N ell’autunno del 1995, dopo aver dato le dimissioni dal suo ultimo incarico accademico, Azar Nafisi decide di invitare alcune sue studentesse a casa per parlare di letteratura. Siamo in Iran, sotto la Repubblica Islamica: le università, nel mirino degli integralisti, impongono, oltre alle rigide norme di abbigliamento e all’uso del velo, la divisione dei sessi in aule diverse e punizioni ai professori disobbedienti. Intanto la censura aveva fatto sparire dagli scaffali delle librerie e dai programmi scolastici le opere di autori e autrici, sia persiani che occidentali, che non fossero a sostegno dell’ideologia o che semplicemente contenessero parole come “vino” o “bacio”. Per due anni, ogni giovedì mattina, racconta in Leggere Lolita a Teheran, Azar e le sue studentesse si incontrano nel suo salotto di casa per una sorta di seminario clandestino che ha per tema il rapporto tra realtà e finzione letteraria, attraverso i classici della letteratura persiana e di quella occidentale; tra questi, appunto, Lolita di Vladimir Nabokov.
Nafisi mette insieme i ricordi quando è ormai lontana dall’Iran, “in un’altra stanza, in un altro paese”, il libro esce infatti nel 2003, imponendosi da subito come bestseller. Come un romanzo scritto da un autore russo negli Stati Uniti negli anni Cinquanta riesca a parlare a un gruppo di donne che nella Repubblica islamica dell’Iran si riuniscono in clandestinità a leggerlo è il movente che dà inizio alla narrazione: Se oggi voglio scrivere di Nabokov è per celebrare la nostra lettura di Nabokov a Teheran, contro tutto e contro tutti. (…) È di Lolita che voglio scrivere, ma ormai mi riesce impossibile farlo senza raccontare anche di Teheran. Questa, dunque, è la storia di Lolita a Teheran, di come Lolita abbia dato un diverso colore alla città, e di come Teheran ci abbia aiutate a ridefinire il romanzo di Nabokov e a trasformarlo in un altro Lolita: il nostro.
“La prima cosa che ci colpì – racconta Nafisi – è il fatto che Lolita venga presentata sin dalla prima pagina come una creatura di Humbert”. Humbert, di fatto, si appropria dell’esistenza di Lolita: da essere umano che vive e respira, la trasforma in uno statico e immobile oggetto della sua fantasia, nel suo perduto amore. Ed è così che la distrugge. La verità disperata che si cela dietro la storia di Lolita, dice allora Nafisi, non è lo stupro di una ragazzina da parte di un adulto pervertito, ma la confisca della vita di un individuo da parte di un altro. Non sappiamo cosa sarebbe diventata Lolita se Humbert non l’avesse annullata in quel modo.
Qui si fa immediato quanto aspro il rimando a un presente sotto un governo per cui la condizione di donna è ridotta sempre e solo a quella di “donna musulmana”, dove ogni suo gesto, come una ciocca di capelli fuori posto, può recare disturbo alla quiete pubblica: “Chiunque fossimo – e non importava a quale credo appartenessimo, se volevamo portare il velo oppure no, se osservavamo o meno certi precetti religiosi-, eravamo diventati il prodotto del sogno di qualcun altro.” Come Lolita nel sogno di Humbert. Come Lolita che, se appare viva, è soltanto dietro le sbarre della sua prigione. “Mentre ne discutevamo, il discorso sconfinava di continuo nel personale, nelle gioie e nei dolori privati delle mie studentesse. Come lacrime sull’inchiostro di una lettera, quelle incursioni nella loro intimità offuscavano il dibattito su Nabokov.”
In che modo la letteratura aiuta a trovare le parole per articolare la realtà, quano questa si riduce a una finzione creata dallo sguardo di qualcun altro?
Cosa può la letteratura nell’urgenza della vita? E in che modo questa aiuta a trovare le parole per articolare la realtà, quando la realtà si riduce a una finzione creata dallo sguardo di qualcun altro? “Curiosamente, i romanzi in cui ci rifugiavamo ci portavano a mettere in discussione proprio quella realtà che ci sembrava di non riuscire neanche ad articolare.” In una cultura che nega qualsiasi valore alle opere letterarie, a meno che non servano a sostenere l’ideologia, in cui tutto deve passare al vaglio della censura, leggere scrittori “non rivoluzionari” come James, Nabokov, Virginia Woolf, Jane Austen e Joyce, così come Hafez e Le mille e una notte, può diventare un atto di libertà, un desiderio istintivo di lottare “contro la forma sbagliata delle cose”, un tentativo di auto-definirsi a partire dal proprio sguardo.
La scelta di Nabokov non è casuale; chi viveva nella Repubblica islamica dell’Iran, scrive Nafisi, era in grado di capire al volo il risvolto tragico e al contempo assurdo della crudeltà descritta nei romanzi di Nabokov: “Nabokov ha colto in pieno cosa significhi vivere in una società totalitaria, in un mondo fittizio e pieno di false promesse dove si è completamente soli e non si è più in grado di distinguere tra salvatori e carnefici. ” Sopravvivere diventa allora quel tentativo di non osservare (e non osservarsi) con le lenti di un censore, sottrarsi per qualche ora a quello sguardo, strappare a un presente incerto piccoli atti di insubordinazione quotidiana, allargare le crepe tra quel salotto e il mondo.
Dall’uscita del romanzo, diverse ondate di proteste hanno attraversato l’Iran, dal Movimento Verde nel 2009 contro i brogli elettorali, che chiedeva la fine della Repubblica Islamica, all’ondata di scioperi e manifestazioni tra il 2017 e il 2019 contro i tagli dei sussidi e l’aumento dei prezzi dell’energia, dovuto all’innalzamento delle sanzioni internazionali, fino a quelle più recenti iniziate a settembre dopo la morte della ventiduenne di origini curde Masha Amini, sotto custodia della polizia religiosa per aver violato la legge sull’hijab, che hanno infiammato le strade di città e province, in particolare nelle regioni curde, storicamente nel mirino del governo. Con un atto di sfida senza precedenti, sempre più donne sono scese in piazza togliendosi il velo e a volte anche bruciandolo in pubblico.
Come scrive Paola Rivetti qui, il corpo delle manifestanti è stato ed è al centro delle proteste: tagliarsi le ciocche in strada, ballare, inscenare coreografie mentre si brucia il velo, baciarsi in pubblico, crea una simbologia del corpo come terreno di conflitto, dove il desiderio mobilita potenti significati politici. “Le immagini circolate sui media di
ragazze che si baciano, di bandiere arcobaleno e trans, di slogan nei dormitori universitari che lanciano messaggi come “questa è la voce di LGBTQ” e “liberazione queer e trans”, e di assorbenti usati per censurare le telecamere di sorveglianza nella metro di Teheran ci raccontano di come il corpo sia politico e collettivo.”
Quel che succede da settembre nelle strade in Iran è di fatto un attacco diretto al potere agito sui corpi delle donne; sia a quello che impone di coprirli con un velo che a quello che, in nome della democrazia, impone di scoprirli (come in alcuni stati liberali in Europa). La politicizzazione del corpo, dell’amore, del desiderio di poter essere altro, continua Rivetti, serve dunque a rivendicare l’essere soggettività politica autonoma, che spesso si interseca qui con altre lotte, come il femminismo, la resistenza del popolo curdo e di quello palestinese.
Il corpo delle manifestanti è stato ed è al centro delle proteste in Iran.
A quattro mesi dalla morte di Mahsa Amini e dopo l’uccisione di più di cinquecento manifestanti e l’arresto di altri sedicimila, il movimento sta iniziando a indebolirsi; arresti di massa ed esecuzioni pubbliche sono tra gli strumenti a cui ricorre il regime per diffondere un clima di terrore che, secondo la giornalista Deepa Parent, sta alimentando “ il fuoco sotto la cenere”. Un’ondata repressiva che colpisce in particolare le classi più disagiate, scrive Jean-Pierre Perrin qui, come dimostrano le esecuzioni a morte dei quattro giovani, accusati di “ostilità contro Dio” e “corruzione sulla Terra”, in seguito a confessioni estorte sotto tortura e ai cosiddetti “processi farsa”, condotti senza avvocati. Tutti e quattro provenivano da contesti svantaggiati: Mohsen Shekari, 23 anni, cameriere; Majid Reza Raznavard, 23 anni (impiccato pubblicamente a una gru a Mashhad, nel nord-est dell’Iran), non aveva un impiego fisso; Seyyed Mohammad Hosseini, 39 anni, era un operaio; Mehdi Karami, 22 anni, figlio di un venditore ambulante. Alla violenza della repressione si aggiunge, per le classi più povere, il costo delle pesanti cauzioni per la liberazione dei familiari incarcerati, che obbligano alcune famiglie a indebitarsi e a ipotecare le loro case, senza contare che mentre in Occidente circolano immagini di donne che camminano senza velo, interpretate come segni di cambiamento, chi vive nei quartieri popolari continua a subire le stesse restrizioni, tra cui l’obbligo d’indossare il velo.
Il repertorio della contestazione, continua Perrin, rimane comunque vasto: gli slogan gridati di notte dai palazzi, i graffiti, le canzoni, la condivisione di esperienze e informazioni sui social network, le petizioni, gli scioperi sono tutte espressioni di una rabbia, che anche se con minore intensità, continua a mantenere vivo quel fuoco sotto la cenere e ad amplificare la memoria della contestazione.
Torniamo ora a Lolita, agli incontri letterari clandestini, a quel bisogno urgente di bellezza e al desiderio di vita contro la spinta mortifera di una realtà costruita a misura di un solo sguardo. A distanza di più di vent’anni dalla sua pubblicazione, il libro di Nafisi sembra aver incubato l’urlo represso di una generazione che avrebbe tuonato da lì a qualche anno; un urlo che, anche sotto il controllo della censura, risuona, più o meno potente, in buona parte di quella narrativa iraniana contemporanea scritta da autori e autrici iraniane che non hanno lasciato il paese. Nella produzione narrativa femminile, in particolare, emergono, più o meno sottotraccia, molte delle problematiche di genere che sarebbero esplose di lì a poco: le relazioni conflittuali tra i sessi, le costrizioni imposte dal giudizio morale e da una società che vorrebbe le donne unicamente mogli e madri esemplari, l’insofferenza per i ruoli a cui questa società le confina, il desiderio di fuga. Come fa notare l’iranista Anna Vanzan, queste scrittrici sono riuscite a creare un linguaggio figurativo, allusivo, denso di simboli ma chiaro, che trascende le regole estetiche dettate da sempre dagli uomini, creando un linguaggio tramite il quale esprimere critiche e dissenso senza incorrere nei tagli del censore e senza però limitarsi alla sola testimonianza.
L’urlo represso della contestazione sfugge alla censura in molta della narrativa iraniana contemporanea di autori e autrici che non hanno lasciato il paese.
Tra le scrittrici tradotte in italiano dal persiano, Fariba Vafi è sicuramente la più autodidatta. Il suo romanzo Come un uccello in volo è uscito in Italia per Ponte33, una casa editrice indipendente che pesca esclusivamente nel bacino di giovani autori e autrici residenti in Iran e che scrivono in persiano, una scelta in controtendenza all’interesse editoriale per la letteratura iraniana della diaspora, nella maggior parte dei casi scritta in inglese e in francese (pensiamo alla stessa Nafisi). Vafi, lontana dagli ambienti letterari della capitale, guardia carceraria, casalinga, nel suo romanzo narra in prima persona la storia di una giovane, casalinga anche lei, che sogna una vita diversa ma non ha il coraggio di lasciare il paese e la famiglia. Nel descrivere il trasloco e l’insediamento in una nuova casa, la protagonista percorre con lucidità un avvicinamento a se stessa e al bisogno di ridefinire il suo ruolo di madre, moglie e figlia.
Fino a quando Amir è in casa non mi è permesso di essere stupida, e allora aspetto che lui esca. (…) La musica viene dalla finestra del quarto piano. Agito le mani, apro le ali, giro vorticosamente su me stessa con lo sguardo alla finestra che adesso non è più uguale alle altre. Chiudo gli occhi e ascolto il mio cuore. Quando li riapro vedo Shahin e Shadi, fermi al centro della cucina, che mi guardano a bocca aperta.
Tra le voci più interessanti della narrativa contemporanea c’è anche quella di Masha Mohebali. In italiano sono usciti due suoi romanzi, entrambi nella traduzione dal persiano di Giacomo Longhi: Non ti preoccupare per Ponte33, in cui una ragazza tossicodipendente in una Tehran minacciata da un terremoto va alla disperata ricerca di una scorta di oppio e del suo amico Ashkan (che con un sms l’avverte di aver tentato per l’ennesima volta il suicidio), e per Bompiani Tehran Girl, che si sviluppa tra continui balzi temporali tra passato e presente della storia dell’Iran e che, grazie alla scrittura schietta, ribalta il cliché della donna oggetto e delle aspettative sociali legate al corpo femminile.
Tracce di un femminismo introspettivo, di quella presa di consapevolezza che apre delle crepe tra sé e il mondo si ritrovano anche in altre opere tradotte dal persiano per Ponte33 come A quarant’anni di Nadih Tabatabai, L’autunno è l’ultima stagione dell’anno di Nasim Marashi e Probabilmente mi sono persa di Sara Salar. A partire dalle relazioni, dai legami familiari, dalle aspettative sociali, si fa strada, nelle vite che popolano questi romanzi, un desiderio di essere altro, di strappare un futuro a un presente soffocante, come soffocante è la Teheran, nell’aria come negli sguardi indiscreti, che in quasi tutti i romanzi fa da sfondo alle storie. Quello che manca, forse, in queste narrazioni è la possibilità di andare oltre l’introspezione e di vedersi come soggetto collettivo, capace di creare legami di solidarietà con altre donne, di provare a spezzare insieme quelle gabbie in cui le costrizioni sociali e culturali confinano, solidarietà che è al cuore delle manifestazioni che da mesi continuano nelle strade, nonostante la brutale repressione, e che mobilita corpi e desideri collettivi.
Queste opere sono tracce di un femminismo introspettivo, di quella presa di consapevolezza che apre delle crepe tra sé e il mondo.
È un uomo sessantenne, invece, il protagonista del romanzo di Soheila Beski Particelle (Ponte33), il quale, sfruttando le opportunità che la sua condizione di maschio gli offre nella società iraniana, fluttua tra le norme sociali e una realtà virtuale dove tutto può essere “svelato rimanendo velati”. Attraverso le sue parole e i suoi atteggiamenti, la scrittrice tratteggia il profilo impietoso di un uomo ancorato a un modello di supremazia maschile, di cui lui stesso riconosce i meccanismi (“essere costretti a diventare qualcuno è un’altra delle punizioni che Dio ha inflitto ai figli maschi di Adamo”) e che sfrutta all’occorrenza nelle sue relazioni familiari ed extraconiugali. Ribaltando il punto di vista, Beski si prende gioco del machismo, dell’omofobia e dell’educazione al possesso con cui molti uomini crescono e che, anche quando ne riconoscono la tossicità, finiscono per accettarla in un ipocrita conformismo.
Altre autrici tradotte del persiano e che vivono in Iran sono pubblicate dalla casa editrice Brioschi nella collana “Gli altri” in cui trovano spazio, oltre ai classici della letteratura persiana contemporanea come Suvashun, primo romanzo scritto da una donna a essere stato pubblicato, e Spengo io le luci dell’acclamata scrittrice di origini armenoiraniane Zoya Pirzad, anche le opere di autrici più giovani come Leyla Qassemi con I giorni che non ho vissuto e Zahra ‘Abdi con A Tehran le lumache fanno rumore. Nel romanzo di Qassemi due donne, Bita e Mahshid, si incontrano dopo molto tempo in occasione del ritorno a Teheran dall’Europa del figlio di Mashid, Omid, amico di infanzia di Bita. Attraverso un lento riavvicinamento, in cui le due donne fanno i conti con incomprensioni passate e con le ferite della guerra contro l’Iraq, Qassemi restituisce il disagio di una generazione, quella di Bita, che la storia ha lasciato orfana di futuro e in cui la fuga rimane l’unica strada percorribile. Anche qui, come nel bestseller di Nafisi, ritorna quel bisogno di storie come rifugio per sopravvivere al presente: Oggi tutti i ragazzi di allora sono degli adulti sognatori che appena si riuniscono iniziano a ripassare i ricordi e a riesumare quelle storie, storie che a volte sono lontane anni luce dalla realtà, ma che amano lo stesso, o forse le amano proprio per questo motivo. Se non ci fosse stato quel mondo non so dove ci saremmo potuti rifugiare. Almeno abbiamo imparato a fuggire, sempre e ovunque.
A Tehran le lumache fanno rumore segna l’esordio letterario di Zahra ‘Abdiun. Un romanzo tenuto insieme da un dialogo a distanza fra tre donne, tutte e tre legate a un uomo, Khosrou, scomparso durante il conflitto fra Iran e Iraq e la cui morte non è mai stata accertata. Un dialogo che rimane un incontro mancato, in cui le voci di una madre, una sorella e una innamorata si sovrappongono al rumore di fondo di Tehran, al suo traffico, ai mercati, ai controlli della polizia, a un’umanità in affanno. Tehran, la megalopoli che non dorme, qui assume le sembianze di una città fantasma, dove strisciano come lumache angosce e solitudini e dove bruciano ancora le ferite lasciate dalla guerra contro l’Iraq.
Quello che sembra accomunare le autrici iraniane cresciute sotto la Repubblica islamica – di cui solo alcuni nomi sono citati qui – è la capacità di far vibrare il presente della società iraniana, portando sulla pagina i temi che la interrogano e la attraversano. In queste opere la denuncia è sfumata, sottesa, e l’immaginario è quello di un Iran che si osserva e si racconta dall’interno, in cui la scrittura è una corda tesa tra creatività, censura e morale. La memoria della guerra fa da sottotraccia a molte opere di queste autrici, dopo anni in cui la narrativa e il cinema post bellici avevano a lungo invisibilizzato il ruolo delle donne nel conflitto. Come fa notare Anna Vanzan, queste scrittrici stanno contrapponendo al canone ufficiale e unidimensionale della letteratura di guerra una narrativa in cui la memoria si mescola a riflessioni, frammenti di vita, considerazioni sul fatto che, per le donne, la guerra non finisce mai, perché si trasferisce dal piano della lotta esterna a quello della lotta quotidiana nella sfera sociale e familiare.
La denuncia è sfumata, sottesa, e l’immaginario è quello di un Iran che si osserva e si racconta dall’interno, in cui la scrittura è una corda tesa tra creatività, censura e morale.
È interessante la collaborazione di molte scrittrici contemporanee con riviste letterarie, come la rivista “Dastan” (“Storie”), su cui compaiono nomi vecchi e nuovi della letteratura persiana accanto a traduzioni di autori internazionali. Il racconto, che gode di una certa fortuna nel paese già dagli anni Sessanta, diventa la forma narrativa adatta a sottolineare e commentare la realtà quotidiana in una lingua più vicina a quella parlata e che, attraverso le riviste, può contare su una diffusione più capillare, dal momento che queste subiscono controlli meno ferrei della censura rispetto ai romanzi.
Oggi le studentesse di Nafisi avranno più di cinquant’anni, qualcuna sarà rimasta in Iran, qualcuna avrà lasciato il paese, magari qualcuna avrà preso parte alle proteste o forse a partecipare saranno state le loro figlie. Riavvolgiamo per l’ultima volta il nastro a quegli incontri clandestini sul rapporto tra realtà e finzione letteraria perché una domanda si fa ora più pressante: perché parlare di narrativa mentre la realtà parla di corpi che, sfidando il potere e mettendo a rischio la vita, vogliono riprendersi pezzi di futuro?
Forse perché, se si è disposti ad ascoltare la voce di chi si racconta con le sue parole e a partire dal proprio sguardo, le storie rendono inutili quei filtri con cui spesso “l’altro” e “l’Oriente” vengono rappresentati e interpretati. Forse perché la letteratura ha tanti linguaggi, ma urgenze comuni, come comune è il grido “donna vita, libertà”, che dalle montagne del Rojava alle strade iraniane, agli striscioni delle manifestazioni femministe in Europa ci ricorda come le ragioni per cui le donne iraniane stanno scendendo in strada in questi giorni ci riguardano da vicino, perché il potere ha tante facce, ma la stessa impalcatura – in Iran come altrove – e la solidarietà sta anche nel riconoscere, in quel grido, l’urgenza comune di distruggerne le fondamenta. È qui, allora, che la letteratura può farsi orecchio teso e insieme urlo, varco che accorcia distanze tra comuni urgenze, ma anche terreno non ancora tracciato in cui – parafrasando Audre Lorde – immaginare, al di là della storia, nuovi possibili incontri.