Berlino, 1962: sotto il Muro
La storia del tunnel scavato dai berlinesi per oltrepassare la barriera che divideva la loro città.
La storia del tunnel scavato dai berlinesi per oltrepassare la barriera che divideva la loro città.
Q uella che stiamo per raccontare è una vicenda di reti televisive, di censure democratiche, di braccia forti che agguantano altre braccia, sollevando, tirando su, aiutando, di Coca-Cola stappate a festa e offerte a chiunque stia sbucando dal pavimento, finalmente dall’altra parte, da questa parte, dalla parte “giusta”, di giovani donne in vestito da sposa di Dior che avanzano carponi o strisciano nel fango di un cunicolo, di ideali e di libertà capitalistiche, ma anche di ragazzi italiani, come Luigi “Gigi” Spina della Hochschule der Künste e Domenico “Mimmo” Sesta della Technische Universität, che vi giocarono un ruolo da protagonisti in compagnia di altri imprevedibili personaggi, così come l’eroico o testardo ciclista Harry Seidel. Un dramma spionistico che i nostalgici definirebbero à la Graham Greene e i più aggiornati à la John Le Carré, contenuto nelle quattrocento pagine più avvincenti dell’anno, che non appartengono a un romanzo, perché la storia che più riesce a sorprendersi e prenderci, stavolta, è la Storia maiuscola. Stiamo parlando di Tunnel. 1962: fuga sotto il Muro di Berlino: impeccabilmente tradotto da Luca Fusari per l’editore milanese UTET e scritto da Greg Mitchell, giornalista e saggista statunitense, già direttore di “Editor & Publisher” e collaboratore di “The Nation”, “The New York Times”, “The Washington Post” e “Huffington Post”. Il libro si avvale di una sbalorditiva mole di testimonianze, riflessioni, resoconti, interviste, materiali tratti dagli archivi della Stasi e dossier recentemente desecretati del Dipartimento di Stato americano, che hanno permesso di allestire un racconto di alcuni dei mesi più determinanti del secolo scorso, quelli in cui la Terza Guerra Mondiale fu sfiorata e, con notevoli difficoltà, evitata. Il tutto, con nomi reali, senza alcun dialogo di fantasia: “una storia vera” che non è un saggio, che non è romanzata, pur avendo essa le movenze del thriller, e che compone un capitolo di storia sociale e politica, oltre che di storia e tecnica dei media.
Il 1961 era stato un anno memorabile, ma per motivi di quelli che di notte non fanno chiudere occhio anche (o soprattutto) ai più potenti della Terra. John Fitzgerald Kennedy stava ancora tentando di misurare quanto il fiasco della Baia dei Porci e la difficile congiuntura economica avessero inciso sul suo indice di gradimento e su un fascino che sembrava senza precedenti, quello del primo presidente dell’era di un nuovo e rivoluzionario mezzo d’informazione, del primo presidente integralmente televisivo – qualcosa di più che telegenico – della storia americana, colui che preferiva rapportarsi al popolo degli Stati direttamente via etere, parlando con l’elettore a tu per tu, senza il filtro della carta stampata e senza le domande scomode dei giornalisti, brutta razza. Poi, come se il disastro cubano non fosse bastato, nel buio delle prime ore del 13 agosto, i frontalieri insonnoliti dell’Est che uscivano di casa per andare a lavorare all’altro capo della città, in uno dei settori a controllo occidentale, trovarono Berlino divisa e squarciata da fitte recinzioni di filo spinato, alle quali sarebbe seguito il cemento, il Muro. Nottetempo, la DDR (che in italiano risultava come RDT, “Repubblica Democratica Tedesca”) aveva portato alle estreme conseguenze una decisione che era nell’aria e che, si diceva, gli americani quasi vedessero di buon occhio: il flusso dell’emigrazione dall’Est all’Ovest aveva assunto proporzioni ingestibili e lavoro non ce n’era per tutti.
Centocinquantaquattro chilometri di “barriera di protezione antifascista”, secondo la neolingua comunista, che andavano a ingabbiare l’intera circonferenza di Berlino Ovest, limitando la fuga di massa: la penuria, la povertà egualmente diffusa, l’impressionante numero di suicidi, là; le libertà e l’incertezza occidentali, da questa parte. E milioni di profughi, certo, anche se altrettanti cittadini orientali continuavano a preferire il grigiore sovietico al rischio capitalistico, a un’esistenza priva di reti di protezione.
Fin dai primi mesi del 1962, dopo i tanti tentativi di eludere i checkpoint e di scavalcare il Muro, ci fu chi pensò che oltrepassare quella frontiera fosse soltanto una delle possibilità: l’altra era quella di “sottopassarla”.
Con l’anno nuovo, fin dai primi mesi del 1962, dopo i tanti tentativi di eludere i checkpoint e di scavalcare il Muro, alcuni di successo e altri fallimentari, mortali, derubricati a “incidenti” dal governo di Walter Ulbricht che aveva armato la mano delle guardie di confine, ci fu chi pensò che oltrepassare quella frontiera fosse soltanto una delle possibilità: l’altra era quella di “sottopassarla”, ovvero di imbracciare il piccone e la pala. Alcuni erano scomparsi in un tombino, avevano percorso la rete delle fognature ed erano sbucati nell’Ovest, ma servivano vie meno pericolose e adatte al transito di decine, se non centinaia, di fuggitivi: servivano gallerie.
È così che, spontaneamente, s’incontrarono e si organizzarono i Fluchthelfer (“complici dei fuggiaschi”): una struttura clandestina, ma non osteggiata dalle autorità tedesche dell’Ovest, di scavatori e corrieri che, a fini ideali di solidarietà umana o mediante la vendita di un biglietto dal prezzo non esoso, per un modesto tornaconto economico, offriva passaggi oltreconfine. Impossibile, tuttavia, garantire la sicurezza dell’operazione, perché gli occhi della polizia segreta erano dappertutto: in aggiunta ai propri agenti in incognito, in impermeabile e copricapo, la cosiddetta “Mafia dal cappello floscio”, la Stasi poteva sul numero inverosimile di informatori che affollava l’intera Germania dell’Est, le soffiate dei quali venivano ripagate con fiammanti automobili Skoda.
Aiuti veri e propri da oltreoceano non c’era da aspettarsene, anzi, se è vero che ciò che veniva pubblicamente criticato dai funzionari occidentali riceveva numerosi apprezzamenti in privato e se sono vere – lo sono – le parole di JFK, secondo il quale “quel maledetto muro è comunque meglio di una guerra”. Anche se suona un poco paradossale, a una prima analisi, la sua costruzione segnava la conclusione della crisi di Berlino, perché, sempre secondo il Presidente, “ad andare nel panico è stato l’avversario, non noi. Adesso noi non facciamo niente, perché l’unica alternativa sarebbe la guerra”. Un elemento di stabilità, in definitiva, in un quadro geopolitico internazionale che negli stessi mesi era di nuovo soggetto a violente scosse di origine caraibica: la crisi dei missili sovietici a Cuba aveva spinto per l’ennesima volta gli attori della guerra fredda a muoversi sulla scivolosa soglia del conflitto, con Chruščëv in grado di scatenare l’escalation delle provocazioni e di incarnare la possibilità della scelta nucleare, la minaccia della Bomba. Lo scacchiere dei primi anni Sessanta è dominato da questi due centri di scontro, nei quali si ripercuote e si sostanzia al micro-livello l’opposizione che lega e separa gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica: quella che a Berlino, dal 1945 in poi, era stata una guerra spionistica, con la costruzione del Muro assunse la forma di una linea quotidiana del fronte, di una piaga dolorosa ed esposta al contatto, il punto in cui si toccavano l’Est e l’Ovest, il centro in cui era stato risucchiato ed era giunto a collassare il globo più vasto. Via i sovietici da Cuba, via gli americani da Berlino? Uno scambio, un patto possibile e sul quale si ragionò, che non si concretizzò.
Quella che a Berlino era stata una guerra spionistica, con la costruzione del Muro assunse la forma di una linea quotidiana del fronte, di una piaga dolorosa ed esposta al contatto, il punto in cui si toccavano l’Est e l’Ovest.
Da febbraio ’62 a fine anno, con il clou da agosto a ottobre, quella che si svolge ai due lati del Muro è una commedia dell’immobilità con punte tragiche, come quella della morte solitaria e straziante di Peter Fechter, consumata sia sotto gli occhi occidentali che di quelli dei “VoPos” (Volkspolizei): il clamore e l’esasperazione degli animi producono nottate di proteste tanto contro la brutalità della “polizia popolare” dell’Est quanto contro l’inerzia degli americani e la loro difesa dello status quo. È a quest’altezza cronologica, in piena età dell’oro dei documentari televisivi, che entra in campo la rivalità dei network statunitensi e che i guadagni degli scavatori berlinesi si fanno consistenti: NBC contro CBS, entrambe disposte a finanziare la realizzazione di un proprio tunnel, in cambio dei diritti televisivi, cioè a patto di ottenere l’esclusiva sulle immagini della fuga. Succede, però, che si mettano in mezzo il Dipartimento di Stato e lo stesso Presidente, a tutela degli interessi nazionali e preoccupati di non inasprire ulteriormente il contesto, vagamente minacciosi nei confronti delle emittenti televisive, invitate a non partecipare, a non sovvenzionare, a non foraggiare i piani di fuga, a non lasciarsi coinvolgere.
“Ogni reportage, senza sacrificare l’integrità e il senso di responsabilità, dovrebbe avere i tratti di un’opera narrativa, di una rappresentazione. Deve avere una struttura e un conflitto, un problema e un epilogo, ascesa e declino, un inizio, una metà e una fine. Non sono soltanto gli elementi essenziali della messa in scena, questi; sono le parti essenziali di una narrazione. Poiché ci occupiamo di comunicare, ci occupiamo di narrare”: ad arringare così i propri redattori era Reuven Frank, produttore televisivo della NBC, ma sembra di stare ascoltando lo stesso Mitchell, che è riuscito a evitare ogni calo di tensione, proprio come ci riuscirono USA e URSS, nel ’62.
Al netto di ogni languore malinconico e di quel sentimento che periodicamente riemerge negli animi di chi ha vissuto nella DDR un segmento imprescindibile della propria esistenza, il pensiero della divisione tedesca e di Berlino, dell’abbattimento del Muro e della riunificazione, oggi, non producono tanto il sentimento dell’Ostalgie, della rievocazione, a scopi di marketing politico o strettamente commerciale, dei fasti e dei guasti della parte “sbagliata” del Paese e della città, quanto l’interrogazione esplicita sulla realtà più recente: il confronto di due metà di mondo che si trovano a dover gestire gli ingenti trasferimenti di popolazione che sono causati dagli squilibri e dalle speranze. Ai presenti allora il compito di decifrare i suggerimenti che possono giungerci da quella Berlino spezzata: trafficanti in esseri umani e barriere che “non riescono mai davvero a separare le persone”, potendo “soltanto spingerle a scavare”, come conclude Nicholas Kulish del “The New York Times” sulla quarta di copertina. Nulla di nuovo sotto il sole, insomma, ma qualcosa o qualcuno, forse, si sta muovendo, sotto terra.