P rima di Squid Game c’è stato 3%, una serie brasiliana ambientata in un futuro che divide il paese tra chi abita nell’avveniristico Offshore, un’isola tropicale da cartolina dotata di ogni lusso concesso dalla tecnologia, e chi abita l’Entroterra, la gigantesca favela che è diventata il continente. Compiuti vent’anni gli abitanti dell’Entroterra possono sottoporsi a una serie di prove – il Processo – e chi le supera ha il privilegio di abbandonare l’Entroterra e andare vivere nell’Off shore. Solo il 3% passa questa “meritocratica” selezione.
Secondo Marco Armiero, storico dell’ambiente e direttore dell’Environmental Humanities Laboratory del KTH di Stoccolma, 3% è la metafora perfetta del Wasteocene, un concetto che lo stesso Armiero ha sviluppato a partire dal 2017 e al quale ora ha dedicato un libro-manifesto: L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale, pubblicato per Einaudi. Nel volume Armiero spiega che l’apparente utopia dell’Offshore di 3% mantiene nel privilegio una minoranza a scapito di una enorme maggioranza, fatta appunto di scarti, non meno dei rifiuti che produciamo. Eppure, nella serie TV, attraverso il Processo, che dà a tutti la possibilità di sognare la propria individuale emancipazione, lo status quo di queste relazioni tende a mantenersi. L’Offshore è una specie di comunità recintata su larga scala, un paradiso che si crea chiudendo fuori da esso l’inferno, scrive Armiero citando una metafora della scrittrice Rebecca Solnit. Il Wasteocene, l’era degli scarti, però, non è il futuro: nel Wasteocene ci viviamo già da molto tempo. Chiara l’etimologia: waste (rifiuto come sostantivo, ma anche scartare come verbo) si unisce con una o eufonica a -cene, il suffisso usato per le ere geologiche più recenti.
Oggi la crisi dei rifiuti è, senza dubbio, globale. Secondo un lavoro pubblicato su Nature, il peso di ciò che l’uomo ha prodotto (massa antropogenica) ha superato quello della biomassa, cioè la materia vivente. Per dare solo un paragone (molti altri se ne trovano online) la nostra plastica pesa 8 gigatonnellate, il doppio di tutti gli animali messi insieme. Così, siamo diventati il pianeta delle cose, destinate più prima che poi a diventare immondizia. Ma più che degli scarti intesi come rifiuti in senso letterale (che sono un problema enorme) secondo Armiero il Wasteocene è l’era delle relazioni di scarto (wasting relationship), cioè i processi che scartano sistematicamente anche gli esseri viventi, umani e non umani, i luoghi, i saperi e persino i ricordi.
Quale nome per il nostro presente?
Com’è ormai noto, il 22 febbraio 2000, a Cuernavaca (Messico), il premio Nobel Paul Crutzen durante un meeting dello Scientific Committee of the International Geosphere-Biosphere Program (IGBP) disse ai suoi colleghi di smettere di usare la parola Olocene per indicare l’era geologica presente. “Siamo … nell’Antropocene!”, aggiunse, l’epoca in cui gli esseri umani sono diventati una “forza geologica”. A vent’anni di distanza, Antropocene non è ancora ufficialmente il nome dell’era geologica in cui viviamo, e in effetti non c’è nemmeno un chiaro consenso su quando sarebbe iniziata. Ma nel frattempo il concetto di Antropocene è cresciuto molto oltre la sua dimensione strettamente scientifica. “Le scienze umane”, mi dice Armiero, “hanno subito cominciato a interrogarsi su questo concetto, lo hanno sviscerato ed espanso, oltre che criticato”.
Il Wasteocene è un termine che nasce con l’intenzione di mostrare le conseguenze della crisi socio-ecologica, svelare quanto essa sia reale e vicina a noi, oltre che globale.
Dire che gli esseri umani sono una “forza geologica” è un’idea potente ma ha un difetto: suggerisce che tutta l’umanità è stata egualmente responsabile delle alterazioni ambientali. È proprio l’universalismo dell’Antropocene a non funzionare per i critici come Armiero: la crisi ecologica e sociale non può essere trattata semplicemente come un prodotto del genere umano in quanto tale. Per questo, tra i molti -cene alternativi per ribatezzare la nostra epoca, è stato proposto il Capitalocene, l’era del capitalismo: dal nome è subito chiara la connessione tra il sistema economico prevalente e la crisi climatica per causa antropica che stiamo attraversando. E così è nato anche il Wasteocene, che Armiero ha proposto assieme a Massimo De Angelis nell’articolo “Anthropocene: Victims, Narrators, and Revolutionaries”.
Sullo stesso modello sono stati proposti molti altri nomi, tutti filogeneticamente legati all’Antropocene. Troppi, ammette Armiero nel libro. Ma perché ce ne servirebbe un altro, allora? Il Wasteocene, mi spiega Armiero, è della stessa famiglia del Capitalocene, quella cioè degli strumenti analitici nati “dentro e contro” l’Antropocene. Ma mentre il Capitalocene indaga le radici, le origini della crisi socio-ecologica, il Wasteocene intende mostrare le sue conseguenze, svelare quanto essa sia reale e vicina a noi, oltre che globale. Se nella geosfera possiamo in teoria identificare nuovi strati geologici dai nostri rifiuti, il Wasteocene si confronta con l’impatto dei rifiuti sull’organosfera, vale a dire i corpi (umani e non) le loro relazioni socio-ecologiche.
Il Wasteocene, ovviamente, non potrà mai essere il nome ufficiale di un’era geologica, ma vuole essere una chiave interpretativa del presente, che usa la Storia e le storie, a partire da quelle che di solito sono scartate, cioè quelle delle comunità subalterne. Non c’è una data di inizio per il Wasteocene, mi spiega Armiero. “Ma se dovessi piantare un chiodo dorato, come si fa per marcare gli strati geologici, direi che il Wasteocene comincia con l’invasione europea nel Nuovo mondo”. I rifiuti, infatti, ci sono sempre stati, ma è la colonizzazione che ha eliminato dal loro continente o reso schiavi decine di milioni di persone, in modo da estrarre ricchezza (e forse non è un caso, allora, che il razzismo scientifico nasca in questi anni e che giustifichi le relazioni tra sfruttatori e sfruttati).
Riconoscere il Wasteocene
Per spiegare il Wasteocene lo storico si serve ovviamente della Storia, specialmente quella dimenticata, scartata. Uno dei primi esempi nel libro di Armiero è la strage del Vajont. Lo Stato e un’azienda idroelettrica impongono, nel nome del progresso, una infrastruttura idroelettrica su una valle. Gli abitanti conoscono le fragilità del luogo, e le conosce anche la scienza, ma quei saperi che avrebbero dovuto allertare furono invece scartati. Alla fine una frana cade nel bacino, generando un’onda che supera la diga e investe in particolare la città di Longarone: le 2000 vittime sono un altro scarto, imprevisto forse ma non imprevedibile. Non è finita qui, prosegue Armiero, poiché la memoria della strage in seguito è stata addomesticata, seguendo le stesse logiche del Wasteocene.
Fino al celebre spettacolo di Marco Paolini, alla fine degli anni Novanta, quella del Vajont è stata semplicemente una tragedia. Il lutto e le lacrime erano ammessi, ma non la rabbia né la lotta, che nuocciono al permanere (potremmo dire alla resilienza) delle relazioni di scarto. In questo senso andrebbe letta anche la scelta di cancellare nel 2003 il cimitero storico di Longarone per fare posto a un asettico monumento alla memoria dove ogni vittima è rappresentata da un blocco di marmo con nome e cognome. In questo luogo rinnovato, addomesticato, non è più possibile per esempio leggere l’incisione che era sulla lapide originale della famiglia Paiola (sette morti, di cui tre bambini): “Barbaramente e vilmente trucidati per leggerezza e cupidigia umana attendono invano giustizia per l’infame colpa. Eccidio premeditato”.
Le classi sociali non sono tutte ugualmente vulnerabili o responsabili delle emergenze sanitarie e ambientali. Tuttavia si punta a uscire dall’emergenza senza mettere in discussione i rapporti di forza esistenti.
Nella mappa del Wasteocene tracciata dall’autore risaltano Napoli e la Campania, dove Armiero è nato e ha fatto ricerca. E dove anche la cosiddetta emergenza rifiuti può essere letta con gli occhiali del Wasteocene. La “monnezza” è solo l’ultimo capitolo di una saga dove il territorio è stato spartito in maniera tale da estrarre profitto per una parte a scapito di altre. Non è una novità, però. Come le contestate discariche degli ultimi decenni tendono a sorgere nei territori più poveri e meno profittevoli, e si cerca di colpevolizzare chi vi si oppone, alla fine dell’Ottocento un’altra emergenza, quella del colera, diventò una lotta ai poveri (ma non alla povertà). Diversi studiosi descrivono il Risanamento come un’opera di gentrificazione ante-litteram che donò alla borghesia una città più vivibile demolendo decine di migliaia di abitazioni popolari. Chi le abitava si spostò alla periferia della città (dove spesso sorgono le discariche).
Il colera naturalmente tornò, e Armiero da bambino è stato testimone della famosa epidemia del 1973, più volte ricordata durante la pandemia di COVID per la rapidità delle vaccinazioni e l’atteggiamento largamente favorevole a esse da parte della popolazione. Nel ‘73, come nell’Ottocento, il colera c’era e l’emergenza era reale. Ma come scrisse Lotta Continua a proposito della morte di una bambina di 18 mesi: “non solo il colera ha ucciso Francesca Noviello”. La famiglia Noviello, come tante altre, viveva infatti in condizioni disastrose. Nessuno aveva controllato i Noviello, nemmeno dopo il ricovero in ospedale del padre, e Napoli stessa è raccontata da Lotta Continua come un focolaio di infezione permanente “come lo sono anche se in misura minore tutte le città costruite dai padroni”. Commenta Armiero nel libro: “Nonostante il linguaggio e una retorica che sembrano lontanissimi da noi, Lotta Continua offriva un’interpretazione profonda dell’epidemia, descrivendola come la punta di un iceberg di relazioni socio-ecologiche ingiuste che producevano persone e luoghi di scarto”.
Il pensiero va automaticamente alla pandemia. Armiero si è ammalato di COVID-19 nella prima ondata, in Svezia, e mi racconta di essere stato “preso per i capelli”, cioè di aver rischiato la morte. Non deve ringraziare solo i medici, ma anche il fatto di essersi ammalato in un paese sviluppato, e da professore bianco ed economicamente autosufficiente con pieno accesso ai servizi del nostro “Offshore”. Perché anche questa pandemia, come i rifiuti e il colera di Napoli, è un’emergenza che permette di riconoscere le relazioni del Wasteocene. “Oltre alla creazione di profitto, la logica fondamentale del Wasteocene è l’alterizzazione”, mi dice Armiero, cioè la separazione, il muro tra chi e cosa vale e chi e cosa non vale. Una pandemia rischia di far saltare questo muro, visto che minaccia “addirittura” la vita di un professore universitario bianco del nord del mondo. Ecco allora che si fa largo la retorica dell’essere “sulla stessa barca”, pretendendo per esempio che tutti abbiano le stesse possibilità di “rimanere a casa”, in modo da cominciare a “tornare alla normalità” prima possibile. La realtà è, ancora una volta, che le classi sociali non sono tutte ugualmente vulnerabili o responsabili delle emergenze sanitarie e ambientali. Tuttavia si punta a uscire dall’emergenza senza mettere in discussione i rapporti di forza esistenti.
La “monnezza” è solo l’ultimo capitolo di una saga dove il territorio è stato spartito in maniera tale da estrarre profitto per una parte a scapito di altre.
Dai brevetti mai sospesi sui vaccini più diffusi alla loro distribuzione in funzione del Pil, fino all’incapacità di tutelare le fasce più emarginate, a distanza di due anni per Armiero è evidente che “la risoluzione dell’emergenza non cerca di risolvere le cause di ciò che ha causato e favorito la pandemia, né il suo impatto diseguale”. Se infatti, come spiega l’epidemiologo evolutivo Rob Wallace, anche l’origine di COVID-19 può essere ricondotta almeno in parte a “Big Farm”, ovvero l’oligopolio delle grandi agroindustrie che, espandendo i loro allevamenti intensivi sottraggono spazio agli animali selvatici e facilitano lo spillover, il cerchio si chiude.
Si sfruttano persone ed ecosistemi lontano dalla vista, e quando il Wasteocene bussa alla porta sotto forma di virus, l’emergenza esige soluzioni tecniche, che non mettano in discussione i rapporti di forza. “Non torneremo alla normalità perché la normalità è il problema”. Quella famosa scritta luminosa apparsa su un palazzo a Santiago era un’opera del 2019 del collettivo artistico Delight Lab, ma non è un caso che sia circolato nuovamente durante la pandemia, mi ricorda Armiero.
Dalla resilienza alla resistenza
II Wasteocene ha un’altra dimensione rispetto al Capitalocene, che pure potrebbe comprenderlo, cioè quella militante. Come si può fare breccia nel muro che divide chi vale e gli scartati? Un possibile antidoto al Wasteocene per Armiero è il commoning, nome che racchiude le pratiche che costituiscono beni comuni e comunità (commons), un concetto già proposto da altri studiosi. Semplificando, la realtà del commoning è quella di una comunità crea e amministra i beni comuni. Il commoning si realizza attraverso relazioni di cura e condivisione (sharing and caring), in antitesi con quelle del Wasteocene basate sullo sfruttamento. Può sembrare più idealistico che reale, ma gli esempi esistono, assicura Armiero. Uno sono le Brigate volontarie per l’emergenza, gruppi di muto soccorso che si sono attivati in molti paesi, Italia inclusa, per far fronte in modo auto-organizzato all’emergenza COVID-19, portando cibo, farmaci e libri ai più fragili. Non è semplicemente “fare del bene”. Le Brigate della solidarietà si ispirano a personaggi della Resistenza e si oppongono in modo esplicito alle logiche di profitto e privatizzazione denunciate in seno al Wasteocene. Qualcuno si riferisce a questi esempi anche come disaster communism, comunismo dei disastri.
Armiero mi racconta la storia di Can Sant Joan, una cittadina composta prevalentemente da lavoratori migranti vicino a Barcellona. Nel 2006 cominciò una lotta contro un cementificio che aveva ottenuto il permesso di bruciare rifiuti, diventando di fatto un inceneritore che fornisce energia per la produzione del cemento. In teoria, in questo modo il cementificio avrebbe emesso meno anidride carbonica, in pratica Can Sant Joan è diventata ancora più inquinata. Il cementificio è ancora là, ma non è più una comunità di scarto, secondo Armiero. Perché l’attivismo ha avuto dei frutti. Ora la cittadina ospita un teatro, un cinema, un festival della letteratura di poesia, ed è entrata nella Rete Zero Waste ospitando attivisti internazionali. E quando il cementificio si è offerto di sponsorizzare la squadra di calcio giovanile, gli abitanti hanno risposto picche. In questo senso il commoning è riuscito comunque a intaccare le relazioni di scarto, anche nel contesto di una battaglia persa.
Un altro strumento di opposizione al Wasteocene può essere il racconto stesso di queste storie. Per lo storico ci si deve “riappropriare dei mezzi di produzione e riproduzione delle narrazioni”. Portare avanti una “guerriglia narrativa” che dia voce alle comunità subalterne e contrasti le “narrazioni tossiche” che colpevolizzano le vittime e naturalizzano le relazioni socio-ecologiche basate sullo scarto.
Contro i techno-fixes
Mettere al centro della narrazione le “relazioni di scarto” rispetto al rifiuto in senso stretto permette di aggirare la “trappola” della loro reificazione. Quando parliamo di rifiuti, siano essi immondizia o CO2, spesso il discorso si sposta su possibili soluzioni tecnologiche alla “cosa” in sé, invece che alle relazioni socio-ecologiche che l’hanno prodotta. Sono gli approcci che in gergo si chiamano techno-fixes: lo scarto è visto come un problema tecnico, che richiede soluzioni tecniche. Spesso sono le uniche soluzioni di cui si ritiene valga la pena discutere e in questo modo, di fatto, si depoliticizza la questione.
Naturalmente opporsi a una visione tecno-soluzionista non significa affatto rinunciare alla scienza, e in proposito Armiero è molto chiaro nel libro:
In tempi di post-verità, quando la scienza viene messa in discussione in base a esili fondamenta di parte e un’ondata di anti-intellettualismo accompagna l’emergere di movimenti populisti e xenofobi, la mia critica alla competenza scientifica quale
soluzione alla crisi socio-ecologica può essere facilmente fraintesa. In realtà, la scienza non ha soltanto indicato i problemi che l’umanità deve affrontare, ma ha anche contribuito a trovare soluzioni. Il mio ragionamento qui è che non possiamo e non dovremmo aggirare lo spazio complicato e sempre conflittuale della politica. Perché, se il problema è la “cosa” – che siano le emissioni di CO2 o qualunque tipo di scarto –, allora la geo-ingegneria, l’energia atomica o gli inceneritori possono essere la soluzione; ma se vogliamo contrastare le relazioni socio-ecologiche che procurano profitti e potere a pochi individui a scapito di molti, sono queste relazioni che dovremmo cambiare.
Se il concetto Wasteocene farà presa o no, è probabilmente presto per dirlo. Per parte sua, Armiero mi ribadisce che presentando il Wasteocene non intende superare i tanti altri concetti precedenti a cui è debitore e che usa nell’esposizione e che non rivendica un primato che non c’è per vedere crescere le proprie citazioni (il sistema publish or perish, a ben vedere, è l’opposto del commoning). Riconosciuti i propri debiti intellettuali, Armiero ritiene però il Wasteocene una narrazione utile proprio perché esplicita le relazioni socio-ecologiche della crisi e perché offre al tempo stesso una possibilità di cambiamento. È un approccio troppo utopista? Durante un’intervista al programma Quante storie il conduttore Giorgio Zanchini ha definito il progetto di Armiero “ambiziosissimo”. La risposta dello storico è stata: “ma se non si sogna in un libro dove si deve sognare?”.