D iversi anni fa l’azienda di auto-miglioramento Mindvalley organizzò un panel a tema amore e relazioni romantiche, avente come ospiti Esther Perel, psicoterapeuta di coppia, Dan Savage, autore ed esperto di sessualità, e Marisa Peer, sex columnist inglese. A un certo punto, durante la discussione, Peer afferma che, affinché una relazione funzioni, sono necessarie “della chimica da migliori amici e chimica sessuale […] C’è bisogno di entrambe le cose. Credo che il sesso sia il collante che rende una relazione speciale. Ma prima di impegnarti con qualcuno, chiediti: ‘questa persona potrebbe essere la mia migliore amica?’”.
Né Savage né Perel sono d’accordo con Peer: il primo replica che ad essere importante piuttosto è la compatibilità sessuale (che talvolta può ruotare intorno ad un disinteresse per il sesso in sé da parte di entrambi i coinvolti); Perel ribatte affermando che non definirebbe mai suo marito “un migliore amico”, e che diverse amicizie riescono a soddisfare bisogni e condividere interessi che vanno al di là del suo partner. “Il concetto per cui è possibile racchiudere tutto in un’unica persona” è troppo diffuso al giorno d’oggi, afferma Perel. Ne derivano idee come quella secondo cui i partner debbano essere pronti a soddisfare qualsiasi bisogno l’uno dell’altro, o che l’amore adulto debba essere “incondizionato”, come quello di un genitore per il proprio figlio. La mancata presenza di ciò viene percepita come incomunicabilità, disinteresse, incompatibilità – in casi estremi persino come abuso.
La posizione assunta da Perel è coerente con quanto descrive nel suo bestseller L’intelligenza erotica (TEA, 2008), in cui l’autrice si sofferma sulle contraddizioni e ambivalenze tipiche dell’amore romantico: spesso erotismo e intimità appaiono in conflitto tra loro, così come lo sono due bisogni umani fondamentali: da un lato, quello di autonomia e indipendenza; dall’altro, accudimento e unione. “Oggi ci rivolgiamo a una persona per ottenere ciò che un tempo ci veniva fornito da un intero villaggio: un senso di appartenenza, di significato e di continuità. Allo stesso tempo, ci aspettiamo che le nostre relazioni affettive siano romantiche, oltre che emotivamente e sessualmente appaganti. C’è da stupirsi se così tante relazioni si sgretolano sotto il peso di tutto ciò?” scrive Perel. Citando la psicoanalista Nancy Chodorow, Perel sottolinea che le aspettative che mettiamo sui nostri partner (in particolare il desiderio di esclusività sessuale) derivano dalle esperienze di intimità vissute con le figure primarie di riferimento, i genitori, in uno stadio in cui il bambino non conosce separazione o altro da sé. Una ripetizione di quell’illusione di indifferenziazione e fusione tra genitore e bambino verrebbe dunque ricercata nell’età adulta.
A proposito dell’effetto che le esperienze infantili hanno su quelle adulte, in questo contesto si colloca una delle teorie che ha determinato un’influenza rilevante intorno a questi temi: quella dell’attaccamento. Proposta verso la fine degli Anni Sessanta dal ricercatore John Bowlby, di formazione psicoanalitica, la teoria descrive il modo in cui i bambini formano relazioni con i propri genitori (o caregiver); in base alle risposte che i caregiver forniscono ai bisogni del bambino, quest’ultimo mette in atto delle strategie (attivazioni o disattivazioni) per fronteggiare lo stress, e far sì che i propri bisogni vengano soddisfatti. Inizialmente, Bowlby e una sua collaboratrice, Marie Ainsworth, osservando il comportamento di bambini in presenza o assenza dei genitori, identificarono tre stili d’attaccamento: uno sicuro e due insicuri (ansioso ed evitante); contributi più recenti, ne hanno introdotto un quarto, definito insicuro disorganizzato. Con il supporto di numerose pubblicazioni scientifiche, la teoria descrive inoltre come, durante l’età adulta, i modelli cognitivi basati sulle relazioni primarie tendano ad influenzare pensieri, interazioni, e comportamenti nelle relazioni affettive.
Oggi ci rivolgiamo a una persona per ottenere ciò che un tempo ci veniva fornito da un intero villaggio.
In breve, un attaccamento sicuro si determina a partire da caregiver che forniscono risposte puntuali ai bisogni del bambino; non è necessario che questo avvenga in ogni occasione, ma che i caregiver siano – riprendendo un concetto dello psicoanalista Donald Winnicott – “sufficientemente buoni”. Nell’adulto, un attaccamento sicuro implica la capacità di bilanciare tra bisogno di connessione e bisogno di indipendenza, di sentirsi a proprio agio con l’intimità, sviluppando un’opinione positiva di sé e dei propri partner. L’attaccamento ansioso è una reazione (detta di attivazione) a risposte incoerenti o assenti da parte dei caregiver. Durante l’età adulta, questo si manifesta come attaccamento ansioso-preoccupato (o ansioso-ambivalente) e descrive adulti che desiderano alti livelli di intimità e una tendenza alla fusione con il proprio partner. Uno stile evitante si sviluppa quando il bambino mette in atto strategie di disattivazione per far fronte a caregiver noncuranti o soffocanti; nell’adulto, questo corrisponde ad uno stile distanziante-evitante, che prevede un alto bisogno di indipendenza e una tendenza ad evitare l’intimità. Infine, lo stile disorganizzato, che può essere considerato come il risultato dell’insieme di tratti ansiosi ed evitanti, è solitamente tipico di bambini che hanno esperito abusi o altri eventi traumatici, per cui i caregiver, presumibilmente fonte di affetto e protezione, diventano fonte di paura e minacce. Nell’adulto, questo stile d’attaccamento viene detto timoroso-evitante, e determina una forte ambivalenza rispetto alle relazioni intime, con una continua tensione tra timore e desiderio.
Applicare la teoria in modo ragionato permette effettivamente di comprendere alcune dinamiche relazionali per disinnescarle. Nonostante numerosi questionari online promettano di identificare il proprio stile d’attaccamento, è più corretto immaginarli come posti lungo uno o più continuum, tra ansia e evitamento, piuttosto che categorie identitarie fisse, come spiega la psicologa Nicole McNichols, sostenendo anche che è possibile cambiare il proprio stile d’attaccamento nel corso della vita, che è contestuale e flessibile. Un approccio meno cauto viene dal saggio di psicologia pop Dimmi come ami e ti dirò chi sei: Come riconoscere quello giusto e soprattutto come tenertelo (TEA, 2012), in cui gli autori, Amir Levine e Rachel Heller, dopo aver descritto tre stili d’attaccamento (trascurando quello disorganizzato o timoroso-evitante), propongono una serie di consigli e raccomandazioni a partire da esempi di coppie nella loro pratica clinica. Pur costituendo una buona introduzione al tema, il saggio rischia di semplificare difficoltà intrinseche alle relazioni, particolarmente nei primi stadi. Gli autori mostrano nei confronti degli ansiosi – che vengono definiti come aventi “un sesto senso per il pericolo” – comprensione e giustificazione; agli evitanti invece viene riservato un tono dispregiativo, sono descritti come freddi, repressi, egoisti. I due sono chiari sul fatto che a chi ha un attaccamento ansioso è sconsigliato frequentare o avviare una relazione con qualcuno che ha un attaccamento evitante; dopo tutto, mentre i primi cercano e desiderano intimità, i secondi la rifuggono. Piuttosto, viene loro consigliato di trovare una persona “sicura”, che a sua volta potrà renderli sicuri: il libro è pieno di esempi stereotipici di persone categorizzate come “ansiose” che, dopo aver trovato la forza di lasciare il partner “evitante”, trovano la felicità con uno sicuro. Nel descrivere una tipica dinamica per cui un partner è ansioso e l’altro è evitante, i due promettono soluzioni restando pessimisti: solitamente, a loro avviso, è l’ansioso a doversi adattare e scendere a compromessi, e complessivamente c’è poco da fare. Assecondando un bisogno di difendersi da incertezze e ambiguità, gli imperativi sembrano essere: non perdete tempo, siate felici, perché la felicità è altrove e ve la meritate.
Ma soluzioni drastiche di questo tipo potrebbero non essere una risposta. Incertezze e ambiguità non sono rare nelle relazioni romantiche, un contesto che ci espone a profonde vulnerabilità. Nelle parole di Perel:
L’ambivalenza esiste in tutte le configurazioni relazionali, ma mettiamo particolare pressione sull’amore romantico affinché non vi sia. Ci viene insegnato che l’amore è incondizionato, che la passione è assoluta, e che trovare ‘quello giusto’ dovrebbe toglierci ogni dubbio. Ma le relazioni non sono mai ‘bianco o nero’. Impariamo che l’amore romantico dovrebbe inondarci di certezze e che quindi non c’è spazio per l’ambivalenza. Ma l’ambivalenza è intrinseca alle relazioni così come all’amore stesso
In un episodio del suo podcast Where Should We Begin – in cui racconta sessioni di counselling con coppie o singoli alle prese con problemi relazionali – Perel si trova alle prese con una coppia di uomini in relazione da dieci anni. Entrambi con una storia simile – fatta di abusi genitoriali e immigrazione da un altro paese – sono cresciuti insieme e si sono aggrappati l’un l’altro, creando un’unione solida per darsi sicurezza a vicenda. Quando si rivolgono a Perel, uno dei due, più socievole ed estroverso, desidera uscire e passare del tempo indipendentemente dal partner, che è invece introverso ed ansioso rispetto al separarsi: vorrebbero emanciparsi, ma il rischio è quello di riattivare ferite legate all’abbandono che entrambi portano con sé. Non solo la differenza di personalità che li ha attratti inizialmente diventa fonte di conflitto, ma soprattutto, come spiega Perel, “ogni coppia deve negoziare separazione e unione. È probabilmente uno dei compiti principali di una relazione. Cos’è ‘io’ e cos’è ‘noi’? Ma poiché tutti abbiamo bisogno di connessione e indipendenza, a volte in una relazione accade che una persona abbia paura di perdere l’altra. E che l’altra abbia più paura di perdere sé stessa”. Non è un caso allora che la dinamica ansioso-evitante si verifichi così di frequente.
Riprendendo Perel, la psicoterapeuta Jessica Fern, autrice di Polysecure: Attachment, Trauma, and Consensual Nonmonogamy (2020), in cui si occupa di colmare il vuoto nella letteratura su attaccamento e relazioni non-monogame, precisa che gli stili d’attaccamento insicuri non sono soltanto delle strategie di sopravvivenza in risposta a problemi relazionali, ma espressioni dei bisogni di autonomia e connessione. In questo senso, una persona “ansiosa” potrebbe essere più propensa a inseguire connessione, unione e intimità, mostrando buone capacità di empatizzare con le emozioni altrui e instaurare relazioni interpersonali solide. Una persona “evitante” valorizzerà maggiormente indipendenza e autonomia, sarà in grado di mantenere la calma, di auto-regolare le proprie emozioni, e di affrontare problemi pratici e logistici. Tuttavia, ci sono conseguenze date dall’eccesso di una tendenza o l’altra: troppa vicinanza può portare ad una fusione, troppa distanza rende impossibile una connessione.
La teoria dell’attaccamento descrive come i modelli cognitivi basati sulle relazioni primarie con i genitori tendano a influenzare interazioni e comportamenti nelle relazioni affettive durante l’età adulta.
In casi come quello della coppia in consulenza da Perel, in cui alcuni bisogni dei partner non sono allineati, si tende spesso a suggerire ai due di lasciarsi, o ancora, a demonizzare il partner “evitante”, spesso etichettato come freddo e inaccessibile, o quello “ansioso”, definito eccessivamente bisognoso e dipendente. Sono vari i messaggi pop che rinforzano questa tendenza: basti pensare alla quantità di magliette in vendita con su scritto “DUMP HIM!” (mollalo!), ai consigli di “psicoterapia” dei caroselli su Instagram, o alle liste infinite di red flag che un partner non dovrebbe assolutamente avere. In realtà, vi sono tanti fattori che possono complicare il modo in cui i partner esperiscono la propria relazione. Ne parla la scrittrice canadese Clementine Morrigan in Love without Emergency (2019), in cui riflette sul suo passato di traumi – tra cui incesto, abusi sessuali, alcolismo, violenza domestica – e l’influenza che hanno avuto sulle sue relazioni adulte, inclusa la difficoltà nel gestire il poliamore. Identificandosi prima con lo stile ansioso-preoccupato – e successivamente con quello disorganizzato nel secondo volume, Love without Emergency #2 (2022) – Morrigan racconta come questo le faccia vivere le relazioni e l’amore come un’“emergenza”: la convinzione che la relazione stia per finire da un momento all’altro, l’aspettativa di essere ferita o tradita, la ricerca di segnali di pericolo; espressioni del viso, linguaggio del corpo, la punteggiatura nei messaggi – il minimo indizio viene percepito come segnale che il partner la stia per abbandonare.
Traendo spunto da The Power of Attachment della psicoterapeuta Diane Pool Heller, Morrigan sottolinea come tanta letteratura sull’attaccamento mostri un approccio pessimista verso le coppie con una dinamica ansiosa-evitante. In verità, gli evitanti non sono dei mostri, freddi, distanti, insensibili, ma persone che hanno imparato a distaccarsi per restare al sicuro. La soluzione, quindi, non è incolparsi a vicenda, visto che entrambi i partner contribuiscono alla dinamica, ma mostrare curiosità nei confronti delle proprie storie. Morrigan si sofferma inoltre sulla sua ambivalenza rispetto all’intimità, a volte desiderata e ricercata, altre volte temuta ed evitata. Se rapportati ad esperienze come la sua, è evidente che messaggi come solo sì significa sì! o se non si è sicuri di qualcosa, non la si vuole veramente, diventano vacui e poco utili: “la verità è che il mio ‘sì’ interiore è spesso ambivalente […], un misto di desiderio, stress, e paura”.
Ciò che accomuna molti testi sull’attaccamento è la promessa o il desiderio di stabilire un attaccamento sicuro con i propri partner. Ma di fatto, ci può essere un prezzo da pagare per raggiungere uno stato di “sicurezza” all’interno della propria relazione. Non è raro che molte coppie si trovino in difficoltà dopo anni passati insieme: paradossalmente, all’aumentare di sicurezza e intimità, corrisponde una diminuzione del desiderio. Intimità, affetto, unione, connessione, sono desiderabili in una relazione, ma lo sono anche eccitazione, avventura, sessualità, novità, curiosità. Un altro punto poi è che l’amore “sicuro” potrebbe essere l’ennesima illusione. Quest’ultimo, continua Perel in L’intelligenza erotica, è per natura instabile; cerchiamo di addomesticarlo, di renderlo prevedibile, creare routine, con la promessa che in ultimo ci difenda da insicurezze e incertezze; ma noia e insoddisfazione sono l’effetto collaterale di stabilità e sicurezza. Il desiderio, invece, “è alimentato da ciò che non conosciamo, e per questo motivo è intrinsecamente ansiogeno”.
Non è infrequente allora che i partner finiscano per tradirsi. È difficile stimare con esattezza la prevalenza del tradimento – comportamento verso cui, complice il vento neo-puritano proveniente dagli Stati Uniti, siamo probabilmente diventati più severi, nonostante la nostra cultura, tra derisione delle “corna” e tradizionalismo spinto non abbia mai mostrato particolare tolleranza a riguardo. Perel parla di stime secondo cui il tradimento riguarderebbe tra il 26 e il 75% delle coppie – questo perché la definizione di “infedeltà” continua ad espandersi (cos’è “infedele”: fare sesso con altri, baciarsi, flirtare, fare sexting?). Considerato da molti la cosa peggiore che possa succedere in una relazione (argomentazione che qualche anno fa Irene Graziosi ha messo in discussione), secondo Perel il tradimento appare ancora più imperdonabile in un contesto in cui culturalmente siamo propensi a pensare che abbiamo superato tutte le ragioni affinché succeda, in cui “il perfetto equilibrio tra libertà è sicurezza è stato ottenuto”. C’è da chiedersi dunque il motivo per cui, nonostante sia stigmatizzato, accada così di frequente: secondo Perel, per quanto doloroso per chi lo subisce, può essere un modo per riappropriarsi della propria autonomia e bisogno di esplorazione, al di là di un’ipotetica insoddisfazione relazionale o sessuale. Nel suo memoir, Le regole non valgono (Bompiani, 2018), la giornalista Ariel Levy, nel ripercorrere il momento in cui tradisce la moglie con Jim, un suo ex, ricorda come ciò la facesse sentire viva, in contrasto alla stabilità del suo matrimonio: “Mi facevo un giro emozionante sul ponte di Manhattan nella metro B e guardavo la Statua della Libertà fuori dal finestrino, sentendomi stupenda, infida, lasciva, spacciata. […] Potevo essere sposata, ma avere completamente una seconda vita, in un quartiere diverso, con un’altra persona, con la quale avevo ben poco in comune, a parte il desiderio”.
Ciò che accomuna molti testi sull’attaccamento è la promessa o il desiderio di stabilire un attaccamento sicuro con i propri partner.
Ci viene spesso detto inoltre che le relazioni richiedono del “lavoro”, come fa notare la critica Laura Kipnis in Contro l’amore: una polemica (Einaudi, 2003). Ma a quel punto, si chiede Kipnis, “che differenza c’è tra lavoro e ‘dopo-lavoro’? […] L’etica del lavoro è riuscita a penetrare in tutte le sfere dell’esistenza umana”, tant’è che persino il tempo libero e il piacere richiedono impegno e sacrifici: diligenza costante, routine e alienazione, regole e divieti. O ancora, come spiega Carrie Jensen in Sad Love: Romance and the Search for Meaning (2022), siamo abituati a pensare all’amore in termini di gioia infinita e soddisfazione, da un lato, o dolore estremo e turbamenti, dall’altro: le relazioni dovrebbero renderci felici, altrimenti ci sentiamo di aver fallito. E se uno dei partner è depresso? Provare tristezza o rabbia implica che non ci si ama veramente? Al contrario, ciò che sostiene Jensen è che le difficoltà dell’amore non solo sono inevitabili, ma fanno anche sì che ne valga la pena.
“Vogliamo un compagno che sia come una famiglia, e un amante che sia esotico, che ci sorprenda. Vogliamo avventurieri giovani e madri di mezza età. Vogliamo intimità e autonomia, sicurezza e stimoli, rassicurazioni e novità, comodità ed emozioni. Ma non possiamo avere tutto”, continua Levy nel suo memoir. E se invece ci fosse un modo per ottenerlo? Ciò implicherebbe una via di mezzo tra l’idea che le relazioni richiedano del “lavoro” e quella per cui sesso e amore debbano essere “spontanei”, evitando nel frattempo di deumanizzare i genitori e di creare ansia e timori rispetto a stili genitoriali normali, come avverte la psicoterapeuta Seerut Chawla. Lo stesso vale per quel senso di impotenza e di rancore nei confronti dei propri genitori che può essere causato dalla ricerca ossessiva del “Bambino Interiore” – già criticata da Robert Hughes – e delle cause che ci hanno reso in un modo oppure in un altro. È per questo che L’intelligenza erotica di Perel, pur essendo stato scritto quasi quindici anni fa, risulta tutt’oggi puntuale. In un vasto insieme di consigli relazionali online, guide al dating, caroselli su Instagram di psicologia pop, e rubriche sul sesso che promettono una soluzione facile ai nostri problemi amorosi, Perel ci ricorda che l’ambivalenza, i problemi d’attaccamento, la tensione tra il bisogno di autonomia e quello di intimità, non sono problemi da risolvere, ma paradossi da gestire.