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er lungo tempo la casa è stata soprattutto una soglia. Si è abitato sulla porta e per strada, più che chiusi fra quattro mura; e si è costruito di persona invece di entrare in luoghi già predisposti. Da un paio di secoli tutto è cambiato. Spesso in peggio, visto che l’inurbamento selvaggio e centralizzato ha portato a segregazione, diseguaglianze, e un’involuzione del rapporto fra uomo e ambiente. Ma in parallelo si sono sviluppate anche forme di resistenza e creatività a questo concetto uniformato dell’abitare: l’architettura vernacolare, l’autocostruzione, l’occupazione di spazi inutilizzati, ecovillaggi, le comuni, i campi di rom e sinti.
Nel suo recentissimo Abitare illegale (fresco di stampa per Milieu), l’antropologo Andrea Staid racconta proprio tale varietà di pratiche: e ne restituisce non soltanto l’originalità, ma anche il valore esemplare. Per chi desidera immaginare una società diversa, queste esperienze sono tutt’altro che esperimenti marginali o forme di escapismo: sono invece suggestioni per il futuro, feconde di possibilità pratiche.
Nell’introdurre il volume, Marco Aime ricorda che “ogni spazio di abitazione risponde non solo a esigenze di tipo pratico, ma rappresenta un importante spazio che viene caricato di simboli”. In effetti i fenomeni legati all’autonomia abitativa sono numericamente marginali, in Occidente; ma tutt’altro che secondari da un punto di vista simbolico. L’analisi di Staid parte proprio dal riconoscimento che non c’è una sola maniera di vivere uno spazio, nonostante la predominanza di un unico modello: quello della casa creata da altri secondo norme statali, e quindi presa in affitto o comprata. Tutte le modalità che esulano da tale modello possono apparire aberrazioni; ma per l’autore testimoniano “un vero atto di resistenza all’omologazione”.
L’antropologo Andrea Staid racconta la varietà di pratiche abitative: ne restituisce non soltanto l’originalità, ma anche il valore esemplare.
Con questo libro, Staid mette un nuovo tassello a un lavoro che dura da tempo, e ha sempre illuminato con intelligenza realtà rimosse dalla narrazione collettiva. Basti pensare a I dannati della metropoli (Milieu 2014) sulle origini sociali della microcriminalità migrante. L’etnografia di Staid è vissuta sul campo, alla Danilo Montaldi: è fatta di partecipazione osservante e di attenzione teorica, ma anche di autentica passione. Un mattino di sole freddo, a Milano, ho fatto una chiacchierata con lui su tutto questo.
Il tuo approccio mi sembra condensato in una piccola frase contenuta in Abitare illegale: “osservare per capire le possibilità dell’abitare informale”. Una modalità lenta, dialogante, di osservazione che non giudica. A tuo avviso in che modo uno sguardo antropologico può aiutare a comprendere la complessità del tessuto sociale urbano, e smitizzare alcune narrazioni piatte dei giornali?
Sì, sui giornali abbondano. Questo perché a volte ci sono giornalisti che non hanno voglia di fare bene il loro lavoro; ma anche perché molti non hanno fondi per farlo come si deve. Lo dico perché non sono nemico dei giornalisti, ma di quell’osservazione del territorio che vuole solo fare notizia: piatta, appunto. L’antropologia invece non può assolutamente cadere nell’errore di diventare reportage frivolo: deve essere in grado non tanto di dare risposte, ma di creare le giuste domande per guardare la contemporaneità in modo profondo.
Il metodo di lavoro è sempre lo stesso: pormi nella maniera più dialogante possibile, e soprattutto senza pregiudizi. Anche per questo raccolgo esperienze molto diverse — le comunità dei domenicani e le occupazioni del quartiere di san Siro, ad esempio — ma provo a farle risuonare insieme, per così dire. Anche perché trovo abbiano un fondamento simile: innanzitutto il non voler delegare la propria capacità di abitare e convivere.
In ogni caso questo metodo, fatto di lentezza nell’approccio ed educazione, mi ha permesso di non invadere e di essere accolto dai miei interlocutori (non mi piace chiamarli “intervistati”). E per me è stato bellissimo. Innanzitutto perché queste persone erano fiere nel mostrarmi come e dove vivevano, e come ricodificavano il nostro concetto di abitare.
Uno degli aspetti più preziosi del tuo libro è che distrugge dei pregiudizi: quello diffusissimo sui rom e sinti, ad esempio. In particolare mi ha colpito l’idea che il superamento del campo non è sempre la soluzione più ovvia. Vi sono campi — o meglio villaggi, un termine decisamente più corretto — che al contrario sono puliti e ospitali. E giustamente chi ci abita non vuole finire in un casermone popolare. Ti va di approfondire il tema?
In effetti rom e sinti sono sempre vittima di pregiudizi. Io non volevo mitizzarli: come tutte le comunità hanno anche loro dei problemi — ci mancherebbe altro. Ma volevo restituire dignità al loro modo di vivere, non tanto attraverso le mie interpretazioni bensì attraverso le loro parole.
Iaio, un abitante del villaggio Le Rose di Chiesa Rossa, dice appunto delle cose estremamente interessanti al riguardo. Noi tendiamo a vedere sempre il campo nomadi come un posto degradato, sporco e dove si vive male. Certo: ci sono luoghi del genere. Ma ce ne sono anche tantissimi — e intendo la maggioranza — dove si vive molto bene e in tranquillità, secondo le regole di un’autogestione quotidiana del “saper fare” collettivo. Così appunto al villaggio Le Rose. Iaio mi ha fatto un discorso di questo tipo: c’è una legge che può risolvere situazioni marginali, con condizioni di invivibilità, e va bene. Ma quella stessa legge calata dall’alto su spazi che funzionano, è stupida. Se ci ho messo trent’anni ad avere i permessi, mi sono costruito una bella casa, perché dovete cacciarmi da qui e mettermi in un appartamento dove sto male? E non è che ci volete mettere nelle case popolari per poi dire che i rom le rubano agli italiani? Ma noi non le vogliamo, le case popolari. Noi stiamo bene qua.
Capitolo occupazioni. Mi sembra chiaro, sia nel modo in cui descrivi queste pratiche sia leggendo le conversazioni avute con varie persone coinvolte, che per te il fenomeno non sia soltanto una soluzione a un problema grave come l’assenza del tetto, ma anche una forma di liberazione sociale e di creazione di quanto chiami “welfare autogestito”. Quindi non solo un gesto contro, ma anche un gesto produttivo e di carattere comunitario, solidale.
Parlo di “welfare autogestito” perché i movimenti di occupazione delle case non si limitano, appunto, a occupare case o aprire appartamenti con porte lamierate. Questi movimenti non pensano all’abitare come ormai viene concepito in Occidente: stai nel tuo appartamento e stop. No, ci vedono innanzitutto una forma di convivenza e relazione con l’altro; e questo crea un welfare dal basso quasi in automatico. Non abbiamo i soldi per comprare i prodotti bio? Organizziamo
Genuino clandestino e facciamo arrivare cibi buoni e a prezzi popolari. Non possiamo andare a teatro? Portiamo gli attori sensibili negli spazi collettivi dei quartieri. Non possiamo permetterci il cinema? Cineforum all’aperto con film proiettati sui palazzi. Non abbiamo spazi di condivisione? Si rioccupano le strade: mettiamo tavoli fuori e si chiacchiera.
Tutto ciò lo chiamo “welfare” anche perché c’è chi ne difende materialmente la possibilità. Gli esempi che ti ho fatto sono più o meno illegali — non paghi la SIAE, occupi uno spazio pubblico — ma grazie ai comitati di lotta, sono conquiste che durano; anche in base ad accordi informali con la polizia della zona. E questo porta a una revisione molto interessante dell’abitare urbano: quasi una forma di eterotopia, come direbbe Foucault. Non un’utopia inarrivabile, ma realtà diverse create e custodite ogni giorno.
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Poi, anche in questi casi ci sono problemi, come ovunque. Mitizzare questi quartieri è sbagliato: ma bisogna riconoscere che senza occupazioni quelle zone starebbero peggio. Facciamo un esempio: una famiglia di immigrati egiziani nel quartiere occupato di san Siro. Marito e moglie lavorano sodo, ma non guadagnano più di milletrecento euro al mese. Ecco, lì — nonostante le difficoltà economiche — possono andare a teatro, mandare i figli in una palestra con corsi di boxe o yoga…
Ecco, sulla questione legalità/illegalità. Mi sembra che in tal caso il tema sia agitato più come un feticcio che altro. Non vorrei fare benaltrismo, ma nell’invocare il rispetto delle leggi nei confronti di occupanti o forme di autocostruzione, ci si dimentica la tragedia illegalista dell’edilizia italiana: infiltrazioni mafiose, costruzioni al di là di ogni norma, periferie abbruttite e così via.
Assolutamente sì. Io sono nato in periferia: sono un ragazzo di Opera, conosco bene il disagio di vivere nei palazzoni. Ora, è più illegale tenere ventimila appartamenti chiusi con i riscaldamenti accesi, o il gesto di una famiglia senza casa che apre uno di quegli appartamenti e se lo prende? Viviamo in un Paese dove ogni giorno ci sono scandali di immigrati che lavorano nei cantieri edili in condizioni terribili: e poi vieti l’autocostruzione perché è pericolosa? Ovvio, né io né te possiamo improvvisarci costruttori…
Su questo ci arriviamo a breve. Intanto, mi pare che in alcuni casi vi sia un fruttuoso rapporto dialettico tra abitare illegale e legislazione, per cui le istanze poste dal primo si trasformano — magari con un processo lungo e conflittuale — in norme riconosciute.
Questa è la posta in gioco. Negli anni ’70, c’erano anarchici che occupavano le case e dicevano: “Noi l’affitto ve lo paghiamo. Ma ve lo paghiamo il dieci per cento del salario”. Chi è povero paga poco, chi è ricco paga tanto: e già questo è un ricodificare le norme in maniera intelligente. È giusto che la comunità partecipi affinché si sviluppi un welfare; è giusto che ognuno dia qualcosa: ma secondo le sue possibilità.
Saltiamo di palo in frasca: mi parli dei wagenplatz? Fra tutte le forme di abitare informale, sono quelli che trovo più curiosi.
Ah, i
wagenplatz! Per chi non li conosce potrebbero sembrare dei semplici accampamenti urbani. Non lo sono. Nascono in Germania nella seconda metà degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, con la lenta crisi del regime sovietico da un lato e le perplessità generate dal mondo capitalista dall’altro. Molti giovani iniziano a ripensare la vita partendo proprio dalla forma abitativa: ecco allora i
wagenplatz, ovvero furgoni, carovane, case autocostruite, che però sorgono all’interno delle città.
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Il wagenplatz di cui parlo nel libro è dentro al parco centrale del quartiere di Kreuzberg, a Berlino. È impressionante: tu entri e ritrovi una comunità dove varie persone, vivono liberamente ma dandosi delle regole precise e condivise. Questo va ricordato: per ricodificare la vita quotidiana è indispensabile seguire delle norme; nessuno vuole vivere nel caos. Ma sono norme create dal basso, rinegoziabili, e discusse in assemblea. E allora il wagenplatz è un luogo dove si vive in modo strettamente ecologico (quasi sempre l’energia elettrica è autoprodotta) e si costruiscono spazi di vita molto creativi e colorati, quasi in stile steampunk. E si creano nuove possibilità di esistenza comunitaria.
Nel libro discuti anche l’importanza dell’autocostruzione dopo le tragedie naturali, come i recenti terremoti in centro Italia: riappropriarsi del luogo senza restare traumatizzati e chiusi in gelidi container.
Una delle persone con cui ho parlato, Mina, mi ha fatto una domanda illuminante: “Secondo te quante persone sono morte dopo il terremoto?”. Non a causa del sisma,
dopo: quanti si sono imbruttiti, quanti si sono suicidati, quanti hanno perso il lavoro, quanti vivono in case di lamiera — caldissime d’estate, umidissime d’inverno — che fanno morire gli anziani di artrosi?
Allora la cosa essenziale dopo una tragedia del genere è riattivare subito la comunità, il mutuo appoggio. L’autocostruzione cosciente e ben fatta rimette in circolo energie vitali, ma anche l’economia del territorio. Far erigere casette da grandi multinazionali nega la possibilità di mettere a frutto professionalità che magari sono già presenti; e di formare lavoratori che potrebbero costruire case in modo diverso. Quella di Mina è in canapa: economica, ecologica, rapida da mettere in piedi, e del tutto antisismica. Perché non preferirla a un container?
Come vedi, non stiamo parlando di fricchettoni che vanno a vivere in abitazioni di canapa per originalità. Stiamo parlando di persone colpite da una calamità, e che riattivano processi di ricostruzione sociale in modo intelligente — utilizzando quelle architetture vernacolari, tradizionali, che abbiamo dimenticato quasi per intero.
A questo proposito: mentre leggevo Abitare illegale, immaginavo un’obiezione standard. Non c’è il rischio di sottovalutare la professionalità, nel parlare di autocostruzione? Ed è possibile mettere valorizzare questo sapere senza imporlo dall’alto ma anche senza rifiutarlo in blocco, del tipo “Faccio da me e faccio sempre bene”? Io non vorrei vivere in una casa pericolante.
Certamente. Come dicevo prima, né io né te possiamo improvvisarci autocostruttori. Ma possiamo imparare. Possiamo iniziare una mutazione culturale che ci porti a ritornare
homini faber, dagli
homini comfort che siamo diventati (per citare
Stefano Boni), a
homo faber. Io voglio continuare a fare l’antropologo e scrivere libri: detto questo, vorrei anche poter gestire un problema legato alla mia casa, senza sempre delegare ad altri. E se non posso gestirlo, affidarmi a qualcuno che mi possa insegnare.
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Lo stesso vale per il costruire: un altro degli interlocutori nel libro, Michelangelo, mi ha raccontato della sua comunità montana dove erigevano storicamente muri a secco. Questo sapere si è perso; lui, per tirare in piedi casa sua, l’ha imparato da alcuni muratori albanesi. E soprattutto ha capito che non poteva lanciarsi nell’impresa da solo: bisogna sempre costruire con intelligenza e condividendo le proprie conoscenze. Questo sia per evitare che il tetto ci cada sulla testa, ma anche perché il modello di abitare verso cui stiamo tenendo — quello delle megalopoli — non regge, non è sostenibile. Anche a livello sociale. Fuori dalle città possiamo immaginare architetture più compatibili: nelle città, possiamo quantomeno rivivere lo spazio urbano ricordandoci degli altri. Magari solo imparando a scambiare qualche parola in più con i nostri vicini: si costruisce persino in questo modo.
Logan, abitante del Black Butte Center in California — una comunità autocostruita — dice: “Dammi tempo a sufficienza e posso costruire qualsiasi cosa”. Forse c’è un rapporto profondo tra la scarsità di tempo in generale della società e città contemporanea, e l’erosione/consumo delle risorse: non abbiamo tempo per fare, quindi ci affidiamo sempre a terzi. Che ne pensi?
È un discorso interessante e molto complesso. La riappropriazione del tempo e dello spazio, no? Logan ha capito proprio questo: se non spreca tutte le sue capacità intellettuali e fisiche per un mero salario, ne recupera altre quasi inimmaginabili. E con l’aiuto degli altri, può creare degli spazi che siano belli, comodi e confortevoli: anche per chi li abiterà in futuro. Quindi non si tratta solo di saper costruire una capanna, ma anche di valorizzarla esteticamente. Nel mio libro non c’è mai il mito della miseria. Un’occupante milanese, Strepsiade, lo dice con chiarezza: “Bisogna avere cura e amore del luogo in cui vivi, non puoi occupare e mostrare degrado, gli occupanti devono essere orgogliosi, essere il bello della società, non il degrado”. È quanto afferma Logan. Grazie al tempo ritrovato, ha imparato a fare di tutto: e a fare qualcosa di cui andare fiero. Qualcosa di bello, appunto.
L’intreccio fra sperimentazione abitativa e ispirazione libertaria mi sembra molto forte: del resto è un tema che ti è caro. Ci vedo in filigrana Colin Ward, ma anche Lefevbre — il diritto alla città come base teorica della riappropriazione degli spazi. Come dici tu, si tratta trasformare i cittadini “da destinatari a partecipanti”. Il tuo è un lavoro militante. Quale spazio c’è per un tipo di critica del genere oggi? E quale pubblico?
Secondo me l’antropologia come lavoro artigianale è troppo interessante per essere lasciata in mano agli accademici. Alcuni sono molto bravi, ovvio: ma la pratica antropologica non è fatta per restare chiusa in un’aula universitaria. Motivo per cui, a un certo punto, ho deciso di fare una ricerca vera, mettendo in gioco anche la mia struttura politica e ideale.
Ciò detto, non mi definirei “antropologo militante”: non lavoro su ambiti in cui milito in prima persona. Non vivo in una casa occupata né sono nel comitato di un’occupazione: ho sempre fatto parte del movimento libertario, ma mi fanno un po’ paura gli studi dei militanti per i militanti. Io vorrei portare la passione dell’attivista nei miei libri; ma avere anche il rigore del vero antropologo. E soprattutto, mi interessa creare un’ibridazione fra mondi diversi: pubblici molto politicizzati e scuole, università e strada. Questo perché ho sempre amato alimentare dibattiti e non pensare di avere ragione: sono sempre stato un sostenitore di un’etnografia polifonica, non egemonica. Tante voci diverse che si parlano.