Da studioso posso solo aggiungere che anche quella stagione andrebbe osservata e studiata in maniera critica, con un atteggiamento possibilmente privo di intenti celebrativi.
Nei casi di abusi e violenze da parte delle forze dell’ordine, quanto ancora il senso d’appartenenza viene confuso con l’omertà?
Non credo esistano forme “positive” di senso d’appartenenza o di spirito di corpo, come sarebbe meglio dire parlando di polizie. Si tratta di meccanismi che in passato venivano incentivati dalle istituzioni per creare una mentalità collettiva, favorire una chiusura corporativa e incoraggiare un legame che agisse da fattore di coesione proprio nei momenti più “difficili”. Oggi determinati meccanismi sono più deboli, sono diverse le istituzioni, è cambiato il Paese e spesso le persone che lavorano nelle polizie hanno molti più contatti con la società rispetto al passato, pertanto determinate forme di spirito di corpo sono meno presenti. Nonostante ciò, davanti ai casi di abuso degli ultimi due decenni, si è assistito spesso a forme di chiusura corporativa, di malsana solidarietà interna, talvolta favorite da alcune sigle sindacali.
La conclusione disegna uno scenario complesso e negativo rispetto al ruolo delle polizie che nella lettura del libro sono chiamate a interpretare un ruolo di “pulizia sociale”. Il rapporto diretto con le marginalità e povertà sociali sulla strada non deriva dall’assenza di altre risposte come quelle della politica?
Sì, è essenzialmente questo il problema, da parte politica si è scelto spesso di rispondere in maniera muscolare e repressiva ai problemi sociali, all’immigrazione, alla marginalità e alla povertà. In determinate questioni le polizie sono usate ancora una volta come strumento per sopperire all’assenza di un progetto politico e sociale, spesso mortificando anche la professionalità degli stessi agenti. Tra l’altro, come ha ben evidenziato
Enrico Gargiulo nei suoi studi, accanto a questi provvedimenti repressivi, da parte politica si sono perfezionati negli anni anche una serie di
strumenti di esclusione di natura amministrativa che vanno a colpire proprio le categorie più deboli.
Nel fronteggiare le questioni sociali l’immagine che appare dei poliziotti è quella del punching ball o vede un ruolo attivo?
Sociologi e criminologi hanno già scritto e hanno uno sguardo più lucido sul presente. Personalmente, da studioso di storia, posso solo azzardare delle ipotesi. Sembra che nei vertici dei corpi abbia preso piede da tempo una visione del lavoro di polizia legata alla performance e, come per altri settori, le polizie tendano di conseguenza a soddisfare un committente, che in questo caso può essere individuato nella politica di governo e nella parte di società che rappresenta. Per questo motivo, senza dimenticare che le responsabilità maggiori sono attribuibili alla politica, credo che anche le polizie stiano svolgendo un ruolo attivo e consapevole in determinate scelte legate alla gestione della sicurezza.