Q uando lo scorso primo gennaio un uomo armato di Ak-47 ha massacrato in un club di Istanbul trentanove persone che festeggiavano il capodanno (ferendone altre settanta), l’Asia Centrale è improvvisamente comparsa nelle cronache di tutto il mondo. Da subito, le autorità turche hanno infatti seguito una pista che portava in quella regione che va dalla Cina occidentale all’Iran, per accusare prima un generico uiguro, poi un kirghizo e quindi un uzbeko, il 34enne Abdulkadir Masharipov, che avrebbe però avuto sostegno supporto logistico da altri cittadini centro-asiatici.
Il rinnovato interesse per quell’area e per il continuo mix etnico, culturale, religioso che avviene nei crocevia lungo l’antica (e moderna) Via della Seta, non devono però nasconderci che parlare genericamente di “Asia Centrale” può indurre a cliché e generalizzazioni, data l’estrema complessità storica, politica e sociale della regione. Ciò nonostante, esistono similitudini nella storia recente dei cinque Paesi maggiori dell’Asia Centrale – Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan – che ci suggeriscono alcune tendenze condivise.
Il primo elemento è il condiviso passato sovietico da cui, con la dissoluzione dell’Urss nel 1991, nascono le repubbliche indipendenti. Il secondo è l’emergere proprio dalle macerie dell’Unione Sovietica di un ceto politico locale di “uomini forti” che ha contraddistinto il successivo quarto di secolo. Il terzo è il risorgere di una versione contemporanea del Grande Gioco ottocentesco di cui scriveva Peter Hopkirk a inizio anni Novanta. Un Grande Gioco che però oggi non si svolge più tra due giocatori – Russia e Gran Bretagna – ma si è allargato a tre: Russia, USA e Cina. Il quarto elemento è il modo in cui le élite locali si sono inserite in questo scenario, interagendo con le potenze globali al fine di garantire la propria permanenza al potere. Infine, ecco la comparsa della minaccia jihadista, che affonda le radici nel collasso post-sovietico, passa attraverso la guerra afghana e si aggiorna con le più recenti vicende iracheno-siriane.
L’età sovietica
Una storia recente dell’Asia Centrale potrebbe avere tante date d’inizio. Ne sceglieremo una: 1991, crollo dell’Unione Sovietica. Nei decenni precedenti quell’anno fondamentale, si era imposto in tutta l’Asia Centrale un ceto di leader locali che traevano potere tanto dalla benevolenza di Mosca quanto dalla costruzione di una rete di carattere clientelare sul proprio territorio. Erano tutti personaggi cresciuti nel sistema, succeduti ai rivoluzionari genuinamente patriottici della prima ora, che avevano preso alla lettera i propositi sovietici sull’autodeterminazione del 1917 per poi essere decimati dalle purghe staliniane negli anni Trenta. Il ceto che comanda dagli anni Quaranta all’avvento di Gorbaciov, a metà degli anni Ottanta, è invece “nativo“ ma prono alle esigenze dell’impero: esempi in questa direzione sono l’accettazione sul proprio territorio della devastante monocoltura del cotone che deve alimentare il tessile sovietico, così come dei test nucleari.
Rashidov (Uzbekistan) e Kunaev (Kazakistan) sono i rappresentanti più significativi di questa generazione che, giusto a ridosso della perestroika, esce di scena, non senza avere creato un sistema clientelare che – dal nome del primo – nella cultura popolare prende addirittura il nome di rashidovcina: una fedeltà assoluta agli obiettivi dell’Unione Sovietica a scapito degli interessi locali in cambio di benefici per il proprio clan. Ma l’Unione Sovietica non è solo una potenza rapace in senso colonialista classico. In Great Games, Local Rules, Alexander Cooley parla di una vera e propria politica dirigista che arriva da Mosca: si introducono in Asia Centrale nuove industrie, si sviluppano settori economici prima assenti e si fanno partecipare i quadri locali ai livelli più alti dell’amministrazione sovietica centrale.
A fine anni Ottanta, Gorbaciov si rende conto con un certo stupore che all’interno di un contesto formalmente sovietico sta nascendo una cleptocrazia con caratteristiche nazionali. Lancia così una campagna anticorruzione, simile in tutti gli Stati centroasiatici, che punta a sostituire i satrapi locali. È questo per esempio il caso della rimozione del kazako Kunaev per mettere al suo posto il russo Kolbin (1986), che cerca di fare piazza pulita della rete di connivenze. Ma di fronte allo scollamento dell’impero, le montanti proteste della componente nazionalista kazaka contro “il russo” inducono Mosca a richiamare Kolbin nel 1989 per sostituirlo con Nursultan Nazarbaev. Che oggi, 2017, è ancora il presidente del Kazakistan.
Le repubbliche centro-asiatiche sono le ultime a staccarsi dall’Unione Sovietica, tutte subito dopo il tentato golpe contro Gorbaciov dell’agosto 1991. Il 31 agosto, l’Uzbekistan proclama l’indipendenza, eleggendo a presidente nel dicembre successivo Islam Karimov, già segretario del Partito locale, membro del Politburo e presidente della repubblica uzbeka sovietica. Karimov è stato ininterrottamente al potere fino alla morte, avvenuta lo scorso 2 settembre.
L’ascesa dell’uomo forte
Quando nel dicembre 1991 si forma la Comunità di Stati Indipendenti (Csi) – il “commonwealth” ex sovietico – su cinque neonate repubbliche centro asiatiche, ben quattro hanno al comando un membro della vecchia élite comunista: oltre a Karimov e Nazarbaev, ci sono Saparmurad Niyazov in Turkmenistan e Imomali Rakhmonov in Tagikistan. Solo Askar Akaev, il neo presidente kirghizo, è un ex fisico nucleare non appartenente alla nomenklatura di livello più alto, ma anche lui aveva già occupato ruoli politici a livello locale (tra cui quello di presidente “di compromesso” al tramonto dell’era sovietica, nel 1990).
Oltre alla leadership, anche il ceto politico e la struttura burocratica restano perlopiù quelle sovietiche. I partiti al potere sono il vecchio Partito comunista che si è dato un nome nuovo in Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan. Per evitare il collasso economico e politico, ma anche morale e umano, bisogna tenere in piedi ciò che ancora regge. In Tagikistan, scoppia quasi immediatamente la guerra civile e il satrapo Rahmonov, rafforzato dalle truppe della Csi, appare da subito soluzione ben più auspicabile dei fondamentalisti islamici proliferati nella situazione di anarchia post-sovietica. In realtà, la guerra civile tagika è un conflitto tra il vecchio sistema di patronaggio sovietico appoggiato da Mosca e un coacervo di islamisti, nazionalisti e gruppi etnici che parlano le lingue del Pamir, uniti sotto la sigla dell’Opposizione Tagika Unita. Alla fine, dopo un conflitto che fa centomila morti, le truppe del generale Piankov riportano l’ordine e nel 1997 si arriva a un trattato di pace, con un buon numero di combattenti ribelli integrati nell’esercito regolare.
La soluzione scongiura uno scenario “alla afgana”, facendo tirare un respiro di sollievo non solo ai tagiki anti fondamentalisti, ma anche alla componente laica di tutte le neonate repubbliche circostanti. Certo, ogni Paese cerca poi di creare un proprio esercito, ma la perdurante tutela russa non è poi vista così male. In Asia Centrale si impone così quasi ovunque l’uomo forte che, senza troppi complimenti, reprime le opposizioni, siano esse islamiche o meno. In Tagikistan, Rahmonov è al potere ancora oggi. La grande differenza rispetto all’epoca sovietica è che dagli anni Novanta in poi ogni singola repubblica agisce per interesse proprio e non per quello di un impero sovranazionale, giocando su più tavoli: Russia, Stati Uniti, Cina.
Tuttavia, per tutto il corso degli anni Novanta l’Asia Centrale non è considerata così strategica dai grandi player internazionali. La Russia continua a essere la potenza dominante, quasi per inerzia, mentre gli Stati Uniti sono più interessati all’allargamento della Nato in Europa Orientale. Quanto alla Cina, se il Turkestan russo si «libera» con il crollo dell’Urss, quello cinese – lo Xinjiang – resta saldamente nelle mani di Pechino e, negli anni Novanta, vede crescere di numero la popolazione han, non musulmana, a circa il 40 per cento del totale. Gli uiguri cinesi vengono gradualmente “abbandonati” dai dirimpettai ex sovietici, con i quali, oltre alla religione, condividono anche forti legami etnici, perché i nuovi Stati sorti dalle ceneri dell’Urss cominciano a intrattenere rapporti ufficiali con Pechino, a partire dal viaggio nelle repubbliche centro-asiatiche del premier cinese Li Peng nell’aprile del 1994. La Cina risolve infine le proprie questioni di confine con le neonate repubbliche attraverso un accordo del 1996 (“Shanghai Five”, con Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan).
In questa fase, più o meno tutti gli osservatori – e probabilmente anche le cancellerie – sono concordi nel giudicare l’Asia Centrale “in naturale transizione” verso il binomio liberaldemorazia-economia di mercato. Con le riforme dettate dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, l’economia pianificata lascia repentinamente il posto alle ricette neoliberiste che, innestandosi in un ambiente ad alto tasso di corruzione, cominciano a creare sacche di povertà e diseguaglianza, mentre i Paesi ricchi di gas e petrolio, come il Kazakistan e il Turkmenistan, fanno accordi con le grandi corporation globali. Il difficile accesso al promettente bacino del Mar Caspio – non collegato via mare con i grandi mercati degli idrocarburi – getta tuttavia già le basi per quella versione tutta moderna del Grande Gioco ottocentesco che è la disfida dei gas/oleodotti: condiziona ancora oggi la politica regionale, fino al Medio Oriente e al Mediteraneo, da un lato, e alla Cina dall’altro.
La “Nato d’Oriente”
La vera svolta si ha però con la salita al potere di Vladimir Putin in Russia (2000) – che da subito svolge una politica più assertiva sia sul piano domestico sia su quello internazionale del predecessore Eltsin – e con gli eventi dell’11 settembre 2001. La guerra in Afghanistan fa sì che gli Stati Uniti entrino prepotentemente nella regione, ma fin dal giugno precedente l’accordo Shanghai Five del ’96 si era trasformato nella Shanghai Cooperation Organization (Sco) – “la Nato d’Oriente” – con l’aggiunta dell’Uzbekistan agli originari cinque membri. L’Asia Centrale torna al centro di un rinnovato Grande Gioco. In questo scenario, le elite al potere nei cinque Stati centro asiatici cercano di sfruttare al massimo la situazione e cominciano a firmare accordi di sorvolo, rifornimento ed approvvigionamento con Washington, mentre Russia e Cina si fanno sempre più sospettose delle sbandierate dichiarazioni statunitensi di voler utilizzare l’Asia Centrale solo come retroterra strategico per la missione afghana.
Le preoccupazioni internazionali per il radicalismo islamico giustificano le politiche dei “nuovi Khan” centro asiatici. Islam Karimov, in Uzbekistan, stipula con Washington un accordo che consente agli americani di utilizzare la vecchia base sovietica di Karshi e Karabad (nota come K2), nel sud del Paese, a soli 90 miglia dal confine afghano. Oltre a creare il “Camp Stronghold Freedom”, agli statunitensi viene concesso il sorvolo del territorio uzbeko e l’utilizzo di alcune installazioni ausiliarie (ma questo viene tenuto segreto). Nel frattempo, Islam Karimov usa la Global War On Terror (Gwot) di Bush come pretesto per imprigionare circa 10mila oppositori politici – più di tutti gli altri Stati centro asiatici messi insieme – e collabora sia con la Cia sia con i russi (nella Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, Otsc) e i cinesi (nella Sco). L’obiettivo di conservare il potere, comune a tutti i governi centro-asiatici, fa sì che gradualmente la guerra al terrorismo islamico diventi anche repressione del dissenso, il che mette in forte imbarazzo gli Stati Uniti. Nel maggio del 2005, le forze di sicurezza uzbeke aprono il fuoco contro una folla che protesta contro la misere condizioni di vita e uccide 190 persone (versione ufficiale, molte di più secondo fonti indipendenti) ad Andijan, nella inquieta valle di Fergana. Washington, pressata dai partner occidentali, chiede una inchiesta indipendente ma al tempo stesso cerca di tenere in piedi il trattato di sicurezza con l’Uzbekistan. Russia e Cina, invece, non vanno per il sottile e approvano l’operato del governo di Tashkent.
Una nuova via della seta
Il 2005 è un anno fondamentale. Una “rivoluzione colorata” in Kirghizistan fa cadere il governo Akaev. Gli succede Kurmanbek Bakiyev, considerato più sensibile alle esigenze USA. Questo evento, insieme ai fatti di Andijan, creano allarme tra i leader centro-asiatici. Il timore è che gli Stati Uniti abbiano cominciato un’operazione di “regime change” in tutta l’area. Nell’estate del 2005, dopo che delegazioni di Washington hanno incontrato rappresentanti dell’opposizione uzbeka, Karimov comincia a chiedere un affitto sempre più alto per la base K2 e la partnership strategica tra USA e Uzbekistan entra in crisi. Il 29 luglio, le autorità di Tashkent comunicano all’ambasciata statunitense che le forze di stanza a K2 devono lasciare la base entro 180 giorni. Nel novembre, l’Uzbekistan entra formalmente nell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva a guida russa e Karimov proclama che la Russia è sempre stato il partner naturale dell’Uzbekistan sulle questioni di sicurezza.
All’indomani di questo segnale inequivocabile, gli Stati Uniti scelgono di chiudere entrambi gli occhi verso le politiche interne dei Paesi centro-asiatici e si mettono al lavoro per sviluppare il “Northern Distribution Network”, una rete logistica che deve rifornire le truppe in Afghanistan – ma solo di materiale non bellico – concepito in alternativa a quello che, a sud, passa per un Pakistan sempre meno stabile e sicuro. Sono tre i percorsi principali: uno muove dai porti baltici, attraversa la Russia e poi Kazakistan e Uzbekistan prima di arrivare in Afghanistan; il secondo parte dalla Georgia, attraversa l’Azerbaigian e poi ancora Kazakistan e Uzbekistan; il terzo, dal Kazakistan entra in Kirghizistan e poi in Tagikistan, per entrare poi nell’Afghanistan settentrionale. È una sorta di “Via della Seta all’americana” di cui beneficiano molte compagnie (cargo, logistica) centro-asiatiche e che assume sempre più importanza in parallelo al declinare del rapporto fiduciario tra Stati Uniti e Pakistan, specialmente dopo l’assassinio di Osama bin Laden nel 2011.
E arriviamo quindi a un’altra data fondamentale: 6 aprile 2010, il governo del presidente kirghizo Kurmanbek Bakiyev cade, travolto dalle manifestazioni che hanno percorso il nord del Paese centro asiatico. Giusto un anno prima, Bakiyev era riuscito in un plastico doppio salto mortale. Aveva minacciato la chiusura di una importante base USA vicina alla capitale Biškek – Manas – e aveva quindi incassato sovvenzioni russe proprio al culmine della crisi finanziaria globale, poi si era seduto al tavolo delle trattative con gli americani, aveva strappato altri finanziamenti da loro, e si era rimangiato la chiusura della base auspicata da Mosca. La sua caduta è quindi letta come un successo russo, tant’è che Almazbek Atambayev, il presidente che lo sostituisce e che oggi è ancora in carica, la base USA la chiude davvero. Lì, l’ipotizzato progetto egemonico statunitense – che forse non c’è neanche mai stato – si interrompe.
La democrazia sovrana
Il grande ritorno della Russia putiniana nello scacchiere centro-asiatico – se di “ritorno” si può parlare per chi di fatto non se ne è mai andato – non avviene in forma colonialista classica, così come già avveniva ai tempi dell’Urss. Non controllando più direttamente l’area, quello che la Russia cerca di fare nei primi anni Duemila è di creare istituzioni alternative a quelle USA e al tempo stesso convolgere/controllare l’altro grande player in ascesa, la Cina. La Otsc e l’Unione Doganale Eurasiatica (a cui partecipano Kazakistan e Kirghizistan) sono gli strumenti legali che servono a questo scopo, ma Mosca non disdegna anche la partecipazione alla Sco cinese (nonché alla più recente Asian Infrastructure Investment Bank, Aiib, che è lo strumento finanziario con cui Pechino intende veicolare investimenti nella “sua” Via della Seta).
Prima della crisi ucraina, Mosca ha anche cooperato con gli USA in funzione anti-jihadista, offrendo per esempio i corridoi necessari all’approvvigionamento delle truppe di stanza in Afghanistan. Se la vicenda di Manas è del 2010, ancora nel 2011 il viceministro degli Esteri Kirasin dichiara alla Duma che la Russia non intende svolgere un ruolo esclusivo in Asia Centrale, bensì cooperare con l’Occidente. Insomma, potenza egemone ma non esclusiva, così si concepisce la Russia. Per mantenere questo status ed esercitare il suo tradizionale soft power sulle repubbliche centro-asiatiche, Mosca deve continuare a tutelarle senza pretendere di rappresentarle nelle sedi internazionali o di frapporsi tra loro e Cina o Stati Uniti. È un Grande Gioco che non deve sembrare tale, quello russo. Funzionale a questa strategia sono gli investimenti, che però subiscono un calo dopo la crisi finanziaria del 2008-2009. Il crollo dei prezzi delle materie prime dà un brutto colpo all’economia russa e per la prima volta, nel 2008, il volume del commercio tra Cina e Asia Centrale supera quello con Mosca (quasi 25 miliardi di dollari e un po’ meno di 20, rispettivamente). Situazione peggiorata poi dalle sanzioni comminate internazionalmente alla Russia nel 2014 a causa della vicenda ucraina. Tuttavia, c’è un comune sentire tra i “khan” centro-asiatici e la leadership di Mosca che si sostanzia in una formula: “democrazia sovrana”, il modello coniato al Cremlino, che rivendica un concetto di democrazia non più universale, bensì diverso da nazione a nazione. C’è comunanza di vedute. E in nome della specificità intangibile di ogni Paese, anche la Cina può tranquillamente sottoscrivere.
Mentre la Via della Seta statunitense è funzionale alla guerra in Afghanistan, c’è un altro progetto, di portata più ampia, che sta per nascere. Il presidente cinese Xi Jinping lancia ufficialmente Obor (One Belt One Road, Yi Dai Yi Lu in cinese) nel settembre-ottobre 2013, durante una serie di viaggi in Asia Centrale. È la nuova Via della Seta e nella sua versione terrestre – c’è anche quella marittima – e consiste in un network di infrastutture materiali (strade, ferrovie, ponti, hub commerciali, gasdotti e oleodotti) e immateriali (reti informatiche e relazioni politiche) che attraversa proprio l’Asia Centrale per giungere fino all’Europa. Considerata la prima vera proposta politica che la Cina fa al mondo centro-asiatico, Obor ubbidisce al principio win-win che caratterizza tutta la politica estera di Pechino: rapporti commerciali di cui beneficino tutti i contraenti. Non c’è intromissione nelle vicende interne altrui, la Cina fa affari con il legittimo governo in carica, qualunque esso sia, anche perché pretende che nessuno si intrometta nei propri, di affari domestici. L’esigenza di sicurezza per l’intera regione – la stabilità è per i cinesi la precondizione irrinunciabile e necessaria alla crescita – è assicurata dalla Sco, ai tempi della prima penetrazione di Pechino in Asia Centrale. Lato cinese, questo significa soprattutto collaborare con i governi dell’area per controllare e reprimere il separatismo uiguro.
Il 2008, proprio in concomitanza con la crisi finanziaria globale, è l’anno in cui come si diceva gli investimenti cinesi in Asia Centrale superano quelli russi, per una presenza sempre più massiccia non solo di denaro, merce e opere, bensì anche di forza lavoro. Sulla rinnovata Via della Seta, la Cina infatti esporta non solo capitali e la propria oversupply di acciaio e cemento, bensì anche le proprie produzioni manifatturiere e quei lavoratori che sempre meno trovano collocazione in patria. Dall’area, importa soprattutto materie prime. Questo commercio diseguale può creare potenziali conflitti. Inoltre, Pechino deve sempre tirare il freno a mano nel proprio slancio lungo la direttrice contro-asiatica per non irritare il convitato di pietra russo, che economicamente ha argomenti meno solidi da far valere. A fine agosto 2016, un attentatore suicida forza con un automobile l’ingresso dell’ambasciata cinese a Biškek, in Kirghizistan, e si fa saltare in aria. È l’unica vittima. La versione ufficiale riconduce l’attentato al separatismo uiguro, ma le perplessità sono diffuse, soprattutto perché la comunità originaria dello Xinjiang, quando si stabilisce al di là del confine è sotto i riflettori di ben tre servizi segreti: quello del Paese centro-asiatico in cui si trova, quello russo e quello cinese.
Jihadismo di ritorno
In Asia Centrale permane, come negli anni Novanta, un diffuso utilizzo del jihadismo come giustificazione per applicare politiche repressive da parte delle elite al potere. Qui bisogna distinguere tra presenza di islamisti centro-asiatici nei conflitti mediorientali (Siria, Iraq) e comparsa di cellule jihadiste negli stessi Paesi dell’Asia Centrale. Storicamente, i gruppi più importanti dell’area sono l’Islamic Movement of Uzbekistan (Imu) e il Turkistan Islamic Movement (Tim) – già East Turkestan Islamic Movement, di matrice uigura. Il primo, fondato nel 1998, ha operato in Afghanistan al fianco dei talebani e poi, dopo la caduta del loro regime a Kabul a seguito dell’invasione USA, è riparato nelle aree tribali del Pakistan. Nel 2014, la sua leadership ha aderito allo Stato Islamico e, nel contesto della competizione per la leadership nel jihadismo globale, ha subito così l’attacco dei talebani che ne hanno decimato le forze. La scorsa estate, una nuova fazione interna ha giurato di nuovo fedeltà ai talebani e ad al Qaeda, denunciando l’Isil. I suoi effettivi sono oggi stimati sui 200-300 combattenti da parte del dipartimento di Stato USA.
Le più recenti notizie sul Turkistan Islamic Movement arrivano invece dalla Siria dove, secondo diverse fonti, il movimento che in origine aveva un’agenda nazionalista uigura – l’obiettivo era la separazione dalla Cina – ha abbracciato l’estremismo islamico. In qualche modo si è globalizzato. Adesso l’obiettivo non sarebbe più semplicemente la separazione del Turkestan orientale (Xinjiang) dalla Cina, bensì la creazione di uno Stato islamico in Asia Centrale. Non sono noti i suoi effettivi. Lanciando l’allarme perché i rovesci dell’Isis in Medioriente starebbero provocando un rientro di combattenti centro-asiatici nei Paesi d’origine, un articolo di The Diplomat dello scorso luglio forniva i numeri della loro presenza in Iraq e Siria: 500 kirghizi, 400 kazaki, 1300 tagiki, 400 turkmeni, 1500 uzbeki (questi ultimi, comprendendo anche il conflitto afghano). Sono tutti dati forniti dai servizi di sicurezza di ciascun Paese o dall’International Crisis Group (Icg). È, quest’ultimo, un think tank che si definisce “indipendente” ma di cui è arduo affermare l’effettiva autonomia. È stato infatti fondato, con finanziamenti di George Soros, da Morton Isaac Abramowitz – ex diplomatico USA, fautore della cosiddetta “esportazione della democrazia” – e da Mark Malloch Brown, ex ministro britannico e vice presidente della Banca Mondiale, nonché vice presidente della Open Society che fa capo allo stesso Soros. Ma qui conta di più sottolineare che l’Icg usa a sua volta dati dei servizi di sicurezza centro-asiatici.
Una trentina di studiosi dell’Asia Centrale ha firmato a inizio 2017 una lettera aperta accusando di lacune metodologiche e di pregiudizi proprio gli studi dell’Icg che, dicono, oltre a basarsi quasi esclusivamente sui rapporti dei servizi di sicurezza centroasiatici, quasi mai ricorrono a dati statistici. Gli assunti più criticabili, secondo gli studiosi, sarebbero quelli per cui la diffusione della religione islamica sarebbe un “problema” collegato alla sostanziale arretratezza della regione e il ritorno a forme di islam molto rigoroso in tutta la regione sarebbe la base naturale del jihadismo. Nessun dato oggettivo stabilisce questi rapporti di causa-effetto, mentre i firmatari concordano nel sostenere che i fenomeni di rivolta aperta siano da collegarsi a ragioni politico-sociali. Un altro rapporto del Us Home Security Committee, che risale a fine 2015, ignora del tutto la presenza di cittadini delle repubbliche centro-asiatiche tra i jihadisti di Daesh. In definitiva, se non si conoscono numeri certi sulla presenza dei jihadisti centro-asiatici nelle fila dell’Isis, non esiste al momento altra fonte al di fuori degli stessi governi delle cinque repubbliche per stabilire l’entità del rischio jihad in Asia Centrale.