U n vecchio detto recita: tre indizi fanno una prova. Primo indizio: il Festival di Sanremo 2023, milioni di telespettatori sintonizzati. Prima dell’ormai celeberrimo bacio tra Rosa Chemical e Fedez, in quel goffo e spesso maldestro tentativo di “avvicinarsi ai giovani” tipico della tradizione sanremese, approfittando della presenza in scena di Chiara Ferragni, i conduttori Amadeus e Gianni Morandi (rispettivamente, classe 1962 e 1944) si cimentano nel commentare una serie di meme relativi alle serate del festival. Tra un momento cringe e un altro, al termine di questa carrellata Morandi apostrofa Amadeus con il peggiore degli insulti moderni: sei un boomer.
Secondo indizio (in verità, cronologicamente precedente): il grande ritorno in RAI di Alessia Marcuzzi, dopo dieci anni di reality TV su Mediaset. Con l’obiettivo di “svecchiare” viale Mazzini, ecco Boomerissima, esperimento di varietà del ventunesimo secolo in salsa generazionale. Per chi non l’avesse visto, in pratica funziona come il noto Ciao Darwin di Bonolis, ma con le generazioni a sfidarsi una contro l’altra: da una parte i boomer (rieccoli), dall’altra i millennial, impegnati in una serie di prove volte a stabilire la generazione vincitrice. Il tutto gira prima di tutto attorno alla musica. Come ci ricorda Vanity Fair non si tratta del primo programma che in questo momento mette a confronto le generazioni ai tempi dell’Internet. Anche BellaMa di Pierluigi Diaco, sebbene con stile differente, propone il confronto tra boomer e, questa volta, Generazione Z, costruendo però il racconto attorno alla tecnologia e basandosi sulla presunta incapacità dei primi di stare al passo con i tempi (e con i social). Quello che caratterizza Boomerissima però è la presenza egemonica della nostalgia, che viene per la prima volta impacchettata sotto forma di varietà indirizzato a una demografica che non sono i suddetti boomer – a differenza di ciò che accade invece, ad esempio, con Techetechetè o, meno nobilmente, con i vari Tale e Quale show. Boomerissima vuole, per la prima volta, storicizzare gli anni Novanta (dopotutto, la Marcuzzi è essa stessa un prodotto di quella decade) e rivendere la nostalgia – che ha regolarmente caratterizzato la produzione RAI mainstream – ad un segmento generazionale più giovane, a cui non è necessariamente abituata.
Stiamo assistendo alla risignificazione della parola boomer, e alla sua trasformazione in un concetto di tutti i giorni, che supera le categorizzazioni anagrafiche e demografiche e diventa significante ubiquo – a volte stigmatizzante per età, a volte insulto per mentalità.
Ma torniamo alla nostra indagine. Ultimo indizio, il numero tre: era un tranquillo sabato pomeriggio di febbraio quando, aggirandomi per una nota libreria del centro di Milano, incappo nell’Ok Boomer Trivia, un gioco di società che ambisce a “mettere le generazioni a confronto” per vedere se “sei al passo coi tempi o totalmente fuori dal mondo”. Il mio sguardo di stupore colpisce la persona alla cassa, che mi osserva e sorride. Avrà pensato che sono un boomer anche io, come Amadeus?
Se tre indizi fanno una prova, possiamo dire che stiamo assistendo alla risignificazione della parola boomer, e alla sua trasformazione in un concetto di tutti i giorni, à la carte, che supera le categorizzazioni anagrafiche e demografiche e diventa significante ubiquo – a volte stigmatizzante per età, a volte insulto per mentalità – nel quale la data di nascita, ormai, non conta più quasi nulla.
La guerra culturale generazionale
Nel mio libro L’età della nostalgia – uscito in Italia a settembre 2021 per Treccani [l’editore di questa rivista, N.d.R.] e nel mondo anglofono a dicembre 2020, con Zero Books –, sostengo che la nostalgia sia diventata sentimento egemonico del presente a seguito della crisi economica del 2007/2008, e costituisca elemento essenziale per leggere e interpretare il cambiamento sociale oggi. La nostalgia è il fil rouge che tiene insieme una serie di fenomeni, dalle campagne politiche della Brexit e di Trump (anno 2016) sino agli hipster, accomunati da un afflato ideologico verso il passato come confortevole orizzonte a cui ambire a ritornare. Da Take Back Control a Make America Great Again, le campagne politiche appena menzionate utilizzano strumentalmente – e con successo – il passato come orizzonte di futuro, facendo breccia in particolare tra chi quel passato l’aveva, almeno in parte, vissuto e che oggi, in un mondo in rapidissima evoluzione e mutamento, fatica a comprendere il presente, rifiutandolo.
Nel libro mi soffermo in particolare sul tema del lavoro. Spulciando le campagne 2016 di Brexit e Trump, emerge in maniera evidente come il lavoro sia l’elemento focale di questa nostalgia diffusa. La proposta che anima queste iniziative, che abbiamo imparato a definire populiste, era l’orizzonte di ritornare a quell’ideale di lavoro stabile, dipendente e sicuro che ha dominato la seconda metà del Novecento – e pazienza che fosse un lavoro odiato, alienante e sfibrante, talvolta inquinante e spesso iniquo in termini genere. L’ideale del lavoro novecentesco è forte nel generare nostalgia perché per un certo periodo ha funzionato, dando la possibilità di costruire un modello sociale basato sul lavoro e consentendo a molti individui e famiglie di costruirsi una vita di classe media e perseguire l’ideale del “vivere bene”, usando il consumo (culturale e materiale) come elemento di status.
La nostalgia è il fil rouge che tiene insieme una serie di fenomeni, dalle campagne politiche della Brexit e di Trump (anno 2016) sino agli hipster, accomunati da un afflato ideologico verso il passato come confortevole orizzonte a cui ambire a ritornare.
Ma poi è successo che quell’ideale si è inceppato. Per un po’ non ce ne siamo accorti, poi è diventato evidente, a cavallo dei Duemila, quando il lavoro è diventato precario, instabile, incerto. Ha iniziato a richiederci sempre più passione, a imporre la necessità di “fare qualcosa che ci piace” per trovarne un senso, ma in cambio non ci ha dato né stabilità né soldi. È qui, in questo passaggio, che inizia la guerra generazionale di oggi. Da una parte c’è chi è nato e cresciuto dentro quell’ideale, lo considera immutabile e non ne concepisce alternativa: tipicamente, queste persone appartengono a quella fascia demografica nata tra gli anni Cinquanta e Sessanta (così almeno secondo l’Istat) che chiamiamo comunemente baby boomer, figlia del picco demografico del secondo dopoguerra. Dall’altra parte c’è chi è cresciuto mentre questo ideale si stava sbriciolando, sotto i colpi della necessità ideologica di flessibilizzare il lavoro: sono la cosiddetta Generazione X (che spesso, però, noncalcola nessuno, “i figli di mezzo della storia”, come li chiama Chuck Palahniuk in Fight Club) e, soprattutto, i cosiddetti millennial, che poi sono i figli (nel senso biologico) dei baby boomer, e che hanno una posizione molto scomoda in questa storia. Sono quelli che, nati tra i primi anni Ottanta e la prima metà dei Novanta, hanno iniziato ad affacciarsi al lavoro nell’immediato post-crisi 2008, trovandoci le rovine. Mentre quell’ideale del lavoro di cui parlavamo prima si stava sbriciolando sotto i loro occhi, loro ce l’avevano in casa, letteralmente, con i genitori in larga misura incapaci e/o impreparati a comprendere perché il mondo era cambiato e quell’ideale non era, ormai, più così facilmente raggiungibile.
Nel libro ripercorro questa storia, con dati e aneddoti, mettendo in evidenza altri due aspetti. In primis, che quando parliamo di generazioni dobbiamo sempre stare attenti a non generalizzare troppo, perché se è vero che vivere lo stesso zeitgeist in qualche modo accomuna gli individui, segnando alcuni passaggi fondamentali delle loro vite, è anche vero che il concetto di generazione non tiene conto di altri fattori essenziali per la comprensione dei comportamenti degli individui e dei gruppi sociali – come il capitale culturale, sociale ed economico, per citare Bourdieu – e dai quali non è possibile prescindere per un’analisi valida e completa di questi processi. In secundis, che oggi non sono nostalgici solo i boomer, ma anche tanti millennial, in particolare quelli che per anni abbiamo chiamato, appunto, “hipster”, e che avremmo fatto bene a prendere più sul serio: li abbiamo derisi per i vestiti vintage, i risvoltini e la barba mentre molti di loro guardavano alle estetiche del passato pre-industriale e ai modi di produzione artigianale per provare a ricostruire il senso del lavoro e del vivere bene, in mezzo a mille contraddizioni. È in questa cornice che vediamo proliferare il pane con il lievito madre, il vino naturale, la birra e il caffè artigianale, con il cibo che ritorna ad essere centro nevralgico dell’innovazione sociale.
Rileggendo tutto questo a distanza di quattro anni (il libro è stato scritto nel 2019), e alla luce degli indizi che sono stati evocati a inizio articolo, realizzo però che è, ahimè, la mia riflessione era incompleta. Soffermandomi così tanto sul lavoro, nei fatti sono riuscito a cogliere solo un aspetto di quella faglia generazionale di cui alcuni fenomeni in particolare – Brexit e Trump, ma anche gli hipster – erano evidente manifestazione, ma che coinvolge in maniera più ampia i valori: la parità di genere, l’inclusività del linguaggio, il razzismo, ma anche la tecnologia, e i modi di fare, ed il modo in cui questi si articolano attraverso gruppi sociali e, soprattutto, si dividono per età. È qui che la parola “boomer” smette di essere una categoria demografica che raggruppa le persone nate nell’immediato secondo dopoguerra, e subisce una risignificazione, trasformandola in un concetto di tutti i giorni, ubiquo: talvolta scherzo giocoso, talvolta arma pungente, che supera le categorizzazioni anagrafiche e demografiche, e si fa segno del cambiamento sociale e culturale in atto.
Ok, boomer!
Due mesi dopo aver consegnato il libro, poi, succede che un trend su TikTok rende virale l’espressione ok boomer: in risposta a un video in cui un uomo critica i millennials e la Generazione Z come affetti da una “sindrome di Peter Pan”, molti utenti impiegano varie declinazioni di questa espressione – ok boomer – per stigmatizzarne il messaggio. Il New York Times definisce l’espressione come “la fine delle relazioni generazionali amichevoli”: tempo pochi giorni ed esonda nel mainstream, quando la deputata neozelandese Chloe Swarbrick si rivolge a un collega più anziano rispondendogli con “ok boomer” durante una sessione parlamentare. Fin qui, pare abbastanza semplice: i giovani usano questa espressione contro i vecchi. Solo che l’espressione si diffonde a macchia d’olio, passando dai ragazzini che fanno i TikTok a Gianni Morandi – che, ricordiamolo, è del 1944! – e arrivando a Boomerissima e ai giochi in scatola. Riscrive le categorie generazionali tradizionalmente intese – a Boomerissima, ad esempio, i boomer sono i boomer ma anche i Gen-X, come Francesco Facchinetti, mentre i millennial sono tutti i giovani indistintamente nati dopo il 1980 – e diventa espressione convenzionale di “mentalità antiquata”.
Come individui e gruppi sociali, ci pensiamo sempre più entro assi e coordinate interpretative che sono principalmente temporali, ed attraverso queste concepiamo oggi la società ed il nostro agire in essa.
“Non fare il boomer” diventa monito, segnale di stigma, disonore: espressione a volte giocosa a volte meno, che ammonisce il ricevente a non farsi cogliere in castagna rispetto al cambiamento culturale e sociale in atto. La tecnologia è mezzo di diffusione non solo culturale – attraverso i social media – ma anche strumentale, in senso pratico, di questo cambiamento, in quanto è (anche) l’uso improprio, inconsapevole o zoppicante della tecnologia a qualificare un boomer come tale. Il boomer quindi smette di qualcuno di una certa età, ma è potenzialmente chiunque: è un modo di fare e di essere. E anche il linguaggio si adegua, ad esempio importando dall’inglese il termine cringe per indicare tutti quei comportamenti che fanno provare imbarazzo o disagio in chi li osserva – tipicamente, i comportamenti dei boomer.
In ultima analisi, la risignificazione della parola boomer è interessante non tanto e non solo per il fenomeno sociale che rappresenta, ma perché il suo utilizzo ubiquo e senza confini è sintomo del fatto che, come individui e gruppi sociali, ci pensiamo sempre più entro assi e coordinate interpretative che sono principalmente temporali, ed attraverso queste concepiamo oggi la società ed il nostro agire in essa. Il risultato di questo processo – che è prima epistemologico e poi sociologico – è che, collocandoci sulla linea passato-futuro, costruendo una dialettica di scontro tra questi due poli, tendiamo sempre a guardare indietro, fallendo così nel compito di produrre una visione convincente di ciò che dovrebbe essere invece la priorità assoluta, in tempi di guerra e climate change: un’idea di futuro che non sia il passato. Un futuro che non siamo più capaci a immaginare né a rendere appetibile, ma che – citando Bifo – è qui tra noi, tra le rovine. Dovremmo cercarlo meglio.