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N el quadro diagnostico della psichiatria contemporanea, il disturbo borderline è classificato tra le patologie mentali che vengono chiamate “disturbi di personalità”. Più che di “disturbi” sarebbe però corretto parlare di “tipi” o di “modelli” di personalità: niente è più vago di qualsiasi cosa si intenda, tanto in psichiatria quanto nel linguaggio ordinario, con l’aggettivo “normale”. Ad ogni modo, il manuale di riferimento per formulare le diagnosi psichiatriche, il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental disorders), di cui è stata pubblicata nel 2022 la revisione alla quinta edizione, mira alla correzione dei vari tipi di personalità chiamati disturbi, indirizzandoli verso quella mediana che si suppone essere la normalità. I disturbi di personalità – come il disturbo borderline (o BPD, Borderline Personality Disorder) – sono quei modelli di comportamento considerati disadattativi. Il BPD si trova in un sottogruppo di quest’area, chiamato nel DSM-V cluster B, tra i disturbi di personalità “emotivi” o “drammatici”. I pazienti che ricevono una diagnosi di BPD esibiscono sintomi ricollegabili a una profonda sofferenza psichica: spesso portano al terapeuta il vissuto di una grande instabilità relazionale, comportamenti descritti come “marcatamente impulsivi”, tra i quali appaiono spesso ipersessualità e comportamenti genericamente autolesivi – dalla tossicodipendenza ai disturbi del comportamento alimentare, fino all’autolesionismo vero e proprio e ai comportamenti suicidari. Tra i pazienti che ricevono questo tipo di diagnosi, il 75% sono donne.
Sulle dinamiche sociali e di genere che contribuiscono alla diagnosi di disturbo di personalità borderline riflette in prospettiva critica Pietro Barbetta – professore ordinario di psicologia clinica all’Università di Bergamo e presidente dell’International School of Systemic Therapy ‒ nel suo saggio Una tomba per Antigone. Clinica del delirio borderline (2024): “Quando si tratta di curare le pazienti borderline, si vede operare una vulgata moralista che viene spacciata per psicologia, ma che psicologia non è”, spiega.
Nella lettura proposta da Barbetta, la condanna e il sacrificio di Antigone si prestano a un’analogia con la condanna subita dalle giovani donne che ricevono una diagnosi di disturbo borderline da parte della psichiatria contemporanea. Nel suo saggio, utilizzando l’Antigone di Sofocle come un personaggio concettuale alla maniera dell’uso fatto di Antonin Artaud da parte di Gilles Deleuze e Félix Guattari in Capitalisme et schizophrénie (1° vol., 1972), Barbetta propone una lettura critica della condizione della donna e della condanna del “femminino” nella società contemporanea.
Come ha mostrato Franco Basaglia (e ancora oggi le cose non sono cambiate), la diagnosi psichiatrica è spesso ammantata di un moralismo, che, spiega Barbetta raccontando la genesi del suo libro,
prescrive la malattia senza avere l’accoglienza che dovrebbe avere la cura. I pazienti con questo tipo di delirio, che è completamente diverso dal delirio della schizofrenia (un delirio di ideazione), vengono ricoverati nei reparti psichiatrici, e molto spesso abbandonati a sé stessi: lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Anche chi cerca la cura trova spesso terapeuti infastiditi: la vulgata dice che le pazienti “border” sono pesanti, oppositive, antipatiche. Mettono alla prova anche il terapeuta, che rischia di diventare responsabile di un’ennesima violenza.
Tra i pazienti che ricevono la diagnosi di disturbo di personalità borderline, il 75% sono donne.
Quando Antigone appare sulla scena all’inizio della tragedia, sull’acropoli di Tebe in Beozia, la città magica, è l’alba; la giovane lamenta con la sorella Ismene le sciagure che perseguitano la loro famiglia, stirpe maledetta da Ares: nella tragedia greca, la colpa ha ben poco a che fare con la sua concettualizzazione contemporanea di tradizione giudaica e cristiana. Ricorda piuttosto una malattia che si trasmette per via ereditaria. Antigone, dopo la morte dei fratelli Eteocle e Polinice, annuncia che infrangerà la legge imposta dallo zio Creonte, e che anche a costo della sua stessa vita darà degna sepoltura al minore dei fratelli. Questo rifiuto la rende, per l’Hegel della Fenomenologia dello spirito, immagine di quella che il filosofo di Jena chiama legge divina, quella della famiglia e del femminile, contrapposta alla legge umana, maschile, rappresentata invece dal divieto dello zio Creonte. “Ogni città si regge tra questi tre mondi: quello superiore, quello terrestre e quello degli abissi infernali; e la sua salvaguardia richiede sacrificio umano”, ha scritto la filosofa spagnola María Zambrano. Il suo saggio La tomba di Antigone (1967) è una delle maggiori influenze per il lavoro di ricerca di Barbetta.
La storia del teatro classico sorge su un passato di sacrifici rituali, messi in atto per garantire l’equilibrio delle città e la pace con gli dèi: lo raccontano, in forma mascherata, i miti più disparati; ne portano traccia le opere di Eschilo, Sofocle, Euripide; lo rivela, secondo l’antropologo francese René Girard, la morte di Cristo in croce, che “libera dai peccati e scioglie la paura”. La stessa parola “tragico” non richiama altro che il termine greco τράγος (tràgos), che significa capro, e che rimanda proprio al tema sacrificale. La parabola dell’Antigone di Sofocle ne è il perfetto esempio, mettendo in scena “la giovinetta sacrificata agli ‘inferi’ sui quali si erge la città”. Non è un caso, dunque, che la stessa tragedia sofoclea mascheri e narri la storia di un’uccisione di questo tipo, radicata in un’epoca arcaica in cui il sacrificio umano rituale viene praticato nelle comunità, e in cui una giovane donna può divenire un “bouc émissaire”, il capro espiatorio di cui Girard ha elaborato una teoria nel suo saggio La Violence et le sacré (1972). Antigone, come Medea e Ifigenia, per citare alcune delle eroine mitiche condannate a morte, viene sacrificata per espiare le colpe di tutti. È infatti grazie alla sua morte che si conclude non soltanto la vicenda della tragedia sofoclea, ma anche il ciclo intero della famiglia dei Labdacidi, la cui discendenza si esaurisce con le figlie di Edipo.
Lo psicoterapeuta si rifà, oltre che al testo di Zambrano, anche ad alcune delle riletture più recenti e di matrice femminista dell’Antigone: Judith Butler, nel saggio Antigone’s Claim (2002) riflette sulla figura dell’eroina sofoclea come immagine della ribellione femminile allo statalismo; nella riflessione di Luce Irigaray (filosofa, psicoanalista e femminista francese) Antigone rappresenta invece la mediazione femminile che compie la trasformazione dal “fenomeno naturale” all’“atto spirituale”, come ha scritto Viola Carofalo (2022):
Il femminino, a cui mi riferisco quando scrivo del disturbo borderline, va distinto con attenzione dal femminile in senso stretto: non si può ridurre il femminino al corpo. E tuttavia, la riflessione di femministe come Irigaray e Julia Kristeva ci ha permesso di riportare dentro alla riflessione anche la dimensione del corpo, dell’accoglienza del corpo, e di interpretare in maniera simbolica il tema di questa predisposizione fisiologica all’accoglienza. Bisogna parlare di divenire-femminino, di pensiero femminino: il pensiero di Deleuze e Guattari, due uomini, rientra a pieno in questa dimensione; è il rizoma, è la risposta al divieto patriarcale, il rifiuto del fallocentrismo. L’operazione di queste femministe è quella che Sofocle mette in luce con Antigone, vale a dire il fatto di ribaltare questa dimensione del corpo e della cura – la different voice di cui scriveva la psicologa americana Carol Gilligan – a cui il patriarcato ha fatto violenza, che l’ha svalutata, e arrivare a considerarlo un vantaggio.
L’accoglienza di quella che per Irigaray e Kristeva è la differenza sessuale rappresenta allora, nella storia del femminismo quanto in quella della psicoanalisi, un definitivo punto di rottura: Irigaray stessa, in seguito alla pubblicazione della sua tesi di dottorato intitolata Speculum. La fonction des femmes dans le discours philosophique (Les Éditions de Minuit, 1974) perde le mansioni di insegnamento all’Università di Vincennes e all’École Freudienne de Paris, fondata da Jacques Lacan. Barbetta ricorda come la storia della repressione del dissenso femminile sia anche, strettamente, storia della sua medicalizzazione.
Si è passati da una considerazione morale del disturbo mentale alla sua medicalizzazione. È quello che racconta Betty Friedan in The Feminine Mystique (1963): nel secondo dopoguerra, centinaia di donne iniziano a mostrare sintomi depressivi e si inizia a parlare di una malattia misteriosa, un ‘disease that has no name’. Quello che mette in mostra Friedan è che il problema del disturbo mentale è sociale: la psichiatria oggi ha dimenticato che il sintomo e il disturbo sono sempre in reazione e in relazione al contesto.
L’ipotesi clinica più accreditata sulle cause del disturbo borderline di personalità rimanda a traumi subiti nella prima infanzia: abusi sessuali, abbandono, un grande lutto.
il tema moralistico e repressivo è evidente. In età vittoriana, si pensava che la causa dell’epilessia o dell’“isteria” fosse l’ipertrofia della clitoride, perciò si praticavano le clitoridectomie. Veniva medicalizzato e considerato un sintomo di disturbo mentale il fatto di manifestare un desiderio sessuale pari a quello degli uomini. Nel Novecento lo spostamento è dalla clitoride al lobo frontale, con la lobotomia, ma si tratta di movimenti minuscoli che mascherano un tema che resta identico e che è la repressione e la gestione biopolitica del dissenso e della disobbedienza femminili da parte del patriarcato. E la psichiatria si fa carico di questa repressione.
In un articolo dedicato alla tolleranza, il filosofo francese Paul Ricœur (Lectures 1, Seuil 1991) riflette sulla nozione di “intollerabile”: la descrive come un grido che si innalza davanti all’ingiustizia, urlo di protesta, di rifiuto. Per il filosofo francese, questo grido viscerale e straziante esprime un sentimento del tutto razionale ed etico, ed è interessante poter osservare come la stessa indignazione venga depotenziata quando, con un’operazione linguistica, viene chiamata “delirio”, partendo dall’assunto che una persona sana non si disperi davanti all’orrore. “Il rifiuto delle pazienti borderline, che è poi il rifiuto di Antigone, è il medesimo – vale a dire che è la medesima protesta – di chi per ragioni politiche mette in atto uno sciopero della fame: mi taglio, non mangio, perché mi rifiuto, perché l’ingiustizia che ho subito (e che spesso continuo a subire, anche da parte del clinico, dello psichiatra) mi disgusta”.
Il tema poi è anche un altro – conclude Barbetta – quello di ipotizzare che esista una “persona sana”. Chi è davvero sano? I nostri corpi sono abitati dai virus, l’equilibrio dei nostri corpi è quello di una convivenza con i parassiti, e se questi non ci fossero saremmo morti. Quest’idea di sanità e di purezza non è solo falsa, è dannosa: e con il termine sanità, penso all’espressione “salute mentale”, si può giustificare qualsiasi tipo di cambiamento, di coartazione dei corpi e delle menti delle persone. Il problema non è quello di negare la diagnosi: la diagnosi esiste, ma esiste anche qualcos’altro, una disruption che la precede, alla quale il disturbo è la reazione. Se non ci occupiamo anche di quella, continuiamo a seppellire le Antigoni senza aver dato loro ascolto.