Q uando il 20 gennaio di quest’anno Donald Trump concludeva il suo cupo discorso di insediamento alla Casa Bianca, di fronte a una folla sparsa e muta minacciata da nuvoloni carichi di pioggia, i democratici avevano toccato probabilmente il punto più basso degli ultimi novant’anni. Il partito era reduce da una campagna mediocre, centrista, con un candidato che aveva ricevuto quasi il doppio dei finanziamenti del suo avversario; e nonostante ciò aveva perso, consegnando la presidenza del paese al più grande ciarlatano che la recente storia politica ricordi.
Eppure gli Stati Uniti erano messi meglio di otto anni prima: dal precipizio della Grande Depressione e della guerra infinita si era passati alla disoccupazione sotto il cinque per cento e le truppe all’estero drasticamente ridotte. C’erano però anche milioni di persone declassate dallo sconquasso del mercato lavorativo, con i piani pensionistici falcidiati, e timorose che la riforma sanitaria si sarebbe tradotta in aggravi fiscali insopportabili. Con un incredibile colpo di scena, un partito repubblicano mai così diviso e imbarazzato dalla propria nomination si era ritrovato a controllare la Casa Bianca, la Camera dei deputati e pure il Senato: una posizione invidiabile, che avrebbe schiantato qualunque avversario. E nonostante un Trump assediato da scandali e inchieste, con l’opinione pubblica a larga maggioranza contro e quasi un anno di presidenza senza riforme, i democratici non sembrano avere ancora chiaro chi siano i candidati a sfidarlo nel 2020.
Tra i nomi emersi negli ultimi anni è difficile scorgere l’erede di Barack Hussein Obama. Forse Martin O’Malley, ex governatore del Maryland, con il suo blando mix di liberalismo e competenza tecnocratica? Oppure Kirsten Gillibrand, senatrice dello Stato di New York? O la solidissima Elizabeth Warren, crociata anti-Wall Street, dal seguito formidabile sui social media? La panchina sembra piuttosto corta. Senza dimenticare che il politico più popolare del momento – il senatore Bernie Sanders – avrà 79 anni l’Election Day del 2020.
Cinquantadue anni, senatrice neoeletta della California, Kamala Harris è la seconda donna afroamericana a ricoprire questa carica, nonché la prima indo-americana.
Nessuno tra i papabili è però meglio posizionato di Kamala Harris: cinquantadue anni, senatrice neoeletta della California, la seconda donna afroamericana a ricoprire questa carica, nonché la prima indo-americana. Harris porta con sé un solido curriculum progressista: bestia nera della National Rifle Association per i suoi ripetuti tentativi di limitare l’acquisto di armi da fuoco, paladina delle battaglie ambientaliste, da sempre favorevole alla libertà di scelta sull’aborto, contraria alla pena di morte (anche se si è riservata la facoltà di decidere caso per caso) non appena arrivata in Campidoglio ha promesso di fare di tutto per proteggere gli immigrati, sia quelli legali che gli undocumented, bollando come “non realistiche” le minacce di Trump di deportare tutti gli illegali e di costruire un muro gigante alla frontiera col Messico. Al momento dell’elezione, Harris si è rivolta pure ai lavoratori bianchi disillusi dalla politica democratica, il cui voto è stato decisivo per la vittoria di Trump. Ma è davvero aria fresca, o un grande déjà-vu?
Una biografia limpida, forse troppo
Kamala Harris aveva gli occhi puntati addosso già qualche anno fa, quando è stata eletta procuratrice generale dello Stato della California. Ma è a partire da gennaio che è stata investita da una sequela di benedizioni: prima da riviste pop socialmente consce come Vogue e Cosmopolitan, poi dal New York Times. A consacrare definitivamente Harris è stata la Women’s March, la grande marcia per i diritti delle donne e delle minoranze che si è tenuta il giorno dopo l’insediamento di Trump, che si è estesa a tutto il mondo portando oltre tre milioni di persone in strada. Kamala Harris si è ritrovata a parlare nella capitale insieme alla collega Gillibrand ed un’altra senatrice, Tammy Duckworth, dell’Illinois. “Siamo in un momento fondamentale della nostra storia – aveva detto – come quando i miei genitori si incontrarono a Berkeley negli anni Sessanta.”
Qualche mese prima, Obama l’aveva definita “il più bel procuratore generale degli Stati Uniti”, scusandosi subito per la goffaggine machista. E c’è poco da scherzare: Harris è una delle pochissime donne Dem elette al Senato, la catastrofica notte dell’8 novembre, e si è di fatto candidata a capo dell’opposizione.
Nata a San Francisco e cresciuta nel quartiere di Berkeley, che negli anni Sessanta era a maggioranza afroamericana, madre originaria dell’India e padre giamaicano, Harris racconta di essere stata portata alle prime manifestazioni per i diritti civili quando era ancora nel passeggino. La prima esperienza di razzismo invece le capitò un giorno che si trovava in visita dal padre a Palo Alto – in quella che sarebbe diventata la terra di Google – quando i vicini bianchi non le permisero di giocare con i loro bambini.
Il suo è un percorso perfetto e lineare: dopo il liceo a Washington, torna in California per studiare legge allo Hastings College, si laurea e subito diventa viceprocuratore del distretto di Alameda, poi nel 2003 primo procuratore donna di San Francisco, e nel 2011 primo procuratore generale donna e di colore della storia della California. Nel 2015 la conquista delle cronache di tutto il mondo, per la sua ferrea opposizione alla famigerata «Proposition 8»: una misura, votata con un referendum dai cittadini otto anni prima, che vietava il matrimonio gay in California. Quell’anno la Corte Suprema dichiara incostituzionale il ricorso alla 8 e lei, insieme al governatore, si rifiuta di difendere la legge; favorendo, di fatto, la rimozione definitiva del ban sui matrimoni omosessuali nel suo stato.
Harris è diventata, scrive il New York Times, “l’ultima incarnazione di un archetipo bipartisan: la matricola dalle belle speranze, materia telegenica per far sognare ad occhi aperti un partito da troppo allo sbando e lontano dal potere esecutivo”.
Kamala Harris si porta dietro da sempre un’etichetta che pesa nel pregiudizio della sinistra: quella d’essere una protetta dell’establishment di partito.
Il problema, per il suo partito, è che molti di quelli che si erano entusiasmati per Sanders non ne vogliono sapere di una così. Un po’ perché, come procuratore generale, Harris era famosa per una certa durezza, nonché una certa resistenza alle pene alternative al carcere. Un po’ perché, quando c’era stata una sentenza della Corte Suprema che invitava a sfoltire le prigioni già strapiene della California, Harris si era opposta, dicendo che i carcerati potevano fungere da preziosa manodopera.
E un po’ anche perché la scelta di non indagare l’attuale Segretario al Tesoro, Steve Mnuchin, al tempo in cui dirigeva la banca OneWest con “evidenza di cattiva condotta diffusa” ed era conosciuto come il “re dei pignoramenti” ha fatto storcere più di un naso – specialmente nel momento in cui Mnunchin contribuiva con 2.000 dollari (una cifra irrisoria, va detto) alla campagna di Harris al Senato.
Ma soprattutto c’è un’etichetta, che pesa nel pregiudizio della sinistra e che Kamala Harris si porta dietro da sempre: quella d’essere una protetta dell’establishment di partito. Una troppo moderata, troppo prudente. Una che finirebbe per ricalcare l’esperienza disastrosa di Hillary Clinton, nella cui campagna, tra i consulenti di maggior peso, c’era pure la sorella di Harris, Maya. Va bene l’endorsement – scontato – di Anna Wintour e delle sue riviste. Ma che dire dell’investitura quasi battesimale, lo scorso settembre, nel ritiro iper-elitario degli Hamptons, a Long Island, con il fior fiore dell’imprenditoria e della diplomazia liberal, nonché l’ex procuratore generale Eric Holder, il senatore clintoniano del New Jersey Cory Booker e il mecenate Harvey Weinstein – non ancora caduto in disgrazia – a fare da officianti?
C’è il sospetto, in parte fondato, che i democratici vogliono affidarsi alla stessa classe dirigente che è riuscita a perdere elezioni già vinte – al netto della possibile ingerenza russa – confidando sulla grossolanità del presidente in carica, su altri scandali, e su un possibile impeachment. E anche – perché no – su qualche fortunoso allineamento astrale: per esempio, i due anni che passerebbero dall’elezione di Harris al Senato e la sua eventuale rinuncia alla carica, per gettarsi nella corsa alla casa Bianca. Proprio come era avvenuto con Obama, che dopo due anni di Senato si era candidato alle primarie democratiche. Una coincidenza che non è sfuggita nemmeno al Washington Post, che ha tracciato un lungo, doppio confronto tra Harris e l’ex presidente.
Cosa dobbiamo aspettarci da lei
Seguendo una prassi consolidata, come Barack Obama e Marco Rubio prima di lei, Harris si è guardata bene dal confermare le sue aspirazioni presidenziali, concentrandosi per ora sulle sfide che l’attendono al Senato. È qui che Harris è stata impegnata subito in un acceso duello con Jeff Sessions, ex senatore statunitense e oggi procuratore generale – cioè ministro della Giustizia – dell’amministrazione Trump. Sessions è tra i politici più reazionari e invisi ai democratici, un paladino della repressione, spietato contro l’immigrazione clandestina, nonché sostenitore di sentenze esemplari per qualsiasi tipo di crimine. Session, però, è anche accusato di aver mentito al Congresso, e incontrato più volte l’ambasciatore russo negli Stati Uniti durante la campagna elettorale di Trump, del quale era stretto alleato e consigliere. L’inchiesta sulle collusioni fra Russia e campagna di Trump è nelle mani del dipartimento guidato da Sessions, il quale si è ricusato dall’incarico per aggirare il conflitto d’interessi. E proprio Harris, durante le audizioni del giugno 2017 al Comitato intelligence del Senato americano in cui si cercava di chiarire la natura di quel conflitto d’interessi, lo ha torchiato senza risparmiargli nulla: al punto che ogni cinque minuti Sessions si fermava, si asciugava il sudore della fronte, beveva un sorso d’acqua, e infine si dichiarava “innervosito” dalla irruenza delle domande. Lo stile della senatrice, secondo CNN, ricordava più l’aggressività delle corti di giustizia che l’usuale cordialità nelle camere parlamentari.
Chi la conosce bene ci tiene a dire che le credenziali di Harris sono saldamente riformiste. Greg Diamond, un organizzatore che ha lavorato per lei in California durante la campagna per il Senato, spiega al Tascabile: “Sebbene non sia in cima alla mia lista di preferenze per la Casa Bianca, la considero molto più vicina a Bernie che a Cory Booker. E in questo Stato si è creata molti nemici, sebbene, come tutti i democratici di successo, anche lei sia molto cauta.”
Secondo Ryan Cooper di The Week, Kamala Harris non può più ignorare il fatto – palpabile nelle manifestazioni politiche e nei sondaggi – che alcuni concetti un tempo patrimonio della sinistra massimalista siano divenuti pienamente mainstream: la copertura sanitaria per tutti, la preoccupazione per l’ambiente, il bisogno di redistribuire la ricchezza. “Del resto – spiega Cooper – perché mai qualcuno che abbia un po’ di ambizione dovrebbe avere lo sguardo rivolto al passato, e finire nel percorso fallimentare già tracciato da Clinton?”
Il problema è che l’anno scorso di sconfitti ce ne sono stati due: i sostenitori di Sanders, da un lato, che nonostante l’exploit del loro candidato hanno perso le primarie in maniera molto netta, e dall’altro il Democratic National Committee, la leadership del partito, tutta schierata per Clinton – e non sempre in modo trasparente, come ha rivelato di recente l’ex presidente del Dnc Donna Brazile – e che è riuscita a dissipare uno straordinario vantaggio nei sondaggi. Clinton ha sbagliato in modo grossolano credendo che il futuro della politica americana fosse situato tutto nel ceto medio caucasico, ricevendo comunque più voti di qualsiasi altro candidato democratico della storia fatto salvo Obama. D’altro canto la sinistra sanderista è stata bellamente ignorata dagli afroamericani sopra i trent’anni. Per le minoranze, il messaggio socialista è rimasto lettera morta.
Il dibattito tra la sinistra più orientata a difendere le identità sessuali, razziali, religiose e quella della “vecchia” scuola incentrata sui rapporti di forza tra le classi, sarà centrale ancora per molto tempo.
E così si ritorna al ruolo di Harris come possibile catalizzatrice di un’America che non vede l’ora – o almeno, si spera – di uscire dalla supremazia bianca. E ritornano pure le divisioni a sinistra. A tal proposito, la giornalista afroamericana Brittney Cooper si azzarda a paragonare nientemeno la distruttività di Trump a quella dei radical di Sanders. “I neri sono le vittime di questi modelli di visione politica”, scrive. Aggiungendo che tra i compiti di Kamala Harris non ci dovrebbe essere quello di “portare la croce del Partito democratico, o combattere gli elettori bianchi arrabbiati di Sanders”. È un dibattito, quello tra la sinistra più orientata a difendere le identità sessuali, razziali, religiose e quella della “vecchia” scuola incentrata sui rapporti di forza tra le classi, che sarà centrale ancora per molto tempo. Agli inizi di settembre, Kamala Harris si è unita a Elizabeth Warren e a Bernie Sanders nella campagna a favore della copertura sanitaria universale, in una fase in cui la presidenza Trump stava tentando di abrogare del tutto la timida ma importante riforma approvata da Obama. Come ha scritto Dylan Matthews di Vox: “Per come stanno andando le cose, presto non ci sarà un solo leader dei democratici che potrà opporsi alla copertura sanitaria per tutti”.
Un cambio di paradigma non così scontato, dodici mesi fa. Durante le primarie del 2016 c’era stato un solo candidato a spingere per il single payer, ovvero l’idea di una sanità universale di tipo europeo, pagata con le tasse dei contribuenti. Mentre l’altro, definito da tutti come il più esperto, il più competente, il favorito, sosteneva invece che i democratici avrebbero dovuto migliorare il sistema sanitario proseguendo sulla strada tracciata dall’Affordable Care Act, cioè la storica riforma di Obama e approvata faticosamente nel 2010, e che un’ulteriore estensione delle assicurazioni sarebbe stata un salasso. Oggi, la dirigenza del Partito democratico, per quanto spaesata, con tutta probabilità troverà un modo per annacquare la proposta di una copertura universale, cercando di mantenere al tempo stesso intatto lo slogan per attrarre gli elettori disillusi. Ma in fondo la vera scommessa per Harris potrebbe essere quella di riuscire a portare l’insegna di Sanders sui temi economici, tenendo al tempo stesso la barra dritta sulle battaglie nelle quali lei è va forte. Per esempio i diritti riproduttivi, il femminismo, i diritti dei migranti.
Forse stiamo già assistendo a quel processo che la scrittrice Zoé Samudzi ha definito “disumanizzazione tramite deificazione”. Ovvero quando riduciamo una donna di colore, impegnata in politica e in carriera, alle sue sole caratteristiche superficiali, il suo appartenere a due minoranze oppresse (gli afro-americani e le donne) e quindi in un santino dal quale ci aspettiamo di essere salvati, mettendo le sue idee in secondo piano. Forse, in una strada che sarà ancora lunga e complicata, una buona pratica potrebbe essere quella di mettere finalmente da parte le etichette; lasciare che le persone sostengano un candidato o una battaglia politica o una proposta di legge senza immediatamente incanalarle in un uno stereotipo ambulante: ecco, forse questo potrebbe essere la strategia più efficace per creare una coalizione abbastanza larga da fronteggiare i prossimi tre anni di acque burrascose.