D ue anni fa usciva su Not un articolo di Fabrizio Luisi, Ribelli 5 stelle contro Saggi PD!, uno studio della politica italiana in termini di narrazioni e contronarrazioni dei suoi protagonisti, in cui si provavano a interpretare gli archetipi e i ruoli incarnati dai vari partiti e leader politici. A partire da quell’articolo Luisi ha scritto un libro di analisi più ampia dei vari modelli, degli strumenti, le strategie e le tattiche di comunicazione politica, Maghi, guerrieri e guaritori. Gli archetipi della politica italiana, appena pubblicato da Mondadori, che è lo spunto per questo dialogo.
Matteo De Giuli: Le storie rispondono al nostro bisogno di dare un senso alla realtà, per poterla usare. Mi viene in mente Joan Didion, l’incipit del suo White Album: “we tell ourselves stories in order to live”, ci raccontiamo delle storie per vivere. Le storie di tutto il mondo, quelle moderne e quelle ancestrali, e i miti, hanno sempre qualcosa in comune, che avvicina culture distanti: sono la messa in scena di una soluzione, del superamento di una crisi. Molti studi sulla narrazione cercano di capire qual è stato il ruolo delle storie nell’evoluzione umana – e c’è chi si spinge a dire che la nostra capacità di racconto può essere considerata una funzione biologica. Comunque la si voglia vedere, è vero che siamo fatti di storie, ragioniamo intrecciando narrazioni, il nostro cervello è alla continua ricerca di un filo narrativo.
Parlare di “narrazione” in politica ha però ancora tutto un altro significato, per molti, c’è ancora una sorta di pregiudizio, da cui non posso dire di essere completamente esente: le “storie”, in politica, sono “balle”, il racconto è un’illusione, ideare una campagna elettorale in termini di narrazione vuol dire cercare di infinocchiare la gente. Forse è anche una reazione al fatto che negli ultimi anni è stato invece di gran moda, in alcuni ambienti, l’uso dello storytelling, e il termine è talmente abusato da trascinarsi necessariamente dietro un po’ di diffidenza. Fare storytelling in politica ha finito per significare, spesso, sedurre e imbrogliare, darsi un tono moderno per nascondere la propria mancanza di idee. (Mi viene in mente qui invece una vignetta di Altan: “Stai facendo la cacca? No, la narrazione del mio defecare”).
Fabrizio Luisi: Come hai già detto, partiamo dal presupposto che lo storytelling non è un insieme di tecniche ma è il modo in cui organizziamo la realtà. Quindi per me è falsa la distinzione tra verità fattuale e verità raccontata. Ogni “fatto” può essere visto e registrato solo se raccontato. Quindi snobbare questo approccio significa rinunciare a esistere.
Quello che viene giornalisticamente chiamato storytelling ne è in realtà la versione più superficiale: qualche tecnica retorica, un po’ di social media management, al limite l’impiego di questo o quel famoso spin doctor chiamato dagli Stati Uniti e pagato centinaia di migliaia di euro, solo in occasione di un’elezione, e che puntualmente non sortisce alcun effetto (vedi i casi, noti, di Renzi con il referendum e Monti con il cagnolino).
Allargando l’inquadratura, invece, possiamo dire che la destra investe da quarant’anni in politica cognitiva, dai tempi di quel grande laboratorio di comunicazione politica che è stata l’amministrazione Reagan, in cui si sono saldate la dottrina della Mont Pelerin Society con le più spudorate tecniche di gestione della percezione e del consenso. Quel genio del male che è stato Arthur Finklestein – l’artefice del mito di “Soros”, dell’elezione di Netanyahu e di Orbàn – sboccia professionalmente proprio con Reagan. Questo lavoro incessante ha creato un ambiente talmente condizionato che un politico di destra si può permettere di improvvisare o di proporre sempre il solito repertorio con qualche variazione, perché qualunque cosa dice atterra in un frame di destra pronto a raccoglierlo e valorizzarlo. Al contrario ogni iniziativa di sinistra nasce in un terreno ostile. Per questo mi sembra ancora più folle snobbare questo approccio da parte della sinistra, da dove vengono molte delle resistenze di cui parli. È come guardare dei bambini tirare sassi contro un carro armato.
MDG: Da questo punto di vista la politica è l’espressione di un racconto e la democrazia, come scrivi, uno spettacolo, uno scontro di storie organizzate attorno a matrici narrative. Il primo passo però è mettersi d’accordo su cos’è, esattamente, in questo contesto, una storia.
FL: Nel libro racconto alcuni testi classici sulla “costruzione del personaggio” e alla fine propongo questa definizione di storia: un sistema consequenziale, coerente ed efficiente in cui ogni personaggio è unico, ha un bisogno e vuole fare qualcosa per soddisfarlo, perciò sceglie di agire, ma una forza antagonista glielo impedisce, quindi entra in un mondo non familiare dove deve compiere scelte difficili e affrontare sfide in cui scopre qualcosa sul mondo e su se stesso, infine ottiene quello che vuole pagando un prezzo imprevisto e questo produce un cambiamento in lui e/o in altri personaggi della storia.
MDG: L’idea più potente del tuo libro è quella dei dodici archetipi, i dodici “personaggi” che i politici possono scegliere di rappresentare, oggi, nell’arena pubblica: Sovrano, Saggio, Guaritore, Ribelle, Guerriero, Mago, Uomo comune, Innocente, Creatore, Amante, Esploratore, Giullare. È una tua personale rielaborazione, una miscela tra i manuali di sceneggiatura, i modelli del marketing pubblicitario e i libri di George Lakoff, linguista celebre, tra le altre cose, per i suoi studi sulla metafora nella società.
FL: Quello che mi piace di questo modello è proprio che è figlio di tanti approcci diversi: gli studi dei cognitivisti, l’antropologia e la mitologia comparata, il marketing, la sceneggiatura.
Inoltre permette di spiegare perché alcuni politici sembrano invulnerabili ad alcuni attacchi che apparentemente avrebbero dovuto danneggiarli (spesso sono attacchi che rafforzano il loro archetipo invece di indebolirlo), e viceversa indica una prassi su come condurre con efficacia la battaglia politica sul piano della comunicazione.
Questi archetipi incarnano modalità differenti di risposta ai bisogni fondamentali dell’essere umano che, basandomi sullo studio di Mark e Pearson, individuo in: Relazione contro Autonomia; e Stabilità contro Cambiamento. Ogni soggetto politico dovrebbe offrire delle sue soluzioni a ognuno di questi quattro bisogni, e in questo gli archetipi possono aiutare a trovare la propria voce e a imbastire una strategia.
Per esempio, la comunicazione del Movimento 5 Stelle soddisfa il bisogno di appartenenza e di relazione attraverso l’archetipo dell’Uomo Comune e il bisogno di cambiamento con l’archetipo del Ribelle: questi sono i due archetipi dominanti. Secondariamente rispondono a un bisogno di autonomia e individuazione attivando l’archetipo dell’Innocente (“siamo gli unici puliti, onesti, trasparenti, puri”) e un bisogno di stabilità e controllo affidandosi all’archetipo del Creatore, che si esprime nella ricerca di pratiche innovative di organizzazione politica e nell’affidarsi a infrastrutture digitali come i gruppi meetup e la piattaforma Rousseau nel tentativo di dare al movimento la possibilità di autogovernarsi. In breve, la strategia della Lega si fonda sugli archetipi del Guerriero (cambiamento), Uomo Comune (relazione), Sovrano (stabilità), Esploratore (autonomia). Quella del PD è meno coesa perchè ogni nuovo segretario piega la strategia in una certa direzione, ma in linea di massima è fondata principalmente su Guaritore (stabilità) e Saggio (autonomia), e in secondo luogo su Uomo Comune (relazione) e Mago (cambiamento). Silvio Berlusconi è principalmente un Sovrano (stabilità) e un Innocente (autonomia) e poi anche Amante (relazione) e Mago (cambiamento). Potere al Popolo finora si è mosso dagli archetipi del Ribelle (cambiamento), del Guaritore (stabilità), e dell’Uomo Comune (relazione). E così via.
MDG: Quando ho iniziato a interessarmi di politica, al liceo, la parola anti-capitalismo faceva ridere, sembrava un anacronismo, una scheggia espulsa da un altro decennio. Poi, forse anche a causa della stretta delle varie crisi economiche, e di quella climatica, il termine è riemerso dall’inconscio collettivo, è rientrato nel discorso pubblico, anche mainstream. Il dibattito politico vive in un campo che a sua volta non è neutro, in cui già solo la scelta delle parole (la pressione fiscale – il debito pubblico – il problema dell’immigrazione) rivela un dizionario valoriale in cui certe idee nascono politicamente svantaggiate. Il linguaggio è un campo di battaglia. O, per dirla alla Lakoff, appunto: la politica cognitiva è una campagna di framing che precede la politica concreta.
FL: Sì, nel libro ho parlato a lungo di framing proprio per questo motivo. Non ci sono archetipi di destra o di sinistra. Ci sono invece frame di destra e di sinistra. Qui, con frame intendiamo una struttura mentale che organizza metafore in una cornice di significato grazie all’attribuzione di certi ruoli in relazione fra loro e di una sequenza di azioni. I frame determinano la mia visione del mondo, e di conseguenza i miei obiettivi, i miei progetti, le mie azioni. Come accennavo, possiamo dire di vivere, da quarant’anni, in Occidente, in un frame neoliberista, che si è affermato con una tale efficacia e pervasività da essere ormai diventato normalità e buon senso. Le tasse sono un fardello; il pubblico è un ostacolo al privato; gli immigrati sono un problema da gestire; gli imprenditori sono il motore dell’economia; dare denaro a banche, finanza e imprese è politica economica, darlo invece alle persone è inflazione e assistenzialismo, ecc… Anche l’elettore medio progressista ormai crede a questo racconto, si limita ad aggiungere un po’ più di solidarietà sociale.
Per cambiarlo sarebbe necessario fare quello che ha fatto la destra dagli anni Ottanta in poi. Avere gruppi di professionisti organizzati e ben finanziati che lavorino a questo tutti i giorni, per anni. Il che ovviamente non si sostituisce al resto dell’attività politica, ma se ne mette al servizio per valorizzarne sforzi e risultati.
A fronte di questa offensiva decennale, i partiti progressisti moderati – anche perchè sono stati a lungo partiti di governo – si sono illusi che la politica coincida con la buona amministrazione. Non è così: in democrazia la politica è anche battaglia per il consenso. Da parte sua, la sinistra radicale non è riuscita a tessere alcun racconto popolare, con l’eccezione del movimento Occupy che ha coniato il frame del 1 per cento contro il 99 per cento.
MDG: Dal punto di vista narrativo, le destre sembrano facilitate anche per altri motivi. Proprio secondo Lakoff, il ricorso alla semplificazione avvantaggia più spesso i conservatori e costringe invece i progressisti a doversi far carico di argomentare le proprie posizioni. “La semplicità è intrinsecamente di destra e la complessità di sinistra”, anche se bisogna fare la tara a cosa è destra e cosa sinistra, per Lakoff. Ma una versione moderna di questa tesi ha trovato una sua appendice online, diciamo così, sostenuta da chi crede, per esempio, che i meme siano un’espressione naturalmente di destra, incompatibile con l’etica delle sinistre.
FL: Qui non sono d’accordo con Lakoff. Da una parte è vero che è nel DNA della sinistra l’esigenza di socializzare i problemi. Ma questo si può comunque fare adottando racconti semplici. Dire che la semplificazione è di destra e la complessità di sinistra, significa condannare la sinistra a essere per sempre minoritaria. Come esseri umani abbiamo bisogno di semplificare per capire, per agire, per scegliere. Snobbare la semplicità per ergersi a difensori della complessità significa proporre all’elettore un cibo più indigesto, e non sempre più nutriente. Poichè quella che vendiamo come complessità è comunque materia informata di un orientamento ideologico, di una certa chiave di lettura, e allora perché mai dovrei sceglierla rispetto a una versione più digeribile e invitante? Inoltre, l’approccio di Lakoff è molto statunitense: identifica la sinistra con il Partito Democratico. Ma sappiamo che, storicamente, nel mondo, la sinistra ha spesso dimostrato di avere grandi capacità di semplificare, di rendere attraente e comprensibile la sua agenda politica per grandi masse di persone.
Allo stesso modo mi sembra insensato “lasciare” l’ironia alla destra. Si tratta solo di avere la sensibilità per distinguere fra umorismo reazionario, in cui ci si identifica con il punto di vista del potere e del privilegio per colpire il più debole, e invece umorismo progressista e rivoluzionario, in cui si usano registri ironici per sovvertire lo status quo e attaccare potere e privilegio (anche quelli dentro ognuno di noi).
Secondo me la sinistra ha ormai “imparato a memare” molto meglio della destra, ma a volte rimane ancora prigioniera della propria autoreferenzialità. Il linguaggio memetico, che può e deve essere esoterico, esercita una grande attrattiva proprio perchè oscuro, ma serve anche una componente exoterica che possa arrivare a tutti, come ci insegnano le religioni. Tra i meme di sinistra spesso mi imbatto in autentici capolavori, ma che sanno capire qualche decina di persone, intanto nelle chat del calcetto vedo girare solo meme ancap (anarco-capitalisti, libertari), brutti ma semplici. Dopodichè uno si deve anche divertire, altrimenti diventa un lavoro. Che poi è proprio quello che sto proponendo alla sinistra: pagare persone per fare meme.
MDG: Io sono molto affascinato, dal punto di vista letterario, dalle teorie del complotto, da Roswell ai Protocolli degli Anziani di Sion. Tu parli solo di sfuggita di complotti, ma nel tuo libro ho comunque trovato molte delle questioni chiave del successo di queste narrazioni. Le teorie del complotto rispondono a diversi bisogni umani: quello di comunità prima di tutto, e poi il bisogno di mistero, di meraviglia, di sorpresa, la gratificazione di saper leggere gli avvenimenti meglio della maggioranza: sono tutti elementi seducenti, cose che vogliamo nelle nostre vite. E, in generale, il successo dei complotti svela il tipo di connessioni che il nostro cervello tende a fare in maniera naturale tra le cose, ci può lasciar capire meglio come funziona la nostra mente, il modo in cui seleziona le informazioni, la nostra sensibilità a un certo tipo di racconti e non ad altri.
I complotti sono storie sempre esistite, e non vanno trattate con sufficienza, anche perché a volte “ci hanno preso”: alcune cospirazioni ci sono state sul serio, ovviamente, anche nella storia recente. Mi sembra però che stia succedendo una cosa nuova, in questi anni: il fatto che le teorie del complotto, che di solito intercettano anche un bisogno di opposizione e di ribellione al potere, oggi invece sono sempre di più al potere. Prendi QAnon, una teoria complicatissima da raccontare (consiglio la lettura dell’inchiesta di Wu Ming 1 su Internazionale). La storia principale, semplificata un po’, è questa: Trump è un eroe che, nel silenzio, dietro le quinte, senza poterlo raccontare apertamente alla nazione, si sta opponendo a un potere ancora più grande del suo, il potere sotterraneo della lobby di cui alcuni esponenti liberal e democratici che violentano bambini e governano il mondo nell’oscurità.
Rispetto ad altre teorie del complotto, questa è una storia decisamente bizantina e intricata, ha centinaia di sottotrame. Molte teorie del complotto hanno successo per la “fame” di causalità diretta che soddisfano, perché sono soluzioni semplici che vengono adottate per comodo, per codificare una realtà complessa. Questa invece ha successo, tornando al vocabolario del tuo libro, perché è una sorta “re-framing” di Trump. Trump ha fatto una campagna da Ribelle ma poi, una volta arrivato alla Casa Bianca, rischiava di venir raccontato come un incapace. QAnon cerca di mettere una toppa a questa cosa.
FL: Sì, è un’esigenza che hanno tutti i “politici Ribelli”: una volta arrivati al potere hanno bisogno di spostare il conflitto a un livello successivo, evocare uno status quo ancora più influente di loro da poter combattere. In generale i complotti sono degli attivatori molto completi ed efficienti, con un’efficacia quasi religiosa e mitica. Soddisfano un bisogno di appartenenza, perchè ti fanno sentire parte di una comunità di “risvegliati”. Soddisfano un bisogno di autonomia e indipendenza perché ti fanno sentire un “iniziato” rispetto alla grande maggioranza delle persone, che per te sono “pecore”. Soddisfano un bisogno di stabilità perché danno ordine al mondo, lo organizzano in un racconto coerente governato da stringenti principi di causa ed effetto e animato da eroi con obiettivi definiti e avversari potenti, e ti permettono quindi di trovare un tuo saldo posizionamento in questo ordine.
Infine soddisfano un bisogno di realizzazione e di agency (la possibilità di agire e di influenzare il mondo del racconto) perché forniscono una prassi: come nel caso del Pizzagate, l’azione coordinata di semplici individui produce effetti molto concreti e di grande impatto, e questo è decisamente eccitante se paragonato per esempio agli effetti che produce il voto, spesso percepiti come deludenti e insignificanti. Questo è uno dei motivi per cui a volte si preferisce votare personaggi improbabili, ma che garantiscono un cambiamento palpabile e quindi danno un senso di agency all’elettore, che può esprimersi anche solo con il gusto di ribaltare le aspettative o di far incazzare qualcuno.
MDG: ll modo in cui schematizzi metodi e dinamiche della narrazione politica (italiana, internazionale, passata e presente) è pervasivo, ti dà l’illusione di poter leggere il codice con cui è scritta la comunicazione politica, di poterne individuare facilmente gli errori. Sei stato contattato, in qualche forma, dopo aver scritto queste cose, da qualche politico, qualche partito, associazione o centro studi?
FL: Poco. Per esempio, senza fare nomi, sono stato contattato da esponenti del PD che si sono dimostrati genuinamente curiosi. Ma quando gli ho fatto capire che il tipo di problemi da risolvere non potevano essere risolti con sporadici caffè, telefonate o scambi su whatsapp, ma bisognava dedicare tempo, risorse e persone (anche formando persone già interne al partito), a quel punto si sono dileguati.