P erché avere una civilizzazione se non siamo più interessati a comportarci civilmente?” Se lo chiede Frank, il protagonista della commedia nera God Bless America (2011), dopo aver constatato per l’ennesima volta che l’Occidente contemporaneo è un mondo in declino, popolato perlopiù da persone che considerano argute le barzellette omofobe e razziste, dove fare battute sullo stupro simboleggia la libertà d’espressione e “dove il commento shock conta più della verità”. In seguito all’ennesimo torto subìto, la risposta che finisce per darsi il mite e (fino a quel momento) civile Frank è scoraggiante: “non si può”. Lungi dal rassegnarsi, però, si arma di una calibro 45 e avvia la sua pulizia della società contemporanea: sotto i suoi colpi cade tanto chi rumina pop corn nel cinema quanto chi partecipa ai talent, unendo così Un giorno di ordinaria follia a Stupid White Men.
Ma passiamo dalla finzione alla realtà: per puro caso, in quello stesso anno Massimo Gramellini scriveva su La Stampa che “la prevalenza del cretino, o comunque del mediocre, raggiunge la sua apoteosi in quella caricatura di democrazia che è diventata la nostra democrazia”. Come si vede, il giornalista evidenziava con colore diverso lo stesso problema trattato nel film canadese, differenziandosi solo nel tipo di cura suggerita: anziché ipotizzare l’eliminazione fisica degli analfabeti per mano di latinisti disoccupati e astrofisici frustrati, l’articolo sosteneva che “per realizzare una democrazia compiuta occorre avere il coraggio di rimettere in discussione il diritto di voto”.
Era – lo ripeto – il 2011, e si era ancora appena agli albori dell’istituzionalizzazione di quell’anti-intellettualismo reazionario che negli anni successivi avrebbe trovato rappresentanza politica in numerosi parlamenti occidentali. Già allora si poteva però notare la progressiva diffusione di una sorta di élitarismo nozionistico, formalmente antitetico al gentismo, ma speculare a esso nel dividere la società in buoni e cattivi e a scaricare sul prossimo la causa dei propri mali (e talvolta copiandone perfino alcuni tic comunicativi).
Tuttavia, ridurre la questione a un semplice rigurgito aristocratico sarebbe sbagliato: innanzitutto perché le questioni legate al complesso rapporto tra la democrazia e gli elettori risalgono ai tempi di Platone; inoltre, più prosaicamente, perché in tempi più recenti l’uso sistematico delle cosiddette fake news per scopi elettorali ha incrinato la sacralità della prassi democratica quale metodo di governo efficiente oltre che “giusto”.
Tesi
Chissà: forse sbagliamo a considerare gli assunti democratici come irrinunciabili. Forse associamo a essi valori etici che in verità sono indipendenti. Forse, anzi, è proprio a causa di queste false equivalenze (per esempio: voto = dignità umana) che permettiamo all’ignoranza di avvelenare i pozzi, col risultato di produrre politiche oggettivamente peggiorative.
Se le cose stanno così, allora perché non guardare con freddezza alla situazione attuale, liberarsi di certi dogmi e chiedersi “perché insistiamo ad adottare la democrazia quando potrebbero esistere forme di governo migliori”?
Proprio da questa domanda parte il politologo americano Jason Brennan, che nel saggio/pamphlet Against Democracy (Princeton Press, 2016) indossa i panni di un Frank illuminato, duellando con numerosi assunti e princìpi democratici per dimostrarne l’inadeguatezza di base e suggerire una soluzione radicale: il passaggio a un’altra forma di governo, l’epistocrazia, termine coniato dal collega David Estlund per definire un sistema politico in cui il diritto di voto è subordinato alla conoscenza degli argomenti.
Il ragionamento di fondo è semplice: così com’è giusto sottoporre i cittadini all’esame di guida al fine di limitare i potenziali danni al prossimo, allo stesso modo è giusto che a influire su decisioni che riguardano la collettività siano solo persone informate, in quanto il diritto collettivo a essere governati con competenza viene prima di quello dell’espressione di volontà del singolo. In fondo non è ciò che facciamo già adesso con i minorenni? E allora, sostiene Brennan, poiché la collettività resta ignorante anche dopo il raggiungimento della maggiore età, l’unico modo per raggiungere standard qualitativi adeguati consiste nell’adozione di una forma di governo in cui il diritto di voto è assegnato in base a criteri meritocratici.
A Brennan bisogna riconoscere se non altro il dono della chiarezza: la sua tesi è esplicitata immediatamente e senza giri di parole, consentendo a chiunque di chiudere il libro qualora la trovasse vagamente rétro. Chi invece fosse rimasto incuriosito dallo stile pugnace dell’autore – magari trasecolando di fronte alla negazione delle virtù della democrazia – può proseguire nella sua disamina delle presunte storture del processo democratico e dei (falsi?) truismi che ne giustificherebbero il valore.
Forse sbagliamo a considerare gli assunti democratici come irrinunciabili. Forse associamo a essi valori etici che in verità sono indipendenti.
Primo fra tutti è quello secondo cui il singolo voto conti qualcosa: “Un voto fa la differenza solo in caso di parità […], ma la probabilità che una persona conti qualcosa in un pareggio sono insignificanti. […] Le statistiche più ottimistiche suggeriscono che, in caso di elezioni presidenziali, il singolo voto potrebbe risolvere un eventuale pareggio solo se l’elettore vivesse in uno swing state e solo se appoggiasse uno dei partiti principali”. Paradossalmente, prosegue Brennan, questa oggettiva irrilevanza numerica è ben nota all’elettore stesso che, intuendo di vivere in un sistema che rende il suo voto numericamente ininfluente, si sente legittimato a non informarsi.
È questa una visione utilitaristica del voto ritenuta ragionevole dall’autore (che si definisce “un pragmatico” per cui “la politica non è poesia”) anche quando essa porta all’apatia politica e all’ignoranza. Ignoranza su cui però torna a più riprese per dimostrare come, in caso di elezioni e scelte politiche, sarebbe ormai più logico affidarsi al caso. Non è un modo dire: analizzando i risultati di alcuni questionari distribuiti dall’ANES in occasione di diverse tornate elettorali (con domande elementari come: “Qual è il partito mediamente più conservatore? a) Repubblicano b) Democratico”), il numero di errori è stato tale che se ogni partecipante avesse lanciato in aria una monetina per scegliere la risposta si sarebbero ottenuti risultati migliori.
E allora cosa si può fare per correggere il tiro?
Poco o niente: secondo Brennan è infatti il sistema a rendere inevitabile tale ignoranza, portando così a una immuno-deficienza che ne rende impossibile il miglioramento dall’interno; quindi, fintanto che insisteremo a votare con suffragio universale, saremo condannati a convivere con le conseguenze di scelte inconsapevoli e spesso sbagliate. Con un’ulteriore aggravante: a fianco degli analfabeti passivi della politica (che Brennan chiama Hobbit), vi è un’altra categoria di elettori non meno nociva della prima, quella degli Hooligan, ovvero persone più informate della media il cui difetto consiste però nell’essere afflitte da una faziosità così radicata da renderle irrazionali e irragionevoli, inquinando così ulteriormente la qualità del dibattito pubblico. Anche nel loro caso la causa primigenia di simili deficit cognitivi va cercata nella prassi democratica più che nei singoli individui, soprattutto nella tendenza dei partiti a polarizzare pretestuosamente le opinioni per costruirsi un’identità e un seguito elettorale.
Antitesi
Proprio quest’ultima osservazione ci porta al primo problema di Against Democracy: molte delle critiche partono da osservazioni e statistiche riferite alla sola esperienza americana, quando invece sarebbe stato interessante – e doveroso – fare paragoni con sistemi strutturalmente analoghi, ma caratterizzati da un tasso di istruzione più elevato, da sistemi elettorali differenti oppure provenienti da percorsi storici diversi.
Per esempio, logica ed esperienza mi suggeriscono che la sensazione di irrilevanza personale risulta più accentuata nei sistemi elettorali maggioritari che in quelli proporzionali; in alternativa, può talvolta dipendere dall’impressione di vivere in un paese a sovranità limitata dove la propria volontà non è rispettata. Peraltro, guardando al periodo storico attuale, è interessante notare come in questi casi il risultato spesso non è l’apatia o l’astensionismo, bensì la volontà di votare chiunque prometta di restituire il potere decisionale all’elettorato.
Al di là dei singoli esempi, comunque, sono molti i problemi menzionati nel libro che a uno sguardo più attento non risultano affatto comuni a tutte le democrazie, ma variano in quantità e qualità a seconda dei casi. Non sono sistemici, ma particolari. Di conseguenza, ascriverli a un modello non è solo scorretto dal punto di vista analitico, ma risulta anche fuorviante sul piano pratico, dato che è possibile – perlomeno in teoria – correggerli senza il bisogno di stravolgere interi ordinamenti costituzionali. Il minimo che si possa dire, dunque, è che il titolo Against Democracy è inesatto, se non proprio disonesto. Ma questa è solo una parte del problema.
Sono molti i problemi menzionati nel libro che a uno sguardo più attento non risultano affatto comuni a tutte le democrazie, ma variano in quantità e qualità a seconda dei casi.
L’altra, più grave, sta a monte della critica e consiste in un feticismo per i numeri tipico di un iperliberalismo – corrente a cui Brennan appartiene – secondo cui la veridicità di un’ipotesi è verificabile solo ed esclusivamente attraverso la raccolta di dati scientifici e statistiche: ciò che non è quantificabile è fuffa o materiale per poeti. Di conseguenza, l’intero volume è pervaso da una “tecnicizzazione della ragione” per cui le cifre sono la realtà; e, se questo approccio algebrico ha tradizionalmente il difetto di rendere gli uomini incapaci di immaginare alternative alla semplice gestione del presente (come evidenziato da John Ralston Saul in Voltaire’s Bastards), nelle sue manifestazioni più estreme e arroganti produce ipotesi di ordine sociale che, nonostante un substrato di complessità matematiche, risultano in fondo semplicistiche e talvolta disumane.
In tal senso colpisce la sproporzione tra la profondità formale delle critiche mosse alla “democrazia” (a questo punto le virgolette sono d’obbligo) e la superficialità con cui Brennan promuove la soluzione proposta, cioè l’epistocrazia. A partire dalla sua formulazione: cosa significa infatti “governo degli edotti”? Cosa intendiamo con “conoscenza”? E quale sarebbe l’indicatore corretto di conoscenza oltre il quale otterremmo l’autorizzazione a votare? Soprattutto, chi lo dovrebbe stabilire e, di conseguenza, come dovrebbe avvenire il passaggio da un sistema all’altro?
Pur riconoscendo l’importanza di simili domande, lo spazio dedicato alle risposte è esiguo (un capitolo su nove, 25 pagine su 245) e, inevitabilmente, i risultati sono insoddisfacenti. Per esempio, basta prendere sul serio il suggerimento di istituire una sorta di “tribunale epistocratico” dotato di un arbitrario potere di veto sulle decisioni dell’elettorato (pp. 215-218) per far apparire la democrazia più bella di quanto sia. Per non dire poi della faciloneria con cui scrive della transizione dal suffragio universale a un sistema di voto ristretto, quasi che sia pacifico presupporre la resa volontaria del principio di rappresentanza da parte dei cittadini; al di là dell’ingenuità in sé, è come se i rigurgiti nazionalisti che negli ultimi anni attraversano l’Occidente – che fanno proprio della sovranità personale e collettiva un feticcio – non esistessero, o fossero assimilabili a una forma di ignoranza o fanatismo qualunque.
Ma, al di là dell’insussistenza pratica delle proposte di Brennan, molto resta da dire sul loro valore intrinseco; siccome farlo nel dettaglio richiederebbe troppo spazio, prendiamo un caso simbolico. Nel bestiario degli elettori figura una categoria di persone istruite, razionali e spassionate che rappresentano il modello di individuo tramite il quale l’epistocrazia si dovrebbe rivelare più efficiente della democrazia: sono i Vulcaniani, così definiti in omaggio al Dr. Spock di Star Trek. Fuor di metafora, l’autore riconosce che essi attualmente equivarrebbero a “bianchi di classe medio-alta, istruiti, con un posto di lavoro”: ebbene, se così fosse, vorrei sapere come si concilia questa visione con il fatto che Trump sia stato votato anche da un cospicuo numero di laureati che, nel caso dei bianchi, lo hanno addirittura votato a maggioranza (49% contro il 45% della Clinton).
A meno che non si voglia considerare l’attuale presidente statunitense un modello di competenza, verrebbe da dire che il risultato rappresenta una negazione significativa della visione di Brennan; così come, a margine, che venerare logiche da “test-clinici-dimostrano-che” è sintomatico non di pragmatismo, bensì di pochezza argomentativa (specialmente quando ogni secondo giorno escono studi che sconfessano quelli del giorno precedente). Purtroppo, temo che per avere una parziale retromarcia dovremo aspettare un po’: all’indomani della vittoria di Trump, Brennan ha infatti ignorato la questione, concentrandosi esclusivamente sugli ignoranti.
L’idea che un’aristocrazia formalmente meritocratica non sia la soluzione ideale per appianare le disparità non turba Brennan.
Ma in fondo non importa. Anche in assenza di dimostrazioni pratiche, basta vedere la disarmante facilità con cui si accantona il problema etico di un corpus elettorale composto da soli bianchi benestanti per porsi qualche domanda sulla bontà intrinseca dell’epistocrazia. L’autore non ci aiuta: la questione non gli interessa più che tanto, poiché, pur riconoscendone la fondatezza, sostiene che si tratti “solo” del sintomo di un male preesistente e che quindi andrebbe risolto come una questione a sé. Confortato da alcune statistiche pescate dagli ultimi cinquant’anni americani (a fronte della cautela suggerita da quaranta secoli di storia umana), l’idea che un’aristocrazia formalmente meritocratica – ma fortemente connotata sul piano economico e razziale – non sia la soluzione ideale per facilitare l’appianamento delle disparità non lo turba; così come non lo turba sostenere che i ricchi e gli edotti rappresenterebbero comunque meglio gli interessi degli ignoranti incapaci di comprendere il loro posto nel mondo (una sorta di “fardello dell’uomo istruito” che renderebbe orgoglioso Kipling).
Il punto è che Brennan è semplicemente accecato dall’inefficienza di quella che chiama “democrazia”, per cui reputa ozioso lambiccarsi sui dettagli e sui costi che potrebbe avere l’adozione dell’alternativa epistocratica. Per lui, rifiutarla a priori significa solo una cosa: che siamo vittime di un’ortodossia democratica non supportata dai fatti. A volergli dar retta, l’unica cosa rimasta da fare è un tentativo e vedere come va: solo allora (dati alla mano, ça va sans dire) potremo stabilire cosa è meglio.
Sintesi
In teoria la diffusione di tesi simili potrebbe preoccupare alcuni ma, finché saranno viziate dalla grossolanità delle proposte di Brennan (che si giustifica ripetutamente dicendo che il tema è un altro: eh no, troppo comodo), direi che i problemi restano altri. Infatti, malgrado la lista dei difetti della “democrazia” sia lunga e talvolta argomentata in modo brillante, alla fine l’alternativa non convince: presentata nei suoi termini, l’epistocrazia resta un’utopia – non si sa quanto desiderabile – da Bar Sport, un “fosse per me, li ucciderei tutti” in forma aulica. Resta difficile stabilire se il problema sia la tesi in sé o le argomentazioni da droide protocollare dell’autore, ma tant’è: per dirla da vulcaniani, alla domanda “Perché non l’epistocrazia?” si può solo rispondere che: “L’ipotesi è stata presentata in maniera talmente vaga che, nonostante gli indubbi difetti dei sistemi attuali, solo un Hooligan la riterrebbe ragionevole”.