Un anno di svolta?
Possibili scenari per il 2017 della politica italiana.
Possibili scenari per il 2017 della politica italiana.
I l 2017 era atteso come l’anno della resa dei conti per la politica italiana: l’anno in cui una nuova costituzione e una nuova legge elettorale avrebbero condotto il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle allo scontro finale, nelle quasi inevitabili elezioni anticipate che avrebbero fatto seguito a una vittoria del “sì” al referendum del 4 dicembre. L’anno in cui, quindi, si sarebbe varata la Terza Repubblica italiana, caratterizzata dal governo forte garantito (nel bene e nel male) dal “combinato disposto” della riforma costituzionale e dell’Italicum.
Le cose sono andate diversamente: gli italiani hanno bocciato il referendum, l’Italicum è stato mandato in soffitta e il protagonista indiscusso degli ultimi tre anni di vita politica italiana ha rassegnato le dimissioni e oggi si fa fotografare mentre fa la spesa a Pontassieve. L’unica cosa certa, quindi, è che nel 2017 non ci sarà alcuna resa dei conti, ma continuerà la lunga fase di transizione iniziata con le dimissioni obbligate di Berlusconi del 2011 e proseguita con le intese più o meno larghe dei governi Monti, Letta, Renzi e oggi Gentiloni. Sei anni di ampie coalizioni che oggi rischiano di prolungarsi ulteriormente, visto che solo un doppio turno (come quello previsto dall’Italicum) o un forte premio di maggioranza (sempre a rischio di incostituzionalità) avrebbero potuto impedire l’ingovernabilità a cui ci sembra costringere l’attuale tri-polarismo di PD, M5S e centrodestra.
Ma non c’era modo di aggiustare ciò che non funzionava nella legge elettorale figlia del patto del Nazareno per adattarla al bicameralismo perfetto e salvaguardare così la governabilità? “L’accantonamento dell’Italicum è stata una scelta obbligata”, spiega Paolo Natale, sondaggista e docente di Scienze politiche e sociali all’Università di Milano. “Quella legge elettorale non poteva sopravvivere alla mancata riforma del Senato: andare al ballottaggio per entrambe le camere avrebbe potuto dare risultati fortemente contrapposti”. Avrebbe potuto, per esempio, vincere il Movimento 5 Stelle alla Camera e il Partito Democratico al Senato, rendendo impossibile il varo di qualunque governo, anche di larghe intese. “In più – essendo stata sconfessata la linea di Renzi – avrebbe avuto poco senso riproporne uno dei cardini base”.
Il nodo del Mattarellum
Così, invece che con una sorta di maggioritario nazionale, ci potremmo ritrovare con il Mattarellum: un maggioritario uninominale basato sui collegi elettorali corretto in senso proporzionale. Un modello elettorale che, senza scendere troppo nei tecnicismi, ha sicuramente un pregio: dal momento che ogni candidato al Parlamento deve presentarsi in un solo collegio e conquistare la fiducia degli elettori, l’attenzione si sposta dal partito al candidato, che diventa veramente il rappresentante alla Camera o al Senato di chi lo ha eletto.
Con il maggioritario uninominale, quindi, conta più il candidato del partito. E di conseguenza sono favoriti i partiti che possono presentare candidati di alto profilo, convincenti e in grado di conquistare la fiducia di chi si recherà alle urne. Un aspetto, questo, che fa pensare che il PD abbia proposto il Mattarellum nel tentativo di disinnescare il Movimento 5 Stelle: “Può essere che sia così”, prosegue Paolo Natale. “I candidati penta-stellati non godono di grande notorietà e men che meno di grande esperienza. Il voto dei militanti M5S è un voto al partito più che ai candidati”. Dall’altra parte, invece, c’è un partito come il PD, che ha spesso dimostrato di saper trovare candidati di buon livello, anche grazie alle alleanze con la sinistra e allo strumento delle primarie (si pensi alla stagione “arancione”, più che alle ultime amministrative). La repentina decisione di tornare al Mattarellum, insomma, avrà sì portato qualche scoria nel partito, ma ci sono valide ragioni per pensare che nel PD sia stata studiata con attenzione.
Al di là dei meriti oggettivi del Mattarellum e dei vantaggi politici che può portare a chi ancora gode della maggioranza parlamentare, questa legge elettorale lascia però irrisolto il grosso problema dell’ingovernabilità: “Il Movimento 5 Stelle andrà molto bene al sud, dove la rabbia è più forte. Il Partito Democratico e la sinistra conquisteranno i collegi delle loro storiche zone centrali, più alcune grandi città. Il centrodestra (che sarà costretto a unirsi) vincerà la maggioranza dei collegi tra Lombardia, Piemonte, Liguria e Veneto. Questo significa che il Parlamento sarà ancora una volta abitato da tre forze più o meno equivalenti, con un numero di parlamentari abbastanza simili. Anche se si inserisse un premio di maggioranza per la forza che ottiene più collegi, ci sarebbe comunque la concreta possibilità di avere maggioranze differenti nelle due camere”, prosegue Natale. Una legge che, nell’ottica del Partito Democratico, potrebbe avere il vantaggio di impedire la vittoria del M5S, ma al prezzo di ostacolare l’affermazione di qualunque schieramento.
E a questo punto lo scenario più plausibile sarebbe quello di una grande coalizione tra le “forze moderate”. Scelta obbligata – stante il rifiuto del Movimento 5 Stelle a qualsiasi ipotesi di alleanza e vista la situazione tripolare in cui si trova l’Italia – che avvantaggerebbe nuovamente le forze populiste, sempre pronte a “rifiutare qualsiasi ipotesi di governo di larghe intese” per poi lucrare consensi sull’inevitabile impopolarità di un esecutivo del genere.
La strategia del Movimento 5 Stelle
Il risultato sarebbe paradossale: una legge elettorale voluta dal Partito Democratico per disinnescare il Movimento 5 Stelle finirebbe per avvantaggiare, sul lungo termine, proprio quest’ultimo. Tanto più che, nonostante i proclami, Di Maio e compagni non sembrano avere tutta questa fretta di conquistare Palazzo Chigi: “Il dubbio che vogliano rimandare l’appuntamento con la vittoria può venire, visto il comportamento che hanno tenuto sia in vista del referendum sia sulla legge elettorale”, spiega Paolo Natale. “Per loro, il modo più rapido e realistico per andare al governo era sostenere la riforma del Senato e l’Italicum; soprattutto dopo l’ottima esperienza avuta con i ballottaggi durante le amministrative e forti di sondaggi che li davano nettamente davanti in caso di scontro frontale con il Partito Democratico”.
A confermare una volta di più che quello che abbiamo davanti è un ennesimo anno di transizione, quindi, è il sospetto che il Movimento 5 Stelle non abbia fretta di vincere: “Per loro è più conveniente consolidarsi ancora all’opposizione e far maturare la classe dirigente, che proprio in questo periodo sta dimostrando a quante difficoltà può andare incontro”. Una necessità figlia anche della relativa impopolarità del candidato premier in pectore del M5S, Luigi Di Maio: “A differenza di Renzi, che tra gli elettori del PD gode di un supporto pari a circa il 75/80%, e a differenza di Salvini, che tra i leghisti vola all’85/90%; Di Maio tra i cinque stelle non va oltre il 60/65%, a dimostrazione di come il loro sia un elettorato più legato al partito che ai singoli personaggi”, spiega ancora Paolo Natale. Da qui la necessità di prolungare il travaglio per arrivare al governo, consolidando nel frattempo leadership e candidati e approfittando delle inevitabili difficoltà a cui andrebbe incontro il Partito Democratico qualora, come probabile, dovesse ancora una volta trovarsi impantanato nelle grandi coalizioni.
L’usato sicuro del Partito Democratico
Ma non è solo il M5S a essere sospettato di volere che sia il tempo a fare il lavoro sporco; lo stesso discorso vale infatti per la minoranza PD, che ha deciso di non sfidare la leadership di Renzi e di non chiedere il congresso anticipato: “Renzi ha dimostrato comunque che la sua proposta era ben vista dall’elettorato democratico: circa l’80% degli elettori PD ha votato sì a un referendum caratterizzato da un’alta affluenza. Di fatto, quindi, il segretario ha dimostrato di aver mantenuto la sua forza sia a livello di base, sia a livello di vertice, evitando la ribellione di gruppi importanti, come i franceschiniani o i giovani turchi, durante l’assemblea nazionale”, spiega Paolo Natale.
Se nel partito nessuno ha sfidato Matteo Renzi, probabilmente, è stato per non bruciarsi le chance del futuro e lasciare che sia lui ad affrontare le prossime, difficilissime, elezioni; ma non è tutto: “Nonostante l’incapacità di articolare un programma complessivo e di presentare una proposta politica di ampio respiro, è chiaro che Matteo Renzi, al di là del Movimento 5 Stelle, è l’unico astro che può fare da punto di riferimento”. Lo dimostrano anche i sondaggi più recenti: non solo il Movimento 5 Stelle, in seguito al caos di Roma, ha perso un paio di punti, ma soprattutto il Partito Democratico, nonostante la netta sconfitta al referendum, è rimasto sostanzialmente stabile sopra il 30%. Segno che molti vedono in questo partito una sorta di scelta obbligata. Ma davvero il Partito Democratico, nonostante l’incognita della legge elettorale, può puntare a essere ancora la forza di governo e ad arginare un Movimento 5 Stelle solo momentaneamente appannato? “Può farcela se il centrodestra moderato continua a perdere elettori a vantaggio del PD, trasformandolo davvero nel Partito della Nazione; non nel senso del ‘partito assieme a Verdini’, ma di un partito che tiene al suo interno tutto lo spettro politico che rifiuta il populismo, tutto l’elettorato centrista e moderato”.
Il 2017 si candida quindi a essere l’anno in cui in Europa e in Italia (pur con le sue particolarità) si concretizzerà la svolta di cui si parla da oltre un decennio: il superamento della più classica frattura politica, quella tra destra e sinistra. Secondo Natale: “Nel futuro la vera divisione sarà un’altra; sarà tra un partito che punta a mantenere lo status quo – europeista, solo leggermente spostato verso la destra o verso la sinistra e inserito nel solco della tradizione – e un partito populista, anti-europeista, che punta a rovesciare gli assetti consolidati”. Che queste forze, con l’eccezione del M5S, siano ancora inquadrabili con le vecchie categorie, quindi, è solo un retaggio del passato che presto verrà accantonato. Si tratta di dinamiche che sono in corso da lungo tempo, che hanno radici già nella caduta del Muro di Berlino, nella nascita dell’Unione Europa e dell’euro, nella crisi economica e infine nell’ondata migratoria. Dinamiche che, però, solo negli ultimi anni hanno mostrato non solo cosa si stessero lasciando alle spalle, ma anche in che direzione puntassero.
Non solo: se queste dinamiche stanno generalmente avvantaggiando partiti riconducibili alla destra (volendo utilizzare categorie che, come detto, spiegano solo in parte ciò che sta avvenendo e con le notevoli eccezioni di Syriza, Podemos e, in parte, Bernie Sanders) è stato probabilmente per la maggiore prontezza con cui la destra sociale ha abbracciato un mondo post-ideologico che le consentiva di abbandonare, finalmente, il ristretto recinto del neo-fascismo (e, in questo, Marine Le Pen è stata una pioniera). Un aspetto che dev’essere attentamente considerato dai partiti della sinistra radicale, che vedono il loro elettorato storico abbracciare senza difficoltà forze che, un tempo, sarebbero state considerate nemiche giurate.
Così, il 2017 potrebbe essere ricordato come l’anno della svolta a livello globale, l’anno in cui viene definitivamente superata la contrapposizione tra destra e sinistra e si approda allo scontro decisivo tra populisti e moderati, tra anti-euro ed europeisti, tra chi vuole sovvertire lo status quo e chi teme che questo conduca al ritorno dei fascismi. Un anno decisivo, in cui si concretizzerà la Brexit, in cui Donald Trump entrerà alla Casa Bianca, in cui Olanda e Francia si confronteranno in elezioni che fanno tremare le mura di Bruxelles. E in cui l’Italia, forse, riuscirà a concludere un’infinita fase di transizione per decidere finalmente a quale futuro vuole guardare.