L’intento de Il Capitale, lo spettacolo della compagnia bolognese Kepler-452 sulla vicenda GKN è chiaro sin da queste parole:
Quando venite qua ci chiedete sempre come stiamo. Tutti, dal giornalista al militante dei movimenti. Ma come volete che stiamo? Stiamo qua, in piedi, come qualcuno che ha preso una tranvata in faccia e ha ancora un po’ di lividi. Però dopo averla presa si guarda intorno e pensa che siamo ancora in piedi. Noi stiamo così e voi come state? Voi tutti, come state? Perché la cosa è paradossale. A volte quelli che ci vengono a domandare come stiamo, stanno messi peggio di noi.
Quello scivolamento inaspettato dalla prima alla seconda persona plurale prende in contropiede lə spettatorə, scongiurando dal principio il rischio di scollamento tra un “noi” e un “voi”. Coup de théâtre: l’appello alla responsabilizzazione attecchisce sulla platea, non ci sono dubbi su da che parte stare. Il prologo recitato da Dario Salvetti, rappresentante del Collettivo di fabbrica e membro RSU, argina di colpo il moto di disaffezione progressiva dall’immaginario operaista, azionatosi con la sconfitta dei movimenti rivoluzionari degli anni Settanta e sancito storicamente dalla marcia dei quarantamila “colletti bianchi” Fiat contro il “sindacato padrone”.
A Torino, quel 14 ottobre 1980 la classe operaia perde, forse irrimediabilmente, il proprio ruolo di motore delle trasformazioni sociali. Da allora, l’ombra lunga del “riflusso” degli Ottanta si accompagna all’ambivalenza della novità dell’ordine istituito dalla controrivoluzione; limitandoci alle metamorfosi subite dal processo lavorativo: flessibilità, General Intellect, ultra-specializzazione e formazione ininterrotta, sono i nuovi significanti padroni che inseriscono il lavoro vivo e la vita stessa in una trama ricodificata di sfruttamento e precarietà.
Nonostante la distanza tra operaiə e lavoratorə cognitivə si sia drasticamente accorciata, l’effettivo riconoscimento su larga scala di tale operazione continua a essere osteggiato dal sistema neoliberale e dalla sua logica selvaggiamente individualista. È questa la catena che lə 422 operaiə della GKN Driveline invitano a spezzare, attraverso una lotta che, loro malgrado, portano avanti dal 9 luglio 2021, quando una mail di posta certificata lə informa della decisione di licenziamento collettivo con effetto immediato.
Quello di Campi Bisenzio, nella piana fiorentina, non è però uno stabilimento come tutti gli altri. È conosciuto infatti per essere uno degli impianti più sindacalizzati d’Italia, forte di un Collettivo di fabbrica sorto nel 2018 sulla scia di alcuni importanti successi conseguiti soprattutto tra il 2008 e il 2014, in difesa del sabato come giorno libero e contro il precariato dilagante dalla grande crisi finanziaria in poi. La posta in gioco sembra quindi essere alta: se i padroni passano qui, allora passeranno dappertutto.
La distanza tra operaiə e lavoratorə cognitivə si è drasticamente accorciata, ma questo riconoscimento continua a essere osteggiato dal sistema neoliberale e dalla sua logica selvaggiamente individualista.
Lo spettacolo prosegue con un incedere piuttosto didascalico. Lə attorə in scena (tre ex dipendenti GKN), seguendo una sceneggiatura che viene puntualmente aggiornata sulla base dello stato di avanzamento della vertenza, raccontano una storia che è la loro, fatta di un’occupazione tutt’oggi in corso da parte dei metalmeccanici e dellə lavoratorə delle ditte in appalto per impedire la dismissione della fabbrica e la sottrazione dei macchinari, e di una vicenda giudiziaria che decreta sì l’illegalità della modalità di licenziamento, ma che condanna la resistenza operaia ad adeguarsi ai ritmi della burocrazia. Nel frattempo, la cessione della proprietà viene finalizzata con il passaggio dal fondo inglese Melrose Industries all’imprenditore Francesco Borgomeo, il rischio di delocalizzione dell’attività produttiva all’estero rimane pendente, e alla sospensione degli stipendi segue l’attivazione di una Cassa Integrazione di fatto insolvente: si inizia a parlare di un vero e proprio assedio ai danni dellə occupanti.
È a questo punto che l’amministrazione locale interviene a sostegno della causa – nel novembre del 2022 INSORGIAMO, l’Aps Società Operaia di Mutuo Soccorso, si costituisce “per suggellare l’abbraccio solidale del territorio e promuovere insieme la fabbrica pubblica socialmente integrata” – e lo stesso fa l’accademia (in primis l’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa) assieme a un comitato tecnico-scientifico che, in linea con i principi della conricerca alquatiana, pianifica la transizione ecologica con le teste dellə operaiə, e non su di esse: la cooperativa Gff-GKN For Future nasce in nome della re-industrializzazione partecipata dello stabilimento attraverso la riconversione green della produzione (pannelli solari e cargo-bike al posto di semiassi per auto di lusso).
In un’epoca in cui riconoscersi in una lotta e agire il conflitto può davvero permettere di dare voce allə oppressə e denunciare ciò che invece non consente di farlo, il caso GKN fa un passo oltre, in direzione dell’istituzione di alleanze generative pronte a battersi in prima linea per questo, per altro, per tutto, diffidando delle vittorie parziali o dei falsi riformismi. Già nel corso dell’autunno 2021, la vertenza del Collettivo di fabbrica si unisce alle mobilitazioni studentesche e a quelle per la difesa del pianeta all’insegna di una convergenza quanto mai radicale tra giustizia sociale e giustizia climatica.
A cinquant’anni di distanza dalla rivolta Fiat di Corso Traiano, una nuova ondata di rivendicazioni operaie interne al settore automotive si ritrova a innescare nuovi concatenamenti attraverso quello che Emanuele Braga definisce “un processo di politicizzazione che non prova alcuna nostalgia per le vecchie configurazioni”. Un assemblaggio rivoluzionario inedito fa quindi la sua comparsa sul mondo. Sì, perchè questa volta l’assemblea permanente indetta il giorno uno del presidio trasforma la GKN in un laboratorio di discorsi e pratiche aperto a un fuori solidale, che nel clima di effervescenza generato dalla convinvenza “forzata” produce e organizza conoscenza collettivamente, tramite l’uso di strategie riconducibili al più classico dei repertori operaisti (volantini, marce, cortei), ma anche attraverso il coinvolgimento di media e formati più contemporanei (documentari, festival, esperimenti riattualizzati di scrittura working-class, o ancora, un “Insorgiamo tour” a supporto di vertenze analoghe).
La cooperativa Gff-GKN For Future punta a pianificare la transizione ecologica con le teste dellə operaiə, e non su di esse, in nome della re-industrializzazione partecipata.
La comunità andatasi nel frattempo a creare arriva a maturare consapevolezza sull’imprescindibilità della questione ambientale a cui il pensiero autonomista – che proprio da quell’epocale ribellione di mezzo secolo fa contro il sistema del lavoro dei padroni aveva avuto origine – in fondo non era mai del tutto giunto. La specificità dell’esperienza operaia nel secondo dopoguerra, negli anni dell’acclamato “miracolo italiano”, si inscrisse in un quadro di intensificazione ad alto impatto relativa all’estrazione di risorse, alle emissioni inquinanti e alla crescita demografica; il processo di meccanizzazione agricola e la transizione energetica dall’idroelettrico al combustibile fossile accelerarono l’ingresso del Paese nell’economia globale.
Ma il ruolo trainante che ben presto l’Italia si guadagnò dipendeva in larga parte da un vantaggio comparativo derivante dall’ipersfruttamento della manodopera di un Sud impoverito dall’estrema irregolarità geografica dello sviluppo: è qui che le correnti riunitesi sotto la bandiera di Potere Operaio (1969-1973) rintracciarono i germi della crisi. Una volta presa coscienza del potere che, in quanto forza lavoro, avrebbe permesso alla classe operaia di mettere sotto scacco lo stesso sistema che la opprimeva, senza la mediazione di partiti o burocrazia sindacale, portò avanti una politica di autodeterminazione che trovò negli scioperi selvaggi, nelle occupazioni delle fabbriche, e nel sabotaggio dei macchinari le sue espressioni più potenti.
Con il sopraggiungere del Movimento del ‘77, la politica del “grande rifiuto” inaugurata dalle sommosse dell’Autunno Caldo si espanse invece a un rifiuto generalizzato delle relazioni sociali capitaliste e del modello di soggettività promesso e promosso dall’utopia borghese. Al di là delle istanze di conflittualità produttiva e gioiosa istituenza che ne sancirono l’originalità eversiva, la tendenza maggioritaria dell’Autonomia non seppe forse cogliere appieno il potenziale di rottura rispetto alla tradizione marxista e al primo operaismo di quei nuovi soggetti politici (movimenti anticoloniali, femminismo ed ecologismo) con cui fino all’ultimo mantenne una problematica divaricazione teorica e organizzativa.
Le battaglie per l’ambiente degli anni Settanta, in sintonia con la spinta anti-lavorista del ‘77, fecero da un lato esplodere l’ideologia produttivista delle rivoluzioni socialiste, dall’altro riuscirono talvolta a intrecciarsi con le rivendicazioni di classe di quel decennio in materia di difesa della salute nei luoghi di lavoro, rivelando la presenza di una coscienza ecologista ante litteram tra le file operaie. Quello del Petrolchimico Montedison di Porto Marghera è forse il caso più emblematico di ambientalismo working-class: il 28 febbraio 1971, il Comitato Politico degli Operai presentò al Convegno Operaio di Mestre il testo “Contro la nocività”, una delle prime elaborazioni sistematiche, firmata da impiegatə di fabbriche inquinanti, dell’accusa al degrado umano e ambientale provocato da posti di lavoro insalubri e insicuri e dalla mancanza di salvaguardia delle risorse naturali e degli ecosistemi locali.
Le battaglie per l’ambiente e la spinta anti-lavorista degli anni Settanta riuscirorono talvolta a intrecciarsi con le rivendicazioni in difesa della salute nei luoghi di lavoro, rivelando una coscienza ecologista ante litteram tra le file operaie.
Questa e altre iniziative sparse per il Paese produssero risultati significativi tra cui lo Statuto dei Lavoratori (1970) e la riforma del sistema sanitario nazionale (1978), in cui alcuni dei principi elaborati dal “modello operaio” legati alla prevenzione e alla partecipazione furono accolti, riconoscendo la centralità dei “saperi grezzi” dei lavoratori – in quanto soggetti direttamente colpiti dalle conseguenze della nocività – ai fini del miglioramento delle condizioni in fabbrica. Il nesso tra salute, rappresentanza e democrazia incrocia inoltre l’esigenza di sottoporre la produzione industriale al soddisfacimento di un reale bisogno sociale e alla salvaguardia del territorio, affrontando la questione qualitativa del “cosa, come e quanto produrre” anziché limitarsi a mere richieste quantitative (“più soldi e meno lavoro”).
L’ecologia operaia andava quindi definendosi come una prospettiva interessata alla progettazione “dal basso” di una tecnologia anticapitalista compatibile con la riproduzione della vita, umana e non, sul pianeta, basata su una conoscenza acquisita sul campo e che si avvale della consulenza dei tecnici, senza esserne soggiogata; ma, a quell’altezza, il paradigma working-class non fu in grado nè di slegarsi del tutto dal ricatto occupazionale cui la classe lavoratrice era costretta a sottostare, nè, più avanti, di attutire il colpo della sconfitta del movimento operaio negli anni Ottanta, cui seguì la riarticolazione di nuove dinamiche dettate dagli esiti della globalizzazione.
Un ulteriore aspetto da notare è che l’eredità della “primavera ecologica” dei Settanta non fu raccolta e messa prontamente al servizio di quelle forme di resistenza emerse dal rinnovato panorama sociale che tentò di contrastare l’impeto controrivoluzionario del decennio successivo. Formatosi in larga discontinuità con le rivendicazioni del lungo Sessantotto – a differenza di altre esperienze europee come per esempio in Germania, dove nei Grünen era confluito lo zoccolo duro della militanza studentesca – quello dei Verdi italiani si connotava, come ricorda Paolo Virno, per il fatto di essere “movimento politico moderato, pieno di coloro che avevano rinunciato e denunciato l’azione radicale”, in parte provenienti da quelle frange extra-parlamentari che pur andavano esaurendosi.
Figli eterogenei del Novecento, derivavano da un arcipelago ecologista disomogeneo e poco coeso, abitato da gruppi locali autonomi, pensatorə isolatə, slanci pacifisti e anti-nucleari, associazioni per la protezione animale e del patrimonio artistico-paesaggistico, che differivano per (a)politicità, trasversalità e azione diretta. Su di loro, persisteva il pregiudizio della sinistra “rossa”, che diffidava della questione ambientale in quanto ritenuta freno e diversivo ideologico-sociale dalle urgenze reali, quelle cioè ancora imbevute del più tradizionale dei pensieri operaisti (industrialismo e mito del progresso indiscriminato).
L’eredità della “primavera ecologica” dei Settanta non fu messa prontamente al servizio di quelle forme di resistenza che tentarono di contrastare l’impeto controrivoluzionario del decennio successivo.
L’entrata nello scenario istituzionale – risale al 1986 la formazione della Federazione delle liste verdi e al 1987 l’ingresso in parlamento – avvenne nel corso della parabola discendente della sinistra, approfittando del progressivo liquefarsi della vecchia forma-partito e della maggiore flessibilità del sistema politico italiano nell’accesso alla rappresentanza parlamentare. Qui, però, non riuscì mai a ritagliarsi uno spazio riconoscibile e duraturo, fallendo nel tentativo di allargare la propria base elettorale – continuò a lungo a esser percepita dall’opinione pubblica alla stregua di una “nicchia di categoria” – e di proporre un modello di cambiamento desiderabile. La carica trasformativa della sensibiltà ecologista venne quindi rapidamente disattivata dall’effetto normalizzante della consacrazione istituzionale, rivelando la difficoltà di attecchire incisivamente sia negli alti luoghi di governance che nella società civile.
Cosa succede allora quando a essere risvegliato è proprio l’Impensato dell’autonomismo? Succede che è la nozione stessa di “autonomia” a subire un ripensamento radicale, alla luce della nuova idea di umanità e natura che l’Antropocene ha prodotto. Succede che diventa necessario immaginare la lotta a partire da altri luoghi, alleanze e futuribilità, superando il tenace umanesimo di cui l’autonomismo è intriso, in direzione di un’idea di interdipendenza che dia conto delle entità non-umane e delle intricate reti socio-ecologiche che sorreggono qualsiasi modello di produzione.
Se ci interrogassimo oggi su che cosa sia un movimento rivoluzionario, il caso GKN potrebbe forse dirci qualcosa: dalle esperienze passate di protagonismo operaio recupera il riconoscimento della questione ambientale come intrinsecamente connessa al sistema di relazioni di potere esistenti che struttura la società, insieme alla rivendicazione del controllo dellə lavoratorə sulla produzione tramite l’assunzione della postura di “classe dirigente”, in sfida alla ritirata degli attori pubblici e ai trascorsi fallimenti di natura top-down (come insegnano la parabola discendente dei Verdi o le ritrosie dello Stato nel procedere alla nazionalizzazione della fabbrica strenuamente invocata dal Collettivo). Unendosi alle piazze di Fridays for Future e ai cortei studenteschi, lə operaiə dichiarano a gran voce che la lotta per il futuro dei piani industriali, per l’accesso universale alla conoscenza e per il clima rientrano sotto un’unica agenda.
Le questioni sollevate dal lungo Sessantotto Italiano, anzichè esser state risolte, sono solamente mutate, perchè mutato è in primis lo scenario produttivo. Dal cognitariato al lavoro immateriale, l’avvento del post-fordismo e di un bio-capitalismo necropolitico ed estrattivo si è accompagnato alla dissoluzione dei confini tradizionali (tra capə e sottopostə, tempo del lavoro e tempo libero, liberə professionista e dipendente, lavoro salariato e vita nuda) e all’imporsi silenzioso di nuove configurazioni di sfruttamento. Quel 9 luglio del 2021 lə operaiə GKN da poco licenziatə si sono scopertə parte di una lotta comune, poi diventata di classe, fino a elevarsi a bio-lotta di resistenza anticapitalista, lasciando che fossero le forme organizzative stesse a delinearsi nel loro farsi.
Quando a essere risvegliato è proprio l’Impensato dell’autonomismo, la nozione stessa di “autonomia” subisce un ripensamento radicale, alla luce della nuova idea di umanità e natura che l’Antropocene ha prodotto.
Immerse in una condizione di precarietà economica e psicosociale, risultato di un concetto di crisi inteso non come evento eccezionale ma come stato permanente, “soggettività disperse e isolate non sanno più nulla della sensibilità materialistia che nasce dal collettivo quotidiano, né di una politica del rifiuto che vede la responsabilità di ciò di cui responsabili non siamo, come la prima cosa contro cui ribellarsi”, come ben descrive Claire Fontaine. Ma marcature frequenti iniziano a risuonare tra di loro, piani diversi si ricompongono al grido di “guerra totale”.
I puntini cominciano ad unirsi: siamo al momento conclusivo dello spettacolo, quello dell’applauso interminabile e liberatorio come se un frammento di quel risveglio di coscienze che la resistenza GKN è stata in grado di generare in maniera così incendiaria avesse raggiunto il pubblico in sala dopo un percorso accidentato. Perché, forse, la differenza in questo caso l’ha fatta il processo di soggettivazione che l’operazione politica del Collettivo di fabbrica ha saputo innescare in frange impensate della società civile: la vicenda dellə operaiə che si riconoscono “classe dirigente” non ha niente a che vedere con il sogno neoliberista del “sii imprenditorə di te stessə”, ma riguarda piuttosto l’auto-valorizzazione della propria expertise; lə ricercatorə internə ed esternə all’accademia riabilitano il loro ruolo di co-produttorə di sapere al servizio delle comunità; le professionalità tecniche negano l’incompatibilità tra transizione ecologica e il binomio garanzia occupazionale – continuità produttiva; lə lavoratorə cognitivə realizzano di trovarsi esattamente al posto degli operai di cinquanta, sessant’anni fa, quando forse ancora non erano natə, al cui esempio hanno però la fortuna di poter guardare per imparare a far valere i propri diritti.
Riconoscere la trasformazione in corso significa accorgersi del grande inganno del capitalismo, ossia della narrazione fallace che attribuisce le colpe del cambiamento climatico al 99% della popolazione anziché a quell’1% devastatore, e che continua ad alimentare la falsa credenza secondo cui classe, razza e genere siano elementi secondari anziché strutturali delle discriminazioni in materia di politiche ambientali.
L’Antropocene non è un fatto dell’essere umano nella sua totalità, ma è riconducibile a precisi soggetti e configurazioni di potere che trasformano l’energia biologica biosferica e dei corpi in forme di lavoro utili al capitale, come il lavoro salariato (spesso sottopagato e sempre meno fisso) o quello non retribuito di donne, categorie marginalizzate, oppresse e colonizzate, soggetti naturali e naturalizzati; il tutto affiancato dal costante fenomeno di proletarizzazione globale. Quello che la crisi planetaria multi-layer ci richiede ora è secondo Jason W. Moore l’adozione di un’ecologia rivoluzionaria, nel senso di un’ecologia di speranza che prenda atto del “cambiamento di stato” di ordine geologico ma anche intellettuale: una transizione a una visione relazionale della geografia e della storia in senso olistico per cercare di capire “la verità come un tutto”.
L’Antropocene è riconducibile a precisi soggetti e configurazioni di potere che trasformano l’energia biologica biosferica e dei corpi in forme di lavoro utili al capitale, come il lavoro salariato o quello non retribuito di categorie marginalizzate.
Sfoderando un approccio intersezionale al conflitto, lə dimostranti GKN tentano di ricongiungere diverse segmentazioni a livello politico, costruendo una piattaforma rivendicativa che poggia stabilmente su di una concezione dilatata di classe lavoratrice (e quindi di lavoro), oltre che di ambiente lavorativo, inteso sia come luogo fisico che come territorio. Con la sua funzione sociale di contrasto alle disuguaglianze dentro e fuori la fabbrica e mostrando che una nuova relazionalità è possibile, il Collettivo si fa quindi portatore dell’ideale di giusta transizione, ricordandoci che, anche se non siamo tuttə colpevoli allo stesso modo, la lotta ha sempre a che fare con un “noi”.
“Perché noi qua probabilmente perderemo, a meno che voi non ci diciate come state”. Cala il sipario, ma l’applauso non accenna a interrompersi: lo spettacolo è appena cominciato.