S ul tavolo di lavoro appaiono gli attrezzi con cui Dieter Hötger scavò il muro che lo separava dalla libertà. A Bautzen, cittadina sassone e terra di confine con la Repubblica Ceca, nel centro di detenzione per dissidenti politici, la cella numero diciotto è intatta come la mattina del 28 novembre del 1967. Il freddo dell’inverno tedesco attraversa ancora le fessure di un luogo emblematico del Novecento europeo.
Evasione
Hötger visse la reclusione in stato d’isolamento assoluto almeno diciotto ore al giorno. Nel tempo residuo poteva lavorare nel laboratorio del carcere, in cui assemblava gli elementi per i quadri elettrici. Nei momenti di distrazione della sorveglianza, iniziò a rimuovere l’intonaco e i mattoni; ne nascose ventitré dietro la scrivania. Creò una crepa e poi la voragine nella parete. Nei trent’anni di attività di Bautzen II, fu l’unico fra 2400 detenuti che riuscì a evadere dal carcere non ufficiale della Stasi.
La fuga di Hötger scatenò la reazione pubblica più imponente delle forze di polizia nella storia della Repubblica Democratica Tedesca. Oltre tremila poliziotti si misero sulle tracce di un uomo solo, scomparso nella notte dopo una lunga corsa dalla città alla foresta. Le autorità tappezzarono i dieci distretti della DDR con ventottomila manifesti col volto del fuggiasco e la promessa di una ricompensa. Lui senza alcun aiuto cercò di oltrepassare la linea di divisione tra le due Germanie. In realtà, l’idea del fuggitivo era di raggiungere la Cecoslovacchia, ma si mosse nella direzione sbagliata, a nord, verso Berlino. L’impresa solitaria coprì la distanza di circa venti chilometri. Hötger respirò la propria libertà per nove giorni: una pattuglia della polizia lo arrestò il 6 dicembre del 1967 a Kleinsaubernitz.
Dopo tredici mesi trascorsi sotto la custodia della Stasi, la Corte distrettuale di Potsdam lo condannò ad altri otto anni di reclusione per spionaggio, sovversione, danneggiamento della proprietà socialista per aver rovinato la parete della cella e per il tentativo di attraversamento illegale del confine con la Repubblica Federale di Germania.
La storia del carcere
A Bautzen, la storia della repressione della dissidenza politica risale all’alba del Novecento, quando tra il 1904 e il 1906 le autorità sassoni fecero costruire due istituti penitenziari di Stato, poi unificati nell’amministrazione. Il primo fu collocato al confine della città, mentre il secondo in pieno centro urbano dando le spalle a Friedrich Engels Platz.
Al crollo della Repubblica di Weimar, che aveva riformato il sistema carcerario in senso liberale, la dittatura nazista riempì Bautzen I di oppositori innanzitutto comunisti, sindacalisti e socialdemocratici. Già nel 1933 la vita di mille persone finì reclusa in quel perimetro. Con la costruzione di un campo di concentramento nell’area industriale a nord di Bautzen, in cui dopo il periodo di detenzione confluirono e scomparvero centinaia di oppositori politici al nazismo, ebrei, omosessuali e rom, il carcere perse parte della propria importanza come strumento di persecuzione, tuttavia s’integrò nel sistema di oppressione. Nel 1945 i sopravvissuti furono trasferiti a Lipsia.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel maggio del 1945 l’esercito sovietico arrivò a Bautzen e riadattò il luogo, come avvenne a Buchenwald, in uno dei dieci “campi speciali” creati nei territori della Repubblica Democratica Tedesca. Tra la primavera del 1945 e il febbraio del 1950 27mila persone, funzionari e membri riconducibili al partito nazista, transitarono da Bautzen I, che si contraddistingueva dalla facciata di colore giallognolo e assunse il soprannome di “miseria gialla”, per essere poi smistati in Polonia e in Unione Sovietica.
Nel decennio 1945-’55 circa tremila prigionieri morirono a causa delle condizioni estreme della detenzione. Fra di loro il direttore del carcere durante il periodo nazista che, dopo essere riparato a Lipsia, fu arrestato dai sovietici e riportato a Bautzen fino all’ultimo dei suoi giorni.
La dittatura nazista riempì Bautzen di oppositori. Nel ’45 l’esercito sovietico riadattò il luogo in uno dei dieci “campi speciali” creati nei territori della Repubblica Democratica Tedesca.
Nel ventre di Bautzen e dei giardini che l’abbelliscono, giacciono le spoglie delle persone seppellite e ammassate sbrigativamente, creando in quel periodo fosse comuni nei dintorni del carcere. Nel 1992 furono riesumati 240 corpi, poi non si dissotterrò più. Oggi nessuno è interessato a tornare nelle viscere di una storia che si vuole dimenticare.
Nel passaggio tra il regime nazista e la fase di occupazione sovietica, la differenza architettonica delle carceri consistette nel luogo di culto. I sovietici distrussero i centri di preghiera, che divennero dei cinema: una volta al mese i detenuti potevano guardare film politici. Nel 1949 con la nascita della DDR, la custodia dei circa seimila ancora detenuti passò sotto il controllo della Polizia del popolo. Una gestione, segnata dalla rivolta del 1950 sedata con la violenza, che si protrasse fino al 1956.
Nei quarant’anni di vita della DDR, il carcere di massima sicurezza è stato riservato ai dissidenti politici, considerati dalla Stasi come i più pericolosi. Già nel 1956 le celle di Bautzen II accolsero figure politiche di spicco come il Ministro degli Esteri della DDR Georg Dertinger e il Segretario di Stato alla giustizia, Helmut Brandt. La stessa sorte toccò agli intellettuali che si distanziarono dalla SED. Un caso in particolare ebbe eco internazionale: l’arresto nel 1978 di Rudolf Bahro, autore di Die Alternative. Zur Kritik des real existierenden Sozialismus.
I funzionari in borghese della Stasi, che agivano negli uffici del carcere di Bautzen II, erano direttamente collegati al Ministero per la sicurezza di Stato a Berlino. Formalmente l’istituto era sotto la giurisdizione del Ministero dell’Interno, ma il controllo reale spettava a quello per la Sicurezza di Stato. Dal 1971 al 1986, Horst Faedtke, direttore del penitenziario, risultò alle dipendenze totali del MfS, strumento di governo del Partito di Unità Socialista di Germania (SED), che utilizzò Bautzen II per l’internamento delle presunte spie, degli oppositori e dei fuggitivi (Republikflüchtlinge) dalla DDR. Dal 1963 la gestione divenne separata e autonoma da Bautzen I.
Il penitenziario era sufficientemente distante da Berlino per far cadere nell’oblio i condannati spesso trasferiti dalla custodia cautelare scontata presso la Berlin Hohenschönhausen, edificio rilevato nel 1951 dal MfS e utilizzato fino al 1989 come istituto centrale per la carcerazione preventiva. “Senza avere alcuna notizia su quanto ci stesse succedendo, venivamo confinati in una cella di sicurezza, priva di luce, all’interno di un veicolo senza riscaldamento destinato al trasporto dei dissidenti politici. Il viaggio da Berlino non conosceva soste, neanche per andare in bagno”, ha raccontato Thomas Lukow, che trascorse due anni a Bautzen dal 1981 al 1983.
Nel 1977 l’ingresso della prigione fu trasformato in un memoriale alla resistenza contro il nazionalsocialismo con una targa dedicata al comunista ceco Julius Fučik. La Gestapo arrestò Fučik a Praga a causa della lotta contro l’occupazione tedesca e lo imprigionò a Bautzen II. L’8 settembre del 1943 a Berlin-Plotzensee eseguirono la sentenza di condanna a morte per alto tradimento.
La vita dei detenuti
Oggi l’atrio, antistante all’ingresso, mantiene l’aspetto del 1978, quando lo resero un garage per i veicoli che convogliavano i condannati. Nei settemila metri quadrati di Bautzen II si entra dopo aver superato tre cancelli. La struttura è articolata in cinque livelli insieme alla soffitta e alla cantina. La capienza massima dell’istituto era di 203 persone, suddivise in celle singole o doppie.
All’interno di Bautzen II, l’esistenza trascorreva lentissima. Senza la disponibilità di libri, con la tortura del freddo e della pressoché totale assenza di luce solare. Le finestre erano oscurate. Le celle destinate all’isolamento mostrano il sadismo di un bagno esterno alle sbarre, che costringeva il detenuto a sporgersi tra le grate per espletare i bisogni fisiologici. A Berlino vive l’uomo costretto al più lungo stato d’isolamento, durato sedici anni, nella storia di Bautzen.
Lo Stato socialista rinnovò le celle alla fine degli anni Sessanta, ma l’acqua corrente e quella calda arrivarono solo nel 1975. La disponibilità delle docce esterne era bisettimanale, non più di dieci minuti. In notturna, il WC era utilizzato come canale di comunicazione tra i detenuti.
Oggi le finestre che si affacciano sul cortile interno del carcere, sono murate. Una scelta non casuale per alienare dalla città lo spazio dell’oblio.
Dal 1960 apparve la televisione con una selezione di programmi e sceneggiati prettamente politici per la rieducazione. I detenuti, i cui nomi furono ridotti a numeri, dovevano essere trattati come un nemico ideologico sottoposto a un regime di sorveglianza assoluta con un agente ogni due detenuti. La corrispondenza era limitata dallo stretto regime di censura. Tra il 1956 e il 1989 la DDR concesse dieci amnistie, legate a specifiche congiunture politiche.
Nell’estate del 1956 Karl Wilhelm Fricke, giornalista della Repubblica Federale Tedesca, fu tra i primi cento detenuti di Bautzen. I suoi articoli criticavano lo stato d’oppressione politica a Berlino Est. Fu rapito a Berlino e condannato a quattro anni di reclusione. Tra il 1963 e il 1989, la RFT riscattò dai penitenziari della DDR oltre 34mila dissidenti politici, pagando l’equivalente di circa 3.4 miliardi di marchi. Hötger abbandonò Bautzen nel 1972 dopo il saldo di un riscatto.
Il passato rimosso
Bautzen I è stato ammodernato e svolge la medesima funzione: attualmente 450 persone vi scontano la propria pena. La struttura sorta nel 1906 è conservata invece come alla caduta del Muro di Berlino nel 1989, quando nei giorni della “Rivoluzione pacifica” furono rilasciati tutti i prigionieri politici. Dopo un biennio d’incuria, dal 1992 al ’94, è divenuto un memoriale.
“Dal 1990 Bautzen cerca di reinventarsi e presentarsi al mondo con una nuova immagine. Le prigioni sono vissute come un corpo estraneo, qualcuno si spinge ad argomentare che non siano parte della nostra storia. ‘Quei luoghi non sono Bautzen’, dicono. Col nazismo c’è la stessa negazione. Nessuno vuole parlare del nazifascismo. L’Europa è qualcosa di remoto. I cittadini sono fieri della bellezza del centro storico medievale, del fiume e della ricostruzione post 1989. I giovani sono scappati oltre vent’anni fa alla ricerca di un lavoro. Qui restano gli anziani e la storia d’Europa che non abbiamo avuto il coraggio di affrontare”, sottolinea Ulrich Ingenlath, membro del Centro Studi del Gedenkstätte Bautzen.
Nel perimetro del circondario di Bautzen II, le finestre degli ultimi piani delle case e della principale scuola elementare locale, che si affacciano sul cortile interno del carcere, sono murate. Una scelta non casuale per alienare dalla città lo spazio dell’oblio. Dal periodo nazista a oggi, Bautzen nel proprio piccolo vive una battaglia costante tra memoria e oblio, che appartiene all’Europa intera e al suo futuro. La distanza tra Europa Occidentale e Orientale si misura anche sulle memorie dominanti: da una parte il nazismo, mentre nel cosiddetto ex-blocco sovietico aleggia quella del passato comunista.
“La memoria e l’oblio non rappresentano terreni neutrali, ma veri e propri campi di battaglia, in cui si decide, si sagoma e si legittima l’identità specie quella collettiva”, ha scritto Remo Bodei nel Libro della memoria e della speranza (Il Mulino, 1995): “Attraverso una serie ininterrotta di lotte, i contendenti si appropriano della loro quota d’eredità simbolica del passato, ne ostracizzano o ne sottolineano certi tratti a spese di altri, componendo un chiaroscuro relativamente adeguato alle più sentite esigenze del momento”.
Vittime e carnefici
Il settantunenne Alexander Latotzky, portavoce del Bautzen Prisoner Committee, ha impegnato la propria vita in questa battaglia. È il figlio di un soldato sovietico, deportato in Siberia per la storia d’amore con la detenuta Ursula Hofmann, accusata di essere una spia e poi riabilitata nel 1992. Latotzky, classe 1948, nacque da quella relazione clandestina. Ursula giunse a Bautzen I già in attesa del figlio, che le fu sottratto il giorno del parto. Ci pensò la Volkspolizei a separarli. Si ritrovarono a Berlino nove anni più tardi, cercando l’intimità del tempo perduto.
Alexander, che la Stasi pedinò come nemico dello Stato fino al 1989, ha abbracciato il padre nel 1999 dopo una rincorsa faticosa. Latotzky non era solo: altri 70 bambini vennero al mondo nei campi speciali. Nella sua ricerca la memoria non è soggetta a imperativi di natura politica.
Nelle piazze di Bautzen può capitargli d’incontrare Rainer Steudtner, classe 1932, che, dopo aver frequentato a Potsdam la scuola del MfS, entrò in servizio a Bautzen nel 1956 e ne uscì solo nel 1989. Come ricorda Ingenlath, Steudtner insieme ad altri si è professato vittima della riunificazione tedesca. Lui aveva obbedito agli ordini. All’atto di chiusura di Bautzen II, lo Stato mandò in pensione Steudtner insieme agli agenti al servizio del MfS, circa il 20% del personale del penitenziario composto ufficialmente da ottanta persone. Gli altri furono integrati nella polizia di Stato della Sassonia.
A Bautzen, più che altrove, si cerca sempre di sfumare il confine tra vittime e carnefici. Percorrendo il memoriale e leggendo le biografie, si nota come i nazisti indossarono i panni degli sconfitti o cambiarono semplicemente con disinvoltura la divisa.
Il libraio Weigl
“La prigione di Bautzen ha rappresentato un incubo per la mia generazione. È stata la contrapposizione all’idea di libertà in cui abbiamo creduto, prima di porre le domande. Ho temuto di perdermi nella voragine di quel luogo, come chiunque tentò di fuggire dalla Repubblica Democratica Tedesca”, dice il libraio cinquantunenne Steffen Weigl.
Weigl, nato a Lipsia in una famiglia operaia, è il quarto figlio di una ragazza madre, che divorziò presto dal marito e crebbe in solitudine i figli. La biografia di Weigl raffigura la storia della seconda metà del Novecento tedesco ed europeo, che si riflette nella vita e ne disegna le scelte, i legami personali.
>Dopo la scuola, cominciò l’apprendistato per diventare un muratore, ma la lettura era la sua passione. “L’esito diretto della condizione economica famigliare era il mestiere d’artigiano, però mia madre mi leggeva spesso i libri ad alta voce. Crescendo, imparai a usare e ad amare la biblioteca pubblica. Nei cantieri edili, durante le pause mi soffermavo a leggere. E iniziai a frequentare una libreria che esiste tuttora a Lipsia”, racconta. La curiosità di Steffen non passò inosservata nel negozio di libri usati e antichi Antiquariat Max Reimann in Karl-Liebknecht-Strasse: “Max mi propose un periodo di apprendistato. Essere un libraio non era un mestiere, ma un sogno”.
Quando Max Reimann lo assunse come giovane dipendente, Steffen aveva già maturato la rottura con la DDR, chiedendo il permesso d’espatrio, poi negato: “Lo Stato sostenne mia madre, che era tutt’altro che benestante, garantendomi l’eguale diritto all’istruzione. Ma proprio a scuola, durante le ore di educazione civica, iniziai a pormi le domande che rimasero inevase. Ritenni fondamentale una questione: ‘Perché se siamo uomini e donne libere, non possiamo andare oltre il confine statuale ed esprimerci liberamente?’”.
La libreria assomigliò allo spazio della dissidenza, alimentata da incontri e discussioni dilanianti. In quell’ambiente nacque una rivista letteraria e satirica illegale, che era stampata e rilegata a mano nella copisteria della Biblioteca nazionale. La Stasi mise in stato d’accusa il ragazzo che nella libreria si occupava delle pulizie e lo stesso Weigl era ormai un sorvegliato speciale. “Il giorno dell’arresto vennero a prelevarmi proprio in libreria. Gli interrogatori estenuanti verterono sulla fuga di alcuni amici dal Paese, poiché intercettarono una cartolina e sulla rivista a cui lavoravo. La custodia cautelare in carcere durò circa due mesi, in assenza di qualsiasi comunicazione su un eventuale rinvio a giudizio. Nel frattempo si era aperta la frontiera con l’Ungheria e nelle strade di Lipsia s’ingrossarono le Montagsdemonstrationen, proteste che invocavano la riforma della DDR”.
Era l’alba del 1989, quando Steffen ottenne la liberazione, pianificando la rotta per giungere da esule a Berlino Ovest. “La mattina in cui rientrai a casa dal carcere, mia madre ebbe uno svenimento: non pensava di rivedermi. Non tentò di trattenermi dalla fuga a Praga e poi fu felice di sapermi dall’altra parte del Muro. Nonostante le proprie paure mi diede una grande lezione di genitorialità e libertà”, spiega.
Il primo passo fu la fabbricazione di una nuova carta d’identità, perché l’originale era stata invalidata dalla polizia. L’aspettava un treno destinazione Praga: “Nella carrozza conobbi una giovane madre con un neonato e il primo figlio. Quando arrivammo all’ambasciata a Praga, era già tutto transennato e non facevano entrare più nessuno, eccetto i genitori con figli a carico. Lei mi mise in braccio il neonato e riuscimmo ad accedere. Dopo aver trascorso molti giorni accampati, partimmo per Berlino con un volo British Airways, passando per un campo profughi”.
Il fratello biologico di Steffen era un membro del partito SED e un probabile informatore della Stasi. Il loro rapporto illumina la complessità di una stagione ancora irrisolta anche nel livello più intimo dei legami famigliari. “Non avremmo potuto essere più distanti. In varie occasioni cercò di dissuadermi, mettendomi in guardia sulle conseguenze della dissidenza. Sapevo che partecipando alle dimostrazioni di piazza per la riforma del sistema socialista, l’avrei incontrato dall’altra parte della barricata. Il clima di sorveglianza e repressione ci avvelenò”, sostiene Weigl.
E che cosa accadde dopo la riunificazione della Germania? “In trent’anni con mio fratello non sono riuscito a parlare di tutto ciò. Lui ha voltato le spalle alla storia senza alcuna analisi critica: era un militante integrato nel sistema che si limitava a obbedire. E la relazione è ormai assente. A scuola ci avevano spiegato perfettamente come funzionasse il capitalismo e le sue storture, dunque nel passaggio a ovest non coltivavo particolari illusioni. Ma l’oppressione a est era insostenibile”.
La Germania (ancora) divisa
In vista delle elezioni europee il microcosmo di Bautzen dà alcune indicazioni interessanti. Negli ultimi venticinque anni il sindaco è stato espressione della forza di maggioranza, la CDU. L’attuale sindaco è della SPD. Come nel resto della Sassonia e dei Länder a Est, a livello locale il balzo in avanti di Alternative für Deutschland è destinato a cambiare lo scenario politico. Nell’area di Bautzen il partito di estrema destra è accreditato del 25%: un risultato che li porterebbe a contare nel governo della città. E a settembre si terranno le elezioni per il governo del Länder.
“Dopo il lungo e complesso processo di ricostruzione, le persone si sentono sempre più frustrate. Il bacino a cui attinge Alternative für Deutschland è soprattutto fra gli anziani e i giovani senza prospettive. Da Dresda al confine con la Repubblica Ceca questa è l’area con l’età più avanzata della Sassonia. ‘Abbiamo perso la DDR, stiamo perdendo la Germania per l’Europa’, ripetono”, spiega Ingenlath: “La generazione che non ha fatto i conti con il totalitarismo non comprende e rifiuta l’Unione. In questa parte del continente il ringiovanimento demografico e delle idee è in piena regressione. Le persone si percepiscono come tedeschi di seconda classe, temono di non essere più la priorità dello Stato sociale con l’arrivo dei migranti. Dal 2015 a Bautzen sono approdati appena 400 rifugiati: si tratta perlopiù di famiglie siriane. E si respira un senso diffuso di respingimento”.
Lo straniamento provato da Weigl, che attualmente lavora come libraio a Basilea e fatica a riconoscersi nelle trasformazioni di Lipsia, e quello illustrato da Ulrich, lo si ritrova nelle opere del lipsiense Clemen Meyer, classe 1977, lo scrittore tedesco forse più rappresentativo della generazione post 1989. Nel libro Il silenzio dei satelliti (Keller editore, 2019, traduzione di Roberta Gado e Riccardo Cravero), un album di canzoni composto da nove racconti e tre miniature, ambientati nella paradigmatica Lipsia, Meyer tratteggia un cosmo dissolto e in corso di rielaborazione.
Che cosa resta dei sogni e delle illusioni amplificate dal miraggio dell’Ovest così distante?
“È evidente che nel caso della RDT, siccome è scomparso tutto, l’architettura, la politica quanto le abitudini, ciò che resta sono frammenti ai quali ci si attacca pur nella felicità che molte cose siano cambiate”, dice Meyer.“I quartieri dei miei romanzi non esistono più: dopo la riunificazione della Germania sono stati completamente ristrutturati, cambiando volto, anima e destinazione d’uso. Molti cittadini si trovano a vivere nei propri ricordi della città. I luoghi sono fatti dalle persone che li abitano. Al dissolvimento dei luoghi si sovrappone quello delle identità.
Nella narrazione di Weigl colpisce profondamente la figura materna. Dopo la riunificazione, come accaduto a larghe fasce di popolazione nella Germania dell’Est, è stata colpita da una grave depressione e da qualche anno da una prematura demenza senile.
Un romanzo fondamentale per comprendere il 1989 visto da Est, nel trentennale della caduta del Muro di Berlino, è Eravamo dei grandissimi (Keller, 2016) dello stesso Meyer. L’azione si svolge alla periferia di Lipsia in un contesto architettonico paleoindustriale. Dopo la Svolta del 1989 un gruppo di amici, cresciuti come “pionieri” del socialismo nella Germania dell’Est, manifesta una rabbia senza controllo.
“Qualcosa è andato storto; permane la sensazione di essere trattati come cittadini di seconda categoria. È sufficiente posare lo sguardo su Dresda, Chemnitz o sulle aree rurali. È come se l’est fosse rimasto un mondo a sé, che porta sulle spalle il peso di un certo tipo di eredità”, conclude Meyer: “Le fratture si avvertono tuttora e si sentiranno ancora per decenni. Questo sentimento varia in base alle generazioni, al contesto geografico e dipende molto dalla situazione economica regionale. È certo che i cittadini dell’est non hanno mai avvertito la necessità di mostrare gratitudine o peggio riverenza. La posizione è chiara: il Muro l’hanno fatto cadere loro con l’esigenza di cambiamento. Non è stato l’Ovest ad abbatterlo”.