G li attivisti di Ultima Generazione sbucano all’improvviso dalla striscia di bosco che costeggia l’autostrada. Indossano dei gilet catarifrangenti, con un balzo scavalcano il guardrail e invadono le corsie. Suonano ripetutamente dei fischietti per intimare agli automobilisti di rallentare e arrestarsi. In un attimo tendono uno striscione arancione da un capo all’altro della carreggiata – “no gas no carbone”, si legge – poi siedono sull’asfalto rovente con le gambe nella posizione del loto, immobili e irremovibili come monaci in meditazione. La tattica che adottano non è nuova: è stata introdotta in occasione della COP26 per il clima di Glasgow dal movimento Insulate Britain, che ormai da un anno compie azioni dimostrative di questo genere nelle maggiori città del Regno Unito.
Siamo all’inizio dell’estate più calda di sempre e i militanti di Ultima Generazione hanno pensato di bloccare il traffico del Grande Raccordo Anulare in segno di protesta contro l’inazione politica nel contrasto alla crisi climatica. Davanti a loro una colonna di marmitte che sbuffano diossido di carbonio, gente in ritardo per il lavoro, clacson che esprimono disappunto e frustrazione. C’è chi scende dall’auto esasperato e prova a farli desistere, qualcuno li trascina addirittura a peso morto fino al ciglio della strada. Parte inevitabilmente una chiamata alla polizia: gli agenti arrivano a piedi, appaiono confusi, non sanno bene come dissuaderli. Gli attivisti non tentano nemmeno di scappare. Saranno schedati, interrogati, denunciati. La settimana successiva di nuovo lì a manifestare.
Ci vuole coraggio a piantarsi in mezzo a un’autostrada per urlare la gravità dello stato in cui versa il pianeta. Coraggio e convinzione: ciò che manca alla maggior parte delle persone, me compreso. Più guardo i video degli attivisti, così inflessibili nell’adesione alla loro causa, e più li ammiro. Eppure, su questo modo di protestare per il clima piove da tempo una tempesta di critiche. Accresce il consenso per il movimento oppure lo diminuisce? Se la prende davvero con chi meriterebbe il nostro livore? È radicale come sembra? E soprattutto, funziona? Se c’è una cosa che all’ambientalismo serve ancora meno dell’attivismo da tastiera, in questo momento, è lo scetticismo di chi rimane confinato nella torre d’avorio. Un abisso di verità separa chi teorizza e basta da chi invece entra anche in azione, qualunque cosa decida di fare. In un mondo drammaticamente paralizzato dalla mancanza di alternative, anche il più fastidioso e detestabile dei gesti diventa, se non giusto, almeno giustificabile.
L’accusa di Malm è che vi sia una forma d’inazione interna all’ambientalismo, che predica come apocalittici i cambiamenti climatici in corso e tuttavia si limita ad azioni di protesta inoffensive.
Non è affatto scontato che si uniscano teoria e prassi, riflessione e militanza: gli intellettuali che ci provano ancora, meritandosi così il diritto di critica senza riserve anche nei confronti dei movimenti stessi, si contano sulle dita d’una mano. Uno di loro è certamente Andreas Malm, docente di Ecologia umana all’Università di Lund, ambientalista di lungo corso e autore del controverso Come far saltare un oleodotto. Imparare a combattere in un mondo che brucia (Ponte alle Grazie, 2022, traduzione di Vincenzo Ostuni). Malm era a Berlino nel 1995, alla prima COP per il clima, steso a terra per impedire ai delegati l’uscita dalla sede del summit. Era anche tra gli Indiani della giungla d’asfalto che nel 2007 furono responsabili di una campagna di sgonfiaggi agli penumatici di SUV, le cui vendite diminuirono in Svezia per diversi mesi. L’accademico-attivista figurava pure tra i primi militanti a sfondare i cancelli della centrale elettrica a lignite Schwarze Pumpe, quando nel 2016 gli attivisti di Ende Gelände provocarono la prima sospensione temporanea di un impianto a combustibile fossile in tutta Europa. Sebbene negli ultimi anni si sia dedicato più alla teoria, Malm fa davvero filosofia “con il martello”, la sua opinione reca il rimbombo delle proteste in piazza e merita ascolto, per quanto sgradevole possa essere. Nel suo ultimo libro viene denunciato dapprima il fiasco totale della diplomazia climatica, ma la tesi più caustica e difficile da mandare giù è che anche l’attivismo nonviolento abbia in qualche modo fallito.
Secondo Malm i maggiori movimenti ambientalisti in circolazione si sono fino ad ora astenuti dall’esercizio della forza fisica come modalità d’azione, irreprensibili nell’applicazione della nonviolenza e irriducibili nella difesa del proprio ethos pacifista, con manifestazioni di piazza coinvolgenti ed esuberanti, ma improntate a una rigida autodisciplina. Da anni gli attivisti bloccano le strade nelle ore di punta, s’incatenano ai cancelli degli uffici governativi, organizzano cortei o sit-in, e ciononostante la politica sembra reagire con fredda incuranza alle loro proteste sempre così civili. L’accusa mossa in Come far saltare un oleodotto è che vi sia una forma d’inazione interna all’ambientalismo stesso, il quale predica come apocalittici i cambiamenti climatici in corso e tuttavia si limita ad azioni di protesta inoffensive. I movimenti hanno sicuramente rallentato l’azione dell’industria fossile, ma più passa il tempo senza che la curva delle emissioni si fletta, e più diviene chiaro che stanno perdendo la propria battaglia per il clima.
Ciò che propone Malm è perciò lo scaling up della militanza ambientalista verso una strategia d’azione congrua alla dimensione del problema da affrontare: sabotaggi, impedimenti alle emissioni di lusso, danni a mezzi, macchinari o infrastrutture inquinanti – mai però alle persone, così come ai beni pubblici. Se questo genere di azioni sembra oggi impraticabile, dice Malm, è perché bisogna prima rompere l’incantesimo che conferisce la somma sacralità alla proprietà capitalistica, stracciare il velo di presunta inviolabilità delle industrie fossili che guastano il clima della Terra: solo così un inasprimento delle lotte diventa concepibile. L’appello che lancia nel suo libro-manifesto è rivolto direttamente ai compagni attivisti per il clima: “quand’è che passeremo ad altro? Quando capiremo che è arrivato il momento di tentare qualcosa di diverso? Quando cominceremo ad attaccare quel che consuma il pianeta, e a distruggerlo con le nostre mani? Che ragione c’era di attendere così tanto?”.
Malm propone e rivendica azioni radicali: sabotaggi, impedimenti alle emissioni di lusso, danni a mezzi, macchinari o infrastrutture inquinanti – mai però alle persone, così come ai beni pubblici.
A scanso di equivoci si dica subito che Malm non invoca colonne di fumo, spaccate selvagge o attentati – i casi di danneggiamento che auspica sono mirati, controllati e di piccola taglia, del tutto inqualificabili come azioni di terrorismo, essendo categoricamente esclusa la violenza diretta agli individui così come l’inammissibile volontà di seminare panico tra le masse. A differenza di quanto annunciato dal titolo, il suo saggio non è un manuale di ecosabotaggio, non spiega come far saltare un oleodotto: espone piuttosto un lungo elenco di ragioni per cui dovremmo cominciare a farlo. La principale è che il capitalismo non abbandonerà mai il ricorso ai combustibili fossili di sua sponte, ne è troppo dipendente: questa era la tesi espressa già di Fossil Capital (2016), libro in cui Malm ricapitolava il ruolo imprescindibile di carbone e petrolio nella genesi del capitalismo mercantile prima e industriale poi.
Negli ultimi decenni il sistema economico che tiene in scacco il futuro dell’umanità è persino riuscito ad annichilire ogni ambizione rivoluzionaria sostituendola con il credo dell’innovazione: una sorta di rivoluzione permanente dei modi di produzione che non trasforma lo status quo, bensì lo consolida. I grandi inquinatori continuano a investire nel fossile e a macinare profitti stellari, come se niente fosse: “si sentono ancora i padroni del mondo, pensano di non avere nulla da temere”. Malm cita al riguardo il Benjamin de I passages di Parigi (1982): “l’esperienza della nostra generazione: il fatto che il capitalismo non morirà di morte naturale”. È evidente che la pressione sugli interessi dei signori del clima dovrà per forza di cose aumentare, che servirà costringere i governi a intraprendere tutti i cambiamenti necessari a scongiurare la catastrofe. In un modo o nell’altro.
Pacifici, ma non troppo
A detta di Malm il passaggio a una militanza radicale è giustificato dalla cruda constatazione che non c’è più tempo per il gradualismo patrocinato oggi dalla maggior parte degli intellettuali ambientalisti, quel riformismo cauto e senza rivoluzione sottoscritto tra gli altri dal venerabile Bruno Latour, suo acerrimo rivale teorico. In The Progress of This Storm (2017), Malm, da anti-Latour, già sosteneva l’assoluta priorità dell’azione sulla teoria nelle lotte per il clima: “c’è la sensazione pungente che la sola cosa sensata da fare ora sia lasciare andare tutto il resto ed eliminare i combustibili fossili, sgonfiare gli pneumatici, bloccare le piste di decollo, assediare le piattaforme, invadere le miniere”. Esiste una lunga e gloriosa tradizione di sabotaggio alle infrastrutture fossili, per ogni genere di ragione. Se in svariate circostanze storiche – dalla resistenza palestinese alla rivoluzione egiziana, fino al recentissimo guasto ai gasdotti Nord Stream ancora tutto da chiarire – il danneggiamento della proprietà fossile è stato ritenuto a volte addirittura legittimo, domanda Malm, perché mai non dovrebbe esserlo in questo tempo disperato di lotta ai cambiamenti climatici?
Il capitalismo non abbandonerà mai il ricorso ai combustibili fossili di sua sponte, ne è troppo dipendente.
A suo modo di vedere c’è urgente bisogno di politiche pubbliche da comunismo di guerra all’insegna di razionamento, riallocazione, requisizioni, sanzioni, direttive e chissà quant’altro appare oggi impensabile. E tuttavia, come riconosceva già nel precedente Clima corona capitalismo (2021), “è del tutto impossibile che uno Stato capitalista prenda misure simili di sua spontanea iniziativa. Dovrebbe essere costretto a farlo, grazie all’intero spettro della pressione popolare, dalle campagne elettorali al sabotaggio di massa”. Attingendo al lessico da slogan della militanza ambientalista, la riflessione teorica che Malm porta avanti procede per aforismi: l’ignavia dei governi nel rispondere alla crisi climatica ha superato ogni aspettativa, la passività degli attivisti non ha più scuse, i movimenti sfoderino le tattiche più militanti del loro arsenale, l’arte da padroneggiare è quella della violenza politica controllata.
È a questo punto che Malm distingue i due tipi di pacifismo che a suo giudizio compromettono il potenziale trasformativo dei movimenti ambientalisti. Il primo è il pacifismo morale, per il quale è sempre un errore commettere atti violenti, senza eccezione di causa, fino al punto di sacralizzare la sofferenza del martire-attivista che, pur di non macchiarsi di alcuna forma di violenza, finisce il più delle volte per subirla. Per il pacifismo strategico la nonviolenza smette invece di essere una virtù preferibile in senso assoluto, ma rimane il mezzo d’azione più ecumenico ed efficace: la violenza danneggerebbe infatti i movimenti e li allontanerebbe dai propri obiettivi, pregiudicherebbe la riuscita delle lotte, incrinerebbe il consenso popolare nei confronti delle proteste. Se il pacifismo morale è inflessibile e integralista nel suo ideale di purezza morale, quello strategico sceglie la disobbedienza civile non per ragioni dogmatiche e ideologiche, ma tattiche e strumentali. È nello spettro che separa queste due espressioni del pacifismo politico che Malm colloca i maggiori movimenti per il clima della nostra epoca, da 350.org a Extinction Rebellion (XR), tutti accomunati dalla rigorosa adesione all’eredità del Mahatma Gandhi: la benemerita ahimsa, il fermo rifiuto della violenza.
O la disobbedienza civile è una promessa sacra, un principio eterno e inviolabile, o la si sceglie solo in quanto proficua: ma che fare, allora, quando smette di funzionare? Non sarebbe il caso di riconsiderarla? In Come far saltare un oleodotto si contesta apertamente l’attendibilità degli studi che hanno costruito il mito della nonviolenza come azione di protesta più efficace, a cominciare da Why Civil Resistance Works (2011) di Erica Chenoweth e Maria Stephan, il “catechismo del pacifismo strategico”. Malm lo prende d’assalto rievocando l’apporto della resistenza violenta nell’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti, le centinaia di incendi dolosi rivendicati dalle suffragette britanniche e gli altrettanti sabotaggi commessi dalla cellula eversiva di Mandela in Sud Africa. Vengono citati anche il contributo decisivo dell’ala radicale per il successo del movimento dei diritti civili degli afroamericani e la provocatoria biografia del Mahatma Gandhi scritta da Kathryn Tidrick, che per prima ne mise in dubbio il profilo morale da pacifista nonviolento.
Malm distingue due tipi di pacifismo che a suo giudizio compromettono il potenziale trasformativo dei movimenti ambientalisti: il pacifismo morale e quello strategico.
Se la storia dei movimenti sociali ha davvero qualcosa da insegnarci, è che articolare gli antagonismi – quando necessario anche in modo radicale – è sempre stato un requisito al successo delle lotte, le quali non per questo degenerano automaticamente in guerre civili o faide sanguinose. Per Malm quella del pacifismo strategico è dunque una storia mistificante di rimozione selettiva, che non rende giustizia alla tragicità delle lotte passate. Perché la mobilitazione per il clima dovrebbe essere diversa? Cos’ha di speciale? Davvero “la nonviolenza assoluta sarà l’unico modo, la sola tattica ammissibile nella battaglia per l’abolizione dei combustibili fossili, e lo sarà per sempre?”. Chenoweth e Stephan assicurano che la partecipazione di circa il 3,5% della popolazione alle proteste nonviolente possa produrre da sola il cambiamento auspicato. Secondo la loro teoria sull’influenza dei gruppi minoritari, è sufficiente mobilitare un pungo di attivisti moderati per interrompere il business as usual e correggere così le sorti climatiche del pianeta.
Analisi più recenti hanno alzato decisamente la soglia di partecipazione necessaria e sufficiente a innescare cambiamenti sistemici: stando ai risultati di uno studio sperimentale condotto con piccoli gruppi dai ricercatori della University of Pennsylvania, ad esempio, la massa critica sarebbe superata quando la dimensione della minoranza impegnata raggiunge il 25% della popolazione. Ricostruzioni storiche di stampo qualitativo dei movimenti radicali come Direct Action (2017) di L.A. Kauffman e Rivoluzione (2021) di Enzo Traverso hanno invece riabilitato il ruolo della resistenza violenta nell’esito positivo delle lotte: pare che ogni vera rottura dell’ordine costituito, oltre che improvvisa, sia quasi sempre violenta. Se i movimenti del passato hanno fatto spesso ricorso alla resistenza violenta, insiste Malm, per quale ragione la lotta per il clima dovrebbe astenersi?
Già nel 2007, in un celebre articolo apparso sulla London Review of Books, lo scrittore e saggista britannico John Lancaster si meravigliava della docilità dei movimenti ambientalisti contemporanei. “Fatto strano e sorprendente”, scriveva all’epoca Lancaster, “gli attivisti del clima non hanno ancora commesso atti terroristici”. E aggiungeva: “il fatto è tanto più notevole se si pensa quanto sia facile far esplodere una stazione di servizio, o vandalizzare un SUV”. La posta in gioco è il futuro dell’umanità e della biosfera tutta, i bersagli su cui abbattersi sono pressoché ubiqui, il luddismo climatico non richiede competenze particolari né strumenti irreperibili, la consapevolezza che il mondo possa collassare va montando, le ingiustizie e l’indolenza dei potenti appaiono intollerabili. In una temperie culturale millenaristica e da fine del mondo, sgonfiare le ruote di un SUV è davvero un giochetto da ragazzi, chiunque può farlo: non serve altro che l’ardire di provarci. Anche hackerare un oleodotto non sembra essere poi così complicato. Perché non accade di continuo? Malm lo chiama il paradosso di Lancaster.
Se la storia dei movimenti sociali ha davvero qualcosa da insegnarci, è che articolare gli antagonismi – quando necessario anche in modo radicale – è sempre stato un requisito al successo delle lotte.
Succede, al contrario, che l’attivismo radicale compaia sempre più di frequente nel cinema e nella letteratura. Nel thriller Night Moves (2013) alcuni ecoattivisti tramano di far saltare in aria una diga con un esplosivo a base di fertilizzanti. In First Reformed (2017) è addirittura un prete a radicalizzarsi per il clima, mentre La donna elettrica (2018) racconta di una direttrice di coro che organizza azioni di sabotaggio per danneggiare l’industria siderurgica. Tra i romanzi, le apparizioni più recenti rimandano al drappello di eversivi che organizza azioni illegali di sabotaggio delle segherie in Il sussurro del mondo di Richard Powers (2019), gli ecoattivisti responsabili di raid punitivi contro ultraricchi e dirigenti dell’industria fossile in The Ministry of the Future (2020) di Kim Stanley Robinson, e l’ecoterrorista scomparsa in circostanze misteriose in Colibrì Salamandra (2022) di Jeff VanderMeer. Tanto interesse da parte delle rappresentazioni culturali per la militanza radicale rafforza il paradosso di Lancaster: in fatto di lotte per il clima, come si spiega una tale mancanza di corrispondenza tra realtà e finzione?
Resistenza e repressione
A dire il vero, forme latenti di resistenza violenta alla crisi climatica e ambientale nel Nord del pianeta si manifestano a ondate ricorrenti almeno dagli anni Settanta, quando mossero i primi passi Greenpeace, responsabile nell’ultimo mezzo secolo di svariate azioni di ecosabotaggio, ma soprattutto organizzazioni di matrice radicale come Earth First! (EF!), Earth Liberation Front (ELF) e Animal Liberation Front (ALF). Come sempre accade, anche allora i piani di realtà e finzione si mescolarono e influenzarono reciprocamente, al punto che gli attivisti di EF! ed ELF presero spunto dalla gang di ecoterroristi dell’eco-thriller I sabotatori (1975) di Edward Abbey per organizzare azioni radicali di tree-sitting e sabotaggio. Pare che, complessivamente, tra il 1973 e il 2010 le tre organizzazioni radicali abbiano commesso migliaia di atti vandalici: scritte sui muri di proprietà private, rotture di vetrine, taglio di pneumatici, incendi alla rete elettrica e a resort sciistici, assalti a McDonald’s, stazioni di servizio e allevamenti di visoni – tutto finito con la repressione delle proteste da parte delle autorità federali degli Stati Uniti. L’ondata di procedimenti giudiziari e arresti a carico degli attivisti prese il nome di Green Scare, “paura verde”, e portò al definitivo smantellamento dei tre gruppi radicali.
A volte è stata invece la realtà delle azioni di sabotaggio a superare la finzione, come quando nell’autunno del 2016 Jessica Reznicek e Ruby Montoya del movimento Des Moines Catholic Worker s’intrufolarono nei cantieri del Dakota Access Pipeline, un oleodotto in fase di costruzione lungo quasi duemila chilometri e con una portata tale da riempiere di greggio una petroliera ogni 40 secondi. Le due attiviste statunitensi diedero fuoco agli scavatori e forarono le tubature con una fiamma ossidrica. Furono per questo incriminate, sanzionate e condannate, il capo d’accusa: azione terroristica. Troppo, forse, per due radicalizzate isolate e mosse dalle “migliori intenzioni”? Come ricorda l’avvocato e attivista Ted Hamilton in Beyond Fossil Law (2022), negli Stati Uniti il Patriot Act qualifica come terrorismo qualsiasi atto violento volto a influenzare la politica del governo tramite l’intimidazione e la coercizione: una definizione talmente ampia che, piaccia o no, finisce per includere pressoché ogni azione di sabotaggio.
Tra le risposte al libro di Malm, l’attivista e scrittrice Madeline ffitch giudica un grave errore non considerare l’impatto che in passato azioni radicali ebbero sui movimenti per il clima e l’ambiente: li resero per forza di cose più cauti nelle tattiche d’azione e diffidenti nei confronti delle nuove reclute.
Malm lo liquida in poche pagine, ma il problema della repressione è quanto mai reale per gli attivisti che si rendono responsabili di atti radicali. Nello stesso periodo in cui Reznicek e Montoya facevano irruzione al Dakota Access Pipeline per danneggiarlo, il gruppo radicale Valve Turners intraprese una serie di manomissioni alle valvole di emergenza di alcuni oleodotti tra Stati Uniti e Canada, con l’obiettivo di interrompere le forniture di greggio. In quel caso solo uno dei sabotatori finì in carcere, ma il balcklash che travolse i movimenti ambientalisti negli Stati Uniti fu decisamente pesante. Vennero introdotte leggi per la criminalizzazione degli ecoattivisti, furono inasprite le sanzioni per chiunque minacci le cosiddette “infrastrutture critiche”, la sorveglianza si strinse come un cappio attorno al collo dei gruppi ambientalisti con episodi di infiltrazione da parte di investigatori dell’intelligence. A distanza di pochi anni, in sostanza, fu di nuovo “paura verde”.
Nella collettanea Property Will Cost Us the Earth (2022), pubblicata in risposta al libro di Malm, l’attivista e scrittrice Madeline ffitch giudica un grave errore non considerare l’impatto che ebbe la Green Scare sui movimenti per il clima e l’ambiente: li rese per forza di cose più cauti nelle tattiche d’azione e diffidenti nei confronti delle nuove reclute. “Se incontriamo persone che dicono di voler tagliare le gomme di un SUV o sabotare una miniera di carbone”, confessa ffitch, “ricordiamo loro di non parlarne né con noi, né con nessun altro” – un invito contrario a quello sprezzante, e forse un po’ sconsiderato, che fa da filo conduttore a Come far saltare un oleodotto. All’interno della stessa antologia di saggi, la studiosa ecofemminista Alyssa Battistoni accusa Malm di retorica incendiaria e buoni propositi, seguiti però da nessun esito veramente incisivo nella riduzione delle emissioni di gas serra. Senza una proposta più ampia, l’unico effetto concreto delle azioni di ecosabotaggio sollecitate da Malm, afferma Battistoni, potrebbe essere quello di accelerare la transizione verde rimanendo però sempre nell’alveo del capitalismo più predatorio: passare cioè dal capitalismo fossile al capitalismo verde delle multinazionali energetiche. “Gli attivisti del clima che finiscono in prigione per spianare la strada a Elon Musk”.
Alyssa Battistoni accusa Malm di retorica incendiaria e buoni propositi, seguiti però da nessun esito veramente incisivo nella riduzione delle emissioni di gas serra.
Al di là dell’acceso scambio di critiche e controcritiche tra teorici pacifisti e radicali, sembrava a tutti che la pandemia di COVID-19 avrebbe esaurito la forza propulsiva dei movimenti, fino al punto di condurli all’estinzione. Così però non è stato, con le proteste per il clima che hanno ripreso immediato vigore: i gruppi si sono presto riorganizzati, moltiplicati e diffusi; scismi interni ai maggiori movimenti hanno permesso alle frange radicali di fondare nuove propaggini, diversificare le tattiche, intensificare le proteste. Non che il libro di Malm, pubblicato in inglese a gennaio 2021, abbia armato una nuova generazione di militanti ambientalisti: che qualcosa stesse per mutare nelle strategie di azione era nell’aria già da tempo. In This Is Not A Drill, l’handbook di XR messo in circolazione dopo il debutto del movimento nell’estate calda del 2018, si riconosceva anzitempo l’inefficacia delle strategie tradizionali quali voto, lobbying, sit-in, e si annunciava la volontà di sperimentare nuove modalità d’azione come occupazione, ostruzione, finanche al vandalismo. A guardare Rebellion, il documentario su XR uscito nel marzo scorso, le proteste del gruppo sembrano ormai sulla linea della radicalità auspicata da Malm. E se fossimo arrivati davvero a un punto di svolta?
Verso un punto di svolta
Paradossalmente, è proprio al culmine della pandemia che ha inizio l’escalation e la radicalizzazione delle proteste ambientaliste. Nell’autunno del 2020 gli attivisti della rete Rise Up 4 Climate Justice occupano la bioraffineria Eni di Marghera, a Venezia, mentre il gruppo francese La Ronce rivendica lo sgonfiaggio agli penumatici di oltre duecento SUV tra Bordeaux, Grenoble e la Svizzera francofona. Pochi mesi più tardi alcuni militanti di XR assaltano le vetrine della sede londinese del colosso bancario HSBC, secondo maggiore finanziatore di combustibili fossili in Europa. In estate, in coincidenza del climate camp di Ende Gelände, la frangia del movimento rinominata Fridays for Sabotage compie un’azione di “sabotaggio pacifico” alla rete del gas. A settembre 2021 gli attivisti tedeschi di Ultima Generazione danno invece avvio a uno sciopero della fame davanti al Reichstag, organizzano blocchi stradali, minacciano di interrompere il traffico aereo intasando di palloncini gonfiabili le piste di decollo degli aeroporti.
Con l’anno nuovo gli attivisti di Just Stop Oil invadono la pista di Formula 1 durante il primo giro del Gran Premio di Silverstone, interrompono partite di Premier League legandosi ai pali delle porte, occupano alcuni musei di Londra incollando le proprie mani alla cornice dei dipinti più noti. Bloccano anche alcuni camion trasportatori di combustibili fossili in mezzo al traffico, salendo sulle cisterne come ribelli sulle barricate e rallentando così le forniture alle stazioni di servizio. Nelle stesse settimane quelli di Animal Rebellion impediscono l’uscita degli autoarticolati carichi di carne di pollo da un macello a Est di Londra, dopo che l’anno precedente avevano interrotto l’attività di alcuni centri di distribuzione McDonald’s a Manchester. Con l’arrivo dell’estate i militanti di tutta Europa radunati al Climate Social Camp di Torino affollano l’imbocco dell’autostrada per Milano, quelli di Tyre Extinguishers e Les dégonfleurs de Suv danno il via a una nuova campagna di sgonfiaggi agli penumatici di SUV, mentre XR Tolosa rivendica un’azione di sabotaggio ai campi da golf.
Per Malm la posta in gioco giustifica in ogni caso i rischi corsi dalle frange radicali: del resto, a continuare le proteste con l’inerzia di sempre, i rischi potranno solo accrescere in futuro – e per tutti.
Poche settimane prima gli attivisti del movimento Guacamaya hackerano i database di alcune aziende minerarie e petrolifere in Centro e Sud America: ai giornalisti venuti a intervistarli sull’accaduto diranno che è possibile far crollare anche la più grande delle aziende inquinanti con la sola punta delle dita. Se a Roma i militanti di Ultima Generazione occupano il GRA, a Padova e a Venezia prendono di mira i luoghi d’arte, a Genova l’acquario. A Milano gli attivisti di Greenpeace interrompono l’inaugurazione di Gastech, una delle più importanti fiere del gas, mentre ad Amburgo quelli di Ende Gelände bloccano un impianto di produzione di fertilizzanti chimici e i cantieri di un rigassificatore. La rivolta coinvolge ormai direttamente anche gli scienziati del clima, che hanno cominciato a fare disobbedienza civile, a scioperare e ad essere arrestati per azioni radicali. Di settimana in settimana, l’onda delle proteste ambientaliste cresce e potrebbe raggiungere l’acme a novembre, in occasione della prossima COP per il clima. Nessuno al momento sembra preoccuparsene, ma se accadesse davvero qualcosa di inaspettato?
Il più delle volte le storie di finzione con protagonisti gli ecoterroristi finiscono male. Gli attivisti de I sabotatori vengono arrestati, il giudice che li processa si guadagna un posto in senato e le miniere di carbone ottengono nuovi sussidi. In Nigh Moves l’attentato alla diga ha successo, ma causa la morte di un campeggiatore e porta perciò inevitabili problemi con la giustizia. Anche ne Il sussurro del mondo l’ultimo incendio doloso ai macchinari di una segheria va storto, un’attivista muore e gli altri del gruppo sono costretti a far perdere le proprie tracce, salvo poi ritrovarsi con gli investigatori alle calcagna. Nella realtà fuori da film e romanzi è difficile valutare il successo delle azioni di ecosabotaggio: è capitato che abbiano rallentato la costruzione di alcuni oleodotti, tra i quali il Mountain Valley pipeline, causando talvolta l’interruzione definitiva dei lavori, come nel caso del Keystone XL, ma si tratta in ogni caso di risultati ottenuti al prezzo di un inevitabile giro di vite tra le file dei movimenti.
Oltre che la libertà, i militanti radicali mettono spesso a repentaglio anche la propria incolumità: l’attivista di Just Stop Oil Louis McKechnie, ad esempio, ha ricevuto centinaia di minacce di morte per aver interrotto la partita tra Eveton e Newcastle. Vale davvero la pena rischiare tanto? Secondo Alan Thornett, un veterano della militanza ecosocialista in Regno Unito, a prendere sul serio l’invito di Malm si corre il pericolo di ritrovarsi in piena notte con le forze dell’ordine fuori dal portone di casa: detenere materiale esplosivo o cospirare un’azione radicale di sabotaggio basta di per sé ad assicurarsi diversi anni di prigione. “Il movimento per il clima dovrebbe respingere l’appello di Malm e la scorciatoia che offre”, ha polemizzato Thornett: “riflette la frustrazione per la mancanza di una strategia d’uscita dall’energia fossile che sia socialmente giusta”. È di un movimento di massa incline a manifestare pacificamente ogni settimana che c’è bisogno, non certo di un manipolo di fanatici chiusi per anni dietro le sbarre.
La mancanza di inibizioni di Malm sfoga un sentimento atmosferico che avvertono in molti e che nessuno osa ancora esprimere.
Per Malm la posta in gioco giustifica in ogni caso i rischi corsi dalle frange radicali: del resto, a continuare le proteste con l’inerzia di sempre, i rischi potranno solo accrescere in futuro – e per tutti. Anche scrivere un libro come questo è stato per lui un bel azzardo: Malm era consapevole di poter essere frainteso, o peggio di venire etichettato come l’agitatore di ecoterroristi di turno. La domanda che rimane come un chiodo fisso al termine di Come far saltare un oleodotto è se esiste davvero un’alternativa alla resistenza organizzata militante, e se sì quale. Una nuova tecnologia in grado di tirarci da sola fuori dai guai? La rassegnazione al fatalismo climatico? La geoingegneria? Forse la disobbedienza civile e nonviolenta farà la differenza prima o poi, a patto però che arrivi a mobilitare centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. O forse servirà che il pacifismo delle masse si combini alla resistenza organizzata di una minoranza radicale per diventare davvero incisivo, come sostenuto da Malm. Nel movimento per il clima è lui ad avere il ruolo della testa calda: magari non sarà il miglior modello da seguire, ma la sua mancanza di inibizioni sfoga un sentimento atmosferico che avvertono in molti e che nessuno osa ancora esprimere. Malm la mette così: “bisogna augurarsi che la rabbia politica esploda, e non troppo tardi”. Con la crisi di là da travolgerci, è questa l’ultima delle sue invocazioni.