F ino ai primi anni del Duemila il panorama della Cumbria, regione nordoccidentale inglese al confine con la Scozia, oltre al Vallo di Adriano e all’Abbazia di Furness includeva anche due imponenti torri vicino alla parte di costa opposta all’Isola di Man. Le torri oggi non sono più visibili; i loro camini sono stati portati all’altezza degli edifici circostanti con un paziente lavoro di trapanatura, poiché non potevano essere semplicemente abbattute. Cinquemila tonnellate di mattoni, cemento e acciaio sono state portate via sui montacarichi, lasciando dietro di sé i resti di due reattori nucleari che si prevede saranno smantellati verso la fine di questo decennio.
Quando ancora la Cumbria era divisa in Cumberland, Westmorland e parte del Lancashire, questi reattori erano noti come pile di Windscale e furono teatro del primo incidente nucleare di rilevanza pubblica, nonché il più grave nella storia dell’Europa occidentale. Oggi il nome Windscale non compare nelle mappe: il sito è stato rinominato Sellafield, ma rimane una delle aree con la più alta contaminazione radioattiva al mondo, paragonabile a quella del sito nucleare ancora in smantellamento ad Hanford, negli Stati Uniti, e all’area intorno allo stabilimento di Majak negli Urali del Sud, oltre ovviamente alla zona di esclusione di Černobyl’.
Le origini del progetto atomico inglese
Non sappiamo se la bomba atomica avrebbe avuto il ruolo che ha avuto, se non fosse stato per gli inglesi. Nel corso degli anni del nazismo, scienziati di famiglia ebraica, fuggiti dalla Germania e dai suoi territori occupati, avevano ricevuto ospitalità presso università ed enti di ricerca di altri paesi, tra cui soprattutto gli Stati Uniti e il Regno Unito. Le potenzialità delle reazioni di fissione nucleare, con le quali un flusso di neutroni provoca la scissione di alcuni atomi pesanti e la produzione di grandi quantità di energia, erano ormai note tra gli addetti ai lavori. Il presidente Franklin Delano Roosevelt era stato già sollecitato diverse volte in proposito da fisici e chimici emigrati negli Stati Uniti, timorosi che i ricercatori tedeschi, guidati da una squadra di tutto rispetto che faceva capo a Werner Heisenberg, potessero sviluppare un’arma micidiale a partire dalla fissione.
Tuttavia, il governo americano non sembrava così ansioso di investire nella ricerca nucleare, che inizialmente si svolgeva in modo frammentario e disorganizzato in vari enti di ricerca sul territorio. Nel frattempo, all’università di Birmingham, i due fisici espatriati Rudolf Peierls e Otto Frisch avevano formulato un memorandum nel quale per la prima volta esponevano le potenzialità tecnico-pratiche di un’arma atomica. Il memorandum, datato 1940, portò alla costituzione di un comitato e all’avvio di un progetto, chiamato in codice Tube Alloys, che avrebbe stimolato la ricerca americana e sarebbe infine confluito nel Progetto Manhattan, nel quale la ricerca britannica e americana lavorarono congiuntamente.
Tuttavia, alla fine della guerra, con il MacMahon Act, il governo americano decise di interrompere la collaborazione con i britannici e li tagliò fuori, di fatto, dalle informazioni riservate sulla ricerca nucleare bellica. Con le tensioni crescenti dai due lati della cortina di ferro, il Regno Unito si trovò a dover considerare la minaccia di un’aggressione senza il supporto degli Stati Uniti, e decise di intraprendere lo sviluppo di un programma militare atomico indipendente, il che, secondo il governo, avrebbe potuto rappresentare anche un fattore di prestigio internazionale. Il progetto, chiamato in codice “High Explosive Research” (ricerca sugli esplosivi ad alto potenziale) aveva l’obiettivo di conseguire un arsenale di duecento bombe a fissione entro il 1957, sotto la supervisione di William Penney, soprintendente alla ricerca sugli armamenti. Si decise di concentrare gli sforzi sulla fabbricazione di bombe al plutonio. Come location, fu scelta un’area che aveva ospitato la produzione di esplosivi nel corso della guerra, pochi chilometri a nord del villaggio di Seascale.
La pila di Windscale
Un reattore a fissione nucleare consta solitamente di tre parti essenziali: il combustibile nucleare, tipicamente uranio, alloggiato nel nocciolo; un moderatore, che rallenta il flusso di neutroni alla velocità ottimale per la fissione dell’uranio; e un fluido refrigerante, che evita il surriscaldamento del combustibile e, nei reattori per la produzione di energia, convoglia il calore alle turbine collegate al generatore di tensione. L’uranio può essere naturale oppure può essere stato sottoposto ad arricchimento, un processo che all’epoca era molto dispendioso e complicato e che aumentava la frazione di uranio che andava effettivamente incontro a fissione.
Alcuni reattori, come gli RBMK di concezione sovietica, sono progettati per produrre sia energia, sia plutonio a scopi bellici, ma la maggior parte delle centrali nucleari si occupano o dell’una o dell’altra cosa. A Windscale si decise di costruire due reattori destinati a produrre plutonio per gli armamenti, in aggiunta ad altri elementi radioattivi per scopi medici e di ricerca. Per contenere i costi e mantenere il controllo nazionale totale sulla produzione, si optò per un reattore della filiera gas cooled reactor, con uranio naturale come combustibile, grafite (carbonio puro) come moderatore e aria come fluido refrigerante.
Nel nocciolo, il combustibile era sagomato in cartucce di lunghezza pari a circa trenta centimetri, rivestite di alluminio per impedire il contatto con l’aria, che avrebbe portato a incendiare l’uranio incandescente; era inoltre alloggiato in canali orizzontali scavati nel blocco di grafite. La struttura del nocciolo permetteva un ricambio continuo di combustibile, virtualmente senza interruzioni: man mano che il combustibile si esauriva, cartucce “fresche” venivano inserite nella parte anteriore del blocco di grafite, un’operazione che spingeva quelle più vecchie, che si trovavano dal lato opposto del canale, in una piscina di raffreddamento.
Windscale fu teatro del primo incidente nucleare di rilevanza pubblica, nonché il più grave nella storia dell’Europa occidentale. Oggi il sito è stato rinominato Sellafield ma rimane una delle aree con la più alta contaminazione radioattiva al mondo.
Da lì, quando erano sufficientemente fredde, erano ripescate e inviate al vicino impianto di ritrattamento, dove il plutonio e gli altri elementi radioattivi venivano estratti tramite procedure di separazione chimica. All’interno del nocciolo erano scavati altri canali dove passava l’aria di raffreddamento, la quale finiva poi aspirata in una ciminiera alta 120 metri – la famosa torre. Era poi possibile attivare dei ventilatori per generare un flusso ulteriore d’aria in caso di necessità.
Quando, a ridosso del 1950, le ciminiere erano quasi completate, il fisico nucleare Terence Price fu colto da un dubbio che a quanto pare sino a quel momento non era venuto a nessuno: forse prima o poi una delle settantamila cartucce di combustibile poteva danneggiarsi e l’uranio, che a regime raggiunge le migliaia di gradi, avrebbe potuto prendere fuoco, col rischio di incendiare anche la grafite. La struttura delle pile non prevedeva un edificio di contenimento esterno; se si fossero davvero incendiati l’uranio o la grafite, il particolato radioattivo, trascinato dall’aria calda fuori dalle ciminiere, si sarebbe facilmente diffuso sui pascoli del Cumberland. Terence Price non era molto rinomato, e nessuno diede ascolto alle sue obiezioni. Nessuno, tranne Sir John Cockroft.
Il folle Cockroft
John Cockroft, oltre a essere il fisico britannico a capo del progetto, non era una voce facile da silenziare. Negli anni Trenta, insieme al collega irlandese Ernest Walton, Cockroft aveva compiuto una serie di esperimenti all’Università di Cambridge con un acceleratore di protoni di loro concezione, chiamato appunto generatore Cockroft-Walton, e nel 1932 – lo stesso anno in cui fu scoperto il neutrone, che aveva reso possibile la fissione nucleare – i due erano riusciti per la prima volta a spezzare un nucleo atomico bombardandolo con protoni. Per questa impresa, Cockroft e Walton avrebbero ricevuto il premio Nobel per la fisica di lì a poco, nel 1951.
Non solo: Cockroft aveva personalmente supervisionato la costruzione dei reattori americani nel corso del progetto Manhattan, acquisendo un’esperienza e un’autorevolezza difficilmente contestabili. Così, alla fine, riuscì a imporre l’applicazione di filtri di assorbimento alle ciminiere della pila di Windscale. Ciò causò ritardi e sforamenti di budget e gli valse qualche malumore da parte di altri collaboratori al progetto. I filtri ricevettero così il nomignolo di Cockroft’s folly, la follia di Cockroft.
Come invece fu poi appurato in seguito, la rottura delle cartucce divenne la regola, anziché l’evento accidentale: capitava spesso infatti che, mentre procedevano lungo i canali, si incastrassero e dovessero essere spinte a forza, o che all’uscita dal canale cadessero non nella piscina di raffreddamento, ma fuori.
Nel corso degli anni, si verificarono diversi episodi di dispersione di polveri radioattive, molte delle quali furono trattenute dalla “follia di Cockroft”. I tempi non erano maturi per la trasparenza e la coscienza ambientale, e così nessuno ufficialmente seppe né disse mai nulla, nemmeno quando nella primavera del 1957 un incidente non chiarito causò il rilascio di stronzio-90, un elemento radioattivo che tende a fissarsi nelle ossa, e la contaminazione del latte in circa ottocento fattorie del Cumberland e dintorni. Latte che fu venduto e consumato come sempre.
Pochi mesi dopo, si sarebbe costituita ufficialmente l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, e presto avrebbe dovuto fronteggiare la sua prima grossa crisi in Europa.
L’incidente
I problemi dei reattori di Windscale non si esaurivano qui. Quando la grafite è sottoposta a un flusso di neutroni come in un reattore, accumula gradualmente energia, che rilascia in “sbuffi” improvvisi e imprevedibili di calore: un fenomeno detto effetto Wigner, dal nome del fisico ungherese naturalizzato americano Eugene Wigner che per primo lo descrisse. Per prevenire questa pericolosa eventualità, che poteva causare un incendio nel nocciolo, si procedeva a “cuocere” periodicamente la grafite con un processo chiamato annealing, che permetteva un rilascio graduale e controllato dell’energia termica accumulata. Col tempo, la grafite diventava sempre più refrattaria al processo, che doveva essere ripetuto più volte.
Nell’ottobre 1957, davanti all’incidente nessuno aveva idea di come intervenire, perché non era stata definita una procedura di emergenza per un incendio nel nocciolo.
Così successe, per esempio, il 7 ottobre 1957. Il primo reattore si stava scaldando un po’ troppo, e gli operatori decisero di “cuocerlo” perché si liberasse del calore in eccesso incamerato. Se l’annealing funziona, il rilascio di calore dovrebbe portare a un iniziale aumento della temperatura, poi a un graduale raffreddamento. In quel caso, invece, anziché riscaldarsi, tutto il reattore si raffreddò, tranne un canale – il 2053. Gli operatori dedussero che la procedura aveva funzionato solo per quel canale, e quindi il giorno dopo eseguirono un’ulteriore ricottura un po’ più vigorosa, senza aspettare che il canale 2053 si raffreddasse; stavolta, l’operazione diede i risultati desiderati.
Tuttavia, la mattina del 10 ottobre le temperature nel reattore avrebbero dovuto già cominciare a scendere, e invece si stavano ancora alzando. Gli operatori, perplessi, decisero di rimuovere il calore in eccesso attivando i ventilatori in modo da aumentare il flusso d’aria. Non sapevano che il secondo annealing, eseguito troppo presto e con troppa energia, aveva mandato a fuoco una cartuccia di uranio nel canale 2053. Le fiamme, alimentate dal flusso d’aria dei ventilatori, si propagarono alle cartucce circostanti e fecero aumentare ancora le temperature del reattore; contemporaneamente, le misure di radioattività nella ciminiera cominciarono a salire, e un operatore che era appena arrivato alla centrale segnalò che del fumo scuro stava uscendo dalla ciminiera.
Il personale non aveva modo di verificare se nel nocciolo fosse in corso un incendio, perché l’unico visore remoto installato nel reattore non funzionava. La questione fu chiarita solo con l’intervento del vice-manager dell’impianto Tom Hughes che, insieme a un altro operatore, si recò fisicamente nell’edificio del reattore e asportò un pezzo di copertura del nocciolo dal lato frontale. “Vedemmo, con nostro completo orrore, quattro canali di combustibile incandescenti di un brillante color rosso ciliegia”. Il manager dell’impianto, Tom Tuhoy, indossò l’equipaggiamento protettivo e si recò diverse volte al di sopra dell’edificio del reattore, esponendosi a una dose significativa di radiazioni per esaminare il reattore dall’alto.
Nessuno aveva idea di come intervenire, perché non era stata definita una procedura di emergenza per un incendio nel nocciolo. Le fiamme raggiunsero presto il lato posteriore del reattore, e cominciarono a lambire il cemento del locale della piscina, che rischiava di collassare tirandosi giù tutta la torre e lo scudo di protezione biologica; le temperature superarono i 1300 gradi e l’uranio cominciò a fondere.
L’uso dell’acqua in presenza di un metallo fuso è altamente sconsigliato, poiché il metallo si ossida liberando idrogeno dall’acqua e creando le condizioni per una reazione esplosiva. Nel corso del 10 e dell’11 ottobre si tentarono varie soluzioni: gli operatori provarono a spingere le cartucce incendiate nella piscina di raffreddamento, ma queste rimasero bloccate. Si tentò l’uso di anidride carbonica liquida, ma non ce n’era in quantità sufficiente. Solo correndo il rischio, sigillando il reattore, privandolo d’aria e raffreddandolo con acqua, l’incendio si estinse l’11 ottobre. Per tre giorni, le torri di Winscale avevano buttato polveri radioattive in aria; la follia di Cockroft ne aveva trattenute circa il 95%, ma il 5% che sfuggì fu sufficiente a raggiungere Norvegia, Paesi Bassi e alcune regioni dell’Europa continentale.
Il rapporto Penney
Nel 1990, con l’introduzione della scala di gravità degli eventi nucleari detta INES, l’incendio di Windscale fu classificato come un evento di grado 5, “incidente con conseguenze ampie”, allo stesso livello del ben più noto incidente di Three Mile Island. Ma nel 1957 non si parlava ancora di preparedness né di comunicazione tempestiva di incidenti industriali alla popolazione, specialmente se questi incidenti avvenivano in impianti di rilevanza militare. William Penney ricevette l’incarico di stendere una relazione sull’incendio con la collaborazione di un comitato, che consegnò il rapporto due settimane dopo.
L’UKAEA, autorità britannica in fatto di energia atomica, era desiderosa di lasciarsi l’incidente alle spalle, anche alla luce dei complessi negoziati con cui il governo inglese stava tentando di ristabilire una collaborazione con gli Stati Uniti sugli armamenti nucleari. Perciò il primo ministro Harold Mcmillan decise di divulgare solo un riassunto stringato dell’incidente, in cui peraltro gran parte della responsabilità veniva addossata al manager Tom Tuhoy e al personale, tutte persone che pure si erano esposte a grossi rischi nel corso dell’evento pur di cercare una soluzione. Il rapporto integrale sarebbe stato reso pubblico solo oltre trent’anni dopo, nel 1988, aggravando l’immagine del comparto nucleare già provata dal disastro di Černobyl’.
Le prime stime della radioattività emessa nell’ambiente si attestavano sui 740 terabecquerel di iodio-131 e 22 di cesio-137, quantità rispettivamente 2400 e 3600 volte inferiori rispetto alla contaminazione diffusa da Černobyl’; tuttavia, un riesame dei dati effettuato cinquant’anni dopo sembra suggerire che le quantità reali furono circa il doppio di quanto dichiarato. Le mappature della dispersione di sostanze radioattive nei territori circostanti indicavano che vi erano stati eventi di contaminazione in tempi meno recenti, e che erano stati tenuti segreti.
L’incendio di Windscale potrebbe essere stato responsabile di circa duecento decessi nei decenni dopo l’incidente, principalmente per tumori alla tiroide causati dallo iodio radioattivo e cancro ai polmoni indotto dal polonio.
Il maggior rischio per la salute veniva soprattutto dallo iodio-131, un prodotto della fissione nucleare che ha una radioattività molto alta nei primi giorni dopo la sua sintesi, e che tende a riversarsi nel latte animale, il cui consumo fu proibito in un’area di circa 500 chilometri quadrati attorno all’impianto. Il latte raccolto fu diluito e riversato nel mare d’Irlanda, ma i contadini del Cumberland che avevano lavorato all’aperto nei giorni dell’incendio non vennero informati con precisione di quanto accaduto. Altre informazioni furono omesse dai rapporti successivi, tra le quali una diffusione non meglio specificata di polonio-210.
Dopo l’incendio
Sulla base della revisione pubblicata nel 2007, l’incendio di Windscale potrebbe essere stato responsabile di circa duecento decessi nei decenni dopo l’incidente, principalmente per tumori alla tiroide causati dallo iodio radioattivo e cancro ai polmoni indotto dal polonio. Il condizionale è d’obbligo, considerato che le dosi a cui è stata esposta la popolazione sono comunque relativamente basse e che l’effetto delle radiazioni ionizzati in questi casi è piuttosto difficile da stabilire con certezza.
Un’indagine su 470 lavoratori coinvolti nella bonifica, la cui esposizione è stata senz’altro maggiore, non ha evidenziato significative conseguenze per la loro salute, ma i numeri considerati sono pur sempre piccoli e pertanto è una conclusione da prendere con cautela. Peraltro, analisi successive condotte nel mare d’Irlanda per monitorare il fallout globale dei test delle armi nucleari hanno portato alla luce significative quantità di contaminanti radioattivi nelle ostriche, rilasciate dagli impianti di ritrattamento del combustibile di Windscale, a indicare che in generale tutta la gestione dell’area era problematica per la sicurezza ambientale e la salute.
Il pubblico ben presto rivolse il suo interesse ad altre vicende, ma rimase comunque un certo livello di vigilanza sul nucleare in Inghilterra. Soprattutto, per la prima volta venne portato all’attenzione dell’opinione pubblica europea il problema dello smaltimento dei siti nucleari. La prima pila di Windscale, quella interessata dall’incendio, era totalmente irrecuperabile e fu sigillata dopo aver asportato quanto più combustibile possibile, lasciando indietro 15 tonnellate di uranio che sarebbero state rimosse solo nel 1999.
Nonostante le rassicurazioni dell’UKAEA, anche la seconda pila di Windscale fu giudicata troppo pericolosa e cessò l’attività quasi immediatamente. Nessuno però sembrava sapere come smantellare l’impianto. Negli anni del dopoguerra, infatti, l’urgenza per il Regno Unito era quella di rendersi autonomo dal punto di vista nucleare, scaricando in sostanza il problema del decommissioning a chi avrebbe dovuto occuparsene in futuro; una strategia abbastanza diffusa, in quegli anni, nell’industria nucleare (e non solo) di tutto il mondo.
In quest’ottica rientrava anche la costruzione, sempre nel sito di Windscale, della storica centrale di Calder Hall, un impianto a uranio naturale moderato a grafite e raffreddato ad anidride carbonica che, completato nell’arco di tre anni, nell’ottobre del 1956 era diventata la prima centrale nucleare al mondo a fornire elettricità su scala industriale (e plutonio). Calder Hall chiuse l’attività nel 2003, dopo quasi 47 anni di attività priva di eventi significativi, ma lo smantellamento definitivo dei grandi reattori di questo tipo richiede, in genere, molto più tempo rispetto alle controparti ad acqua bollente e pressurizzata, che usano acqua sia per la moderazione, sia per il raffreddamento.
Quanto alle pile di Windscale, si dovette aspettare fino al 1990 perché iniziasse il decommissioning. I lavori procedettero con smisurata lentezza finché, nel 2018, l’introduzione di alcune innovazioni infrastrutturali permise di accelerare i tempi. Oggi le torri non si vedono più, ma il grosso della grafite altamente radioattiva del nocciolo è ancora lì sotto e dovrebbe essere rimossa, secondo i piani, nei prossimi anni. Anche qui, il condizionale è d’obbligo.
Sellafield è attualmente in fase di revisione e smantellamento, e ospita oggi gli impianti di stoccaggio delle scorie (le attività di riciclo e ritrattamento sono cessate nel luglio del 2022) che complessivamente custodiscono una delle più grandi giacenze di rifiuti non trattati al mondo – inclusa la più grossa giacenza di plutonio per scopi civili, di 140 tonnellate. Alcune strutture di stoccaggio, costruite tra gli anni Sessanta e Settanta, non rispettano del tutto gli standard odierni di sicurezza, ed è pertanto comprensibile che nei paesi circostanti Sellafield generi un po’ di inquietudine. Si prevede che lo smantellamento complessivo delle strutture esistenti a Sellafield si completerà in più di un secolo, con un costo stimato tra i 60 e i 140 miliardi di sterline.
Tutte le immagini della centrale in smantellamento sono tratte dagli archivi Sellafield Ltd.