“Negli Hotels di dubbia fama [ad Alessandria] la maggior parte delle stanze sono abitate da goriziane. Ai caffè circondate da giovinetti discoli vedete le pretese goriziane… chi guasta la pace in famiglia è di solito la serva chiamata goriziana”.
(Da una lettera anonima al Corriere di Gorizia, 25 marzo 1886).
S ul finire dello scorso anno si sono celebrati i 150 anni dall’apertura del Canale di Suez: un evento epocale che rivoluzionò il mondo dei commerci e con esso la geopolitica mondiale. Per la prima volta nella storia dell’umanità, Mediterraneo e Oceano Indiano erano direttamente connessi, attraverso il Mar Rosso: Occidente e Oriente si scoprivano vicini come mai prima. L’Egitto, che da lì a breve sarebbe diventato de facto un protettorato britannico, tornava a essere un epicentro dei traffici commerciali globali, recuperando una centralità persa da secoli. Il Cairo e soprattutto Alessandria registravano una crescita vertiginosa, soprattutto sul piano commerciale.
Nel frattempo, frotte di borghesi europei accorrevano da oltremare, attratti dalle possibilità di guadagni facili, sostenuti e garantiti. Fiorivano ambienti culturali frequentati dall’élite intellettuale, dove il francese fungeva da lingua franca. Figure come Giuseppe Ungaretti e Filippo Tommaso Marinetti emergeranno da questo milieu multiculturale, poliglotta e tollerante, separato dalla popolazione locale araba, in gran parte analfabeta, semi-schiavizzata, pressoché segregata anche nella geografia della città. I dagherrotipi dell’epoca immortalano famiglie numerose ed eleganti. Lievemente in disparte, ma ben visibili accanto a bambini e ragazzi azzimati, si notano spesso delle donne. Giovani, carnagione bianca, anche loro in abiti raffinati, di raso, di pizzo, di seta. Sono le Aleksandrinke.
Dal 1869, anno di inaugurazione del canale, oltre ottomila donne si trasferirono in Egitto dai territori meridionali dell’impero asburgico (oggi Veneto settentrionale, Friuli Venezia Giulia, Slovenia, Carniola). I numeri, meticolosamente annotati nei registri parrocchiali, sono precisi: indicano nomi, date, professione dei genitori, stati civili, porti di partenza e di destinazione. Da alcuni comuni rurali dell’area attorno a Nova Gorica emigrò più del 10% della popolazione femminile, principalmente nella fascia di età compresa tra i 15 e i 30 anni: una percentuale tanto alta da alterare sensibilmente e in maniera spesso definitiva il tessuto sociale di questi borghi.
Il luogo di partenza era quasi sempre Trieste, all’epoca porto principale dell’impero austro-ungarico. I piroscafi salpavano dal Molo dei Bersaglieri, a due passi da Piazza dell’Unità; la traversata durava tre giorni. La maggior parte di queste donne era originaria dall’area che oggi forma il Goriziano, la regione più occidentale della Slovenia, al confine con l’Italia. Per questo motivo, allora, erano conosciute come “les Slovènes” o “les Goriciennes”. Sebbene la lingua madre di queste giovani fosse generalmente lo sloveno, provenendo da un’area così stratificata dal punto di vista storico-culturale, spesso parlavano anche il tedesco, il friulano e l’italiano (o il dialetto triestino).
La presenza delle Aleksandrinke in terra nord-africana durò per quasi un secolo, interrompendosi bruscamente nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando la progressiva ascesa al potere da parte di Nasser determinò la graduale emigrazione – consigliata o imposta – della borghesia di origine europea.
Come moltissime donne migranti che oggi affluiscono in Italia dall’Europa Orientale e dall’Asia sudorientale, le Aleksandrinke ricoprivano principalmente mansioni legate al lavoro domestico. Erano nutrici, balie, badanti, a volte cuoche, presso le famiglie più abbienti della società egiziana. Lavori che svolgevano già in patria – celeberrima Peppa Sabaz, la tata slovena di Umberto Saba – ma che in Egitto erano ben più remunerativi. Alcune di queste lavoratrici si fermavano sulla sponda meridionale del Mediterraneo solo un paio di anni, altre interi decenni.
Avevano fama di essere materne come le mediterranee, ma affidabili come le nordeuropee; abituate al pragmatismo dalla dura vita in campagna nel Goriziano, l’appartenenza all’Impero asburgico garantiva loro anche un grado di educazione medio molto superiore alle colleghe che abitavano le terre limitrofe. Questi i motivi che le rendevano la prima scelta per i maggiorenti in cerca di servitù qualificata. Non era raro che una giovane goriziana, una volta terminato il lavoro presso una famiglia, venisse da questa raccomandata a parenti e amici, che le affidavano fiduciosi l’allevamento dei figli. Amici, cugini e nipoti spesso finivano quindi a provare un affetto e una devozione filiali per la stessa persona, come testimoniato dai regali che tanti di loro invieranno a queste donne, ormai in pensione, negli anni della maturità.
Queste migranti trans-mediterranee divenivano infatti parte integrante del nucleo familiare, allevando la prole altrui mentre vedevano la propria crescere solo nelle rare fotografie che giungevano dall’Europa. La distanza geografica, socio-economica e valoriale dal luogo d’origine, dove i mariti amministravano (non sempre oculatamente) le rimesse inviate a casa, era un peso gravoso sulle spalle delle Aleksandrinke.
Difficile – già all’epoca – trovare due luoghi più diversi di Alessandria e il Goriziano, come paesaggio, stili e tenore di vita. In Egitto le Aleksandrinke guadagnavano circa quattro volte di più di quello che potevano aspettarsi svolgendo occupazioni simili nella terra natia. Talvolta, avevano la possibilità di visitare i cari durante i soggiorni europei delle famiglie presso cui prestavano servizio: approdate al porto di Trieste, prendevano il treno per tornare a casa, cariche di manufatti, fotografie, souvenir dal paese delle piramidi. Scese dal vagone, trovano ad accoglierle carri agricoli malconci e case prive di acqua corrente e servizi igienici, situazioni di sottosviluppo materiale e culturale a cui le balie di Alessandria si erano nel frattempo disabituate.
Viste le proporzioni imponenti, non passò molto tempo prima che le istituzioni si attivassero per sistematizzare e normare questo fenomeno migratorio. A fine ‘800 venne aperto l’Asilo Franz Jozef, in seguito affidato alla gestione delle suore scolastiche. Per le slovene d’Egitto questo ente fungeva da agenzia di collocamento, luogo di ritrovo domenicale e, non da ultimo, supervisore morale della condotta che esse tenevano lontano dal campanile sotto cui erano cresciute. Altre associazioni, come Sloga (“Concordanza”), poi ribattezzata Slovenska palma ob Nilu (“Palma slovena sul Nilo”), cercavano di alleviare la sofferenza iscritta in vite di sacrificio e nostalgia, passate lontano da casa, amici e affetti.
Per comprendere quanto siano stati fondamentali i soldi che queste ragazze riuscivano a mandare a casa, basta pensare agli innumerevoli, tragici sconvolgimenti che interessarono la zona da cui provenivano nella prima metà del secolo scorso. Già feroce campo di battaglia tra Regno d’Italia e Impero austro-ungarico durante la Prima guerra mondiale, con il Trattato di Rapallo (1920) queste aree vennero assegnate al Belpaese. Non è un caso allora che il picco delle partenze per l’Egitto si verificò nel primo dopoguerra, quando vennero a mancare le possibilità economiche e le garanzie sociali connaturate all’amministrazione di Vienna. Con l’avvento di Benito Mussolini (1922) la situazione peggiorò ulteriormente. Le comunità allogene autoctone – gli sloveni e i croati finiti in Italia loro malgrado – subirono il duplice processo di italianizzazione e fascistizzazione. I vari tipi di vessazioni e soprusi cui queste persone erano sottoposte – divieto di utilizzare la propria lingua madre, italianizzazione forzata di cognomi e toponimi, chiusura di associazioni culturali e giornali – erano accomunati dal tentativo di annichilire la storica presenza slava.
L’oppressione si intensificò negli anni dell’Adriatisches Küstenland (1943-45), il biennio di occupazione tedesca. Alla radicata slavofobia che animava la loro ideologia, i nazisti sommarono la repressione brutale della resistenza condotta dai partigiani capeggiati dal Maresciallo Tito. L’equivalenza tra “slavo” e “comunista”, cui si sottraevano solo i collaborazionisti locali (domobranci, belogardisti e ustascia), si tradusse in ondate di pulizia etnica e uccisioni sommarie. All’epilogo della Seconda guerra mondiale, buona parte dell’area venne inglobata (de facto nel 1948, de iure nel 1954) dalla Jugoslavia socialista, dove la Slovenia figurava tra le sei repubbliche costituenti. Il “confine orientale” dell’Italia, imperniato proprio su Gorizia, divenne la propaggine meridionale di quella Cortina di ferro che divideva l’Europa post-bellica e, metaforicamente, il pianeta intero. Anni atroci, durante i quali il flusso costante di denaro inviato dalle Aleksandrinke permise molto probabilmente di strappare un numero incalcolabile di connazionali all’inedia, alle malattie e – in alcuni casi – ai rastrellamenti.
Eppure, per quasi tutta la seconda metà del Novecento, più che con riconoscenza, la società slovena (e jugoslava) ha guardato all’Aleksandrinstvo e alle sue protagoniste con diffidenza e disapprovazione. Le vicende delle Aleksandrinke sono state relegate a lungo all’oblio – e così le loro voci. Anche una volta ritornate in patria, queste donne si trovavano generalmente avvolte da un clima di sfiducia e sospetto, nutrito da quelle stesse comunità cui avevano permesso di sbarcare il lunario. Venivano accusate di aver abbandonato i figli, dimenticato le tradizioni, adottato uno stile di vita lascivo e depravato. Una degenerazione testimoniata, secondo i pubblici censori, dagli abiti e dalle borse raffinate, dalla foggia dei cappellini, dalle diverse lingue da loro assimilate (arabo compreso), dalle nuove abitudini acquisite lontano dalle sponde della natia valle del Vipacco. In breve: avevano tradito Dio, patria e famiglia. Nella fantasia bigotta dei concittadini rimasti nel Vecchio Continente, l’Egitto era un luogo di perdizione, corruzione del corpo e dello spirito, ricettacolo di tentazioni le cui spire non avrebbero potuto che avvinghiare le povere e inesperte giovani slovene che solcavano il mare per lavoro.
Tuttavia, se c’era un bagaglio valoriale che le Aleksandrinke effettivamente riportavano con sé in patria, esso non era tanto il frutto della resa alle tentazioni del profano ambiente arabo, come fantasticava l’iconografia paternalista dei catoni rimasti a casa. Alcune recenti ricerche sul tema hanno in effetti dimostrato che l’atmosfera cosmopolita e sincretica di Alessandria avesse realmente un’influenza sulla mentalità di queste giovani donne. Dopo anni di lavoro all’estero, esse finivano spesso per avvicinarsi a un’idea, almeno embrionale, di emancipazione femminile. Non di rado era per loro difficile (ri)adattarsi alle rigide gerarchie patriarcali che reggevano le società contadine da cui provenivano.
Fu probabilmente questo destino ingiusto, dettato da incomprensioni e insinuazioni sospettose, a decretare il lungo silenzio piombato sull’epopea dell’Aleksandrinstvo. Una rimozione che scoraggiò – in Slovenia e negli altri paesi interessati dal fenomeno – il varo di serie operazioni di ricerca, ricostruzione e narrazione di questa laterale, ma importante memoria di migrazione femminile.
In Italia (e in italiano) la loro storia è infatti rimasta pressoché sconosciuta. Tra le poche eccezioni un reportage firmato da Paolo Rumiz (2005); una miscellanea (2008) curata da Franco Però, anche autore di uno spettacolo dedicato; un giallo ispirato al tema, Stanca morta (2016); e l’accurato lavoro accademico intrapreso dalla storica slovena di origine italiana Marta Verginella.
Oltreconfine invece, la parabola delle Aleksandrinke ha seguito una traiettoria imprevedibile. Divenuta indipendente con un’incruenta secessione dalla Jugoslavia nel 1991, negli ultimi anni dello scorso millennio la Slovenia era alla ricerca di esempi virtuosi di patriottismo. Queste migranti trans-mediterranee si prestavano alla causa. Permettevano di enfatizzare lo spirito di sacrificio, l’abnegazione, la dedizione della nazione slovena. Alle Aleksandrinke sono allora stati dedicati libri, approfondimenti trasmessi dalla televisione pubblica, ricerche accademiche. Il loro vissuto ha varcato la soglia delle aule scolastiche. Donne un tempo stigmatizzate sono state elette a modello, sono entrate a far parte della gloriosa mitologia nazionale. A questa meritata fama, tuttavia, non si accompagnò inizialmente una rilettura critica dell’immagine stereotipata assegnata a queste lavoratrici. Soprattutto le opere di narrativa (firmate da autori maschi) indugiavano volentieri sul supposto libertinaggio di queste ragazze, che, stando invece ai racconti delle stesse, perlopiù trascorrevano tra messa e tè con le amiche l’unico giorno alla settimana in cui avevano il diritto di sottrarsi dalle incombenze domestiche.
Se nel Ventunesimo secolo si è potuto dare giustizia alle eccezionali biografie di queste donne, è soprattutto grazie alle loro eredi. Nel 2005 a Prvačina, cittadina della Valle del Vipacco, alcune di loro hanno fondato l’Associazione per la preservazione del patrimonio culturale delle Aleksandrinke per studiare, diffondere e tutelare la memoria a lungo vituperata delle loro madri, nonne, bisnonne. Di recente Darinka Kozinc, presidente dell’associazione, ha pubblicato Les Goriciennes, un’antologia di racconti dedicati a queste migranti dimenticate – il primo libro sul tema scritto da una donna. I prodotti artistici più recenti – tra cui un film e una canzone – pongono l’accento sulla sofferenza di queste tate novecentesche, sulla stoica fermezza con cui hanno affrontato gli anni lontano dagli affetti familiari. Una riabilitazione postuma. Quasi nessuna Aleksandrinka, infatti, ha potuto beneficiare di questo tardivo riconoscimento. Solo alcune di loro sono riuscite a lasciare una propria testimonianza, trovando finalmente il coraggio di raccontarsi. Dando voce, dopo lunghi decenni di silenzio, alla loro storia:
Chi parlava male delle Aleksandrinke non capiva che, senza i soldi che mandavamo dall’Egitto, molti mariti, suocere e bambini sarebbero morti di fame. Non hanno mai voluto capire che avevamo guadagnato quei soldi in maniera onesta. Sento di doverlo dire, per onorare almeno la memoria di tutte quelle tra noi che sono state giudicate ingiustamente.[Dora Arčon, Aleksandrinka]
Con il contributo di Leonardo Battistelli ed Ester Gomisel.