I l 27 luglio, in concomitanza con l’eclissi lunare più lunga del secolo, Marte si è trovato in grande opposizione: non solo Terra e Marte erano allineati dalla stessa parte rispetto al Sole, ma il pianeta rosso ha raggiunto il punto di minima distanza dalla stella (il perielio). Oggi, 31 luglio, a causa dell’eccentricità dell’orbita di Marte, i due pianeti saranno alla distanza minima reciproca di “appena” 57,6 milioni di chilometri.
Così vicini, e così lontani. Da lontano, Marte ha acceso l’immaginazione letteraria sui suoi paesaggi e popoli, prima che nuovi telescopi e sonde interplanetarie ci restituissero un pianeta freddissimo, arido e deserto, con un’aria irrespirabile e un’atmosfera sottilissima, soggetto a interminabili tempeste di sabbia e privo di un campo magnetico che schermi le radiazioni solari. Oggi è abbastanza vicino per rianimare la nostra immaginazione, a 40 anni dalla fine del programma Apollo, e le nostre fantasie di colonizzazione. Marte è la scelta più conveniente: Venere, che arriva più vicino alla Terra, è soffocato da un terrificante effetto serra, con temperature di oltre 400 gradi e una pressione di 92 atmosfere. Su Marte troviamo, seppur in forme non immediatamente utilizzabili, gli elementi necessari allo sviluppo della tecnologia umana e di futuri insediamenti.
La necessità di un viaggio
Perché intraprendere una missione pericolosa, trascorrendo almeno sei mesi di viaggio in assenza di gravità, esposti alle radiazioni cosmiche e ai flare solari, per poi arrivare in un posto così difficile? Eppure moltissime persone sembrano disposte a investire tempo e risorse in questa missione, anche a costo di fare un viaggio di sola andata.
Le ragioni scientifiche sono più che valide. Studiare Marte sul posto può raccontarci molto sull’origine e sull’evoluzione dei sistemi planetari – e anche sul nostro pianeta. Un’eventuale scoperta di vita microbica presente o passata sarebbe un evento rivoluzionario: rimetterebbe in discussione il nostro posto nell’universo e le teorie sull’origine della vita. E la recente scoperta di acqua liquida salata sotto la superficie del pianeta depone a favore dell’esistenza di nicchie biologiche. Ma sono anche altre le motivazioni che ci spingono a questo balzo nel vuoto.
Per molti (specialmente per il pubblico statunitense) Marte estende il mito della frontiera, lo spirito avventuriero che ha portato l’uomo a viaggiare fino agli angoli più impervi della Terra e a stabilirvisi. Se da un lato il mito della frontiera richiama i fantasmi del colonialismo angloamericano, la sua rivisitazione in termini di collaborazione internazionale può guidare il progresso tecnologico meglio della guerra, aiutare a superare la stagnazione economica, politica e intellettuale e contribuire a creare un nuovo senso di comunità per un obiettivo a lungo termine.
Con il suo distacco anche temporale (quantificabile nei 40 minuti che le comunicazioni impiegano per arrivare alla Terra e tornare) il pianeta rosso può offrire una chance di ricominciare da zero imparando degli errori. Marte può anche essere una scialuppa di salvataggio per un’umanità minacciata da cataclismi o fattori antropici come l’esaurimento delle risorse naturali o i cambiamenti climatici. Non mancano, infine, le ragioni opportunistiche: Marte è un avamposto migliore della Terra per l’estrazione di minerali rari di importante valore tecnologico (platino, germanio, palladio ecc.) dalla fascia degli asteroidi.
Immaginare Marte
Le analogie tra Marte e Terra hanno sollecitato la fantasia di scrittori, filosofi, astronomi dilettanti: un giorno solare marziano (sol) dura 24 ore e 40 minuti; ai poli vi sono calotte ghiacciate (oggi sappiamo che contengono prevalentemente anidride carbonica solida); l’inclinazione assiale è solo un grado e mezzo maggiore di quella terrestre, il che implica un analogo alternarsi di stagioni (anche se più lunghe, considerato che un anno marziano dura 669 sol); la gravità è inferiore di quella terrestre, ma confrontabile (il 38% circa). A fine Ottocento, le osservazioni dell’allora direttore dell’Osservatorio Astronomico di Brera Giovanni Schiaparelli, ma soprattutto le loro interpretazioni di Percival Lowell e Camille Flammarion, di dubbio valore scientifico ma molto popolari presso il pubblico, suggerivano l’esistenza di canali artificiali, vegetazione e bacini d’acqua liquida.
Secondo i modelli di formazione planetaria allora in auge, Marte era più vecchio della Terra; perciò, i canali erano interpretati come colossali opere ingegneristiche, frutto dello sforzo collettivo di una civiltà avanzata per contrastare il progressivo inaridimento di un mondo anziano e morente. Marte divenne dunque il “gemello diverso” della Terra e la proiezione del suo futuro. Il modo in cui è stato narrato ha tanto da dirci su come concepiamo la nostra stessa realtà e come vediamo e affrontiamo i desideri, le paure e la diversità, in un interscambio con le conoscenze scientifiche e le preoccupazioni dominanti in epoche differenti.
L’età d’oro della fantascienza marziana comincia ancor prima che dilagasse la “mania” dei canali marziani. Il primo Marte letterario ospita spesso civiltà intellettualmente progredite, con utopie che via via assumono i volti del bolscevismo (Stella Rossa, Aleksandr Bogdanov, 1908), dell’egualitarismo femminista (Unveiling the Parallel, Alice Jones e Ella Merchant, 1893) o dell’aldilà (The Certainty of Future Life on Mars, Louis Gratacap, 1903). Ma ogni tanto filtra l’approccio coloniale anglosassone, talvolta in descrizioni paternalistiche degli alieni che richiamano i selvaggi di qualche tribù indiana o africana, talvolta più esplicitamente. In Edison’s Conquest of Mars (1898), Garrett Serviss giustifica l’attacco ai marziani col loro carattere barbaro e ostile. Paradossalmente la storia ambiva a essere un sequel “apocrifo” del capolavoro di Herbert G. Wells La guerra dei mondi (1896), dove la devastante invasione dell’Inghilterra da parte dei marziani incarna proprio l’allegoria dell’imperialismo britannico di fine secolo, in cui i colonizzatori sfruttano la propria tecnologia superiore per espandersi e depredare le risorse delle terre invase massacrandone gli abitanti senza scrupoli morali.
Nella fortunata serie di Barsoom scritta da Edgar Rice Burroughs le mire coloniali si concretizzano in altri modi. Nel primo libro, Sotto le lune di Marte (1912), l’ex confederato John Carter viene teletrasportato su Marte, un mondo esotico, una volta prosperoso, che si è imbarbarito a seguito dell’evaporazione degli oceani. Grazie alla superiorità stereotipica del maschio bianco, John Carter non solo riporterà la pace, ma sposerà la principessa Dejah Thoris generando una stirpe “superiore”.
Un serio progetto scientifico e letterario di colonizzazione marziana prese piede solo a partire dagli anni Cinquanta. Complice anche il conflitto mondiale, la fantascienza d’autore aveva subito un relativo periodo di crisi, dopo che negli anni ’20 e ‘30 indagini astronomiche sempre più sofisticati avevano misurato temperature, pressioni e concentrazioni d’acqua e ossigeno incompatibili con la vita intelligente su Marte. Sullo sfondo delle tensioni generate dalla paura atomica della Guerra Fredda, Ray Bradbury rinuncia all’accuratezza scientifica usando il Marte delle Cronache marziane (1950) come tavolozza per dipingere il cinismo della società americana e i timori legati a una tecnologia al di là del controllo umano. Altri invece cominciano a fare i conti con un nuovo realismo, in cui l’ambiente marziano ostile ai terrestri assurge a vero protagonista della storia.
Al 1952 risale il primo Marsprojekt a opera dell’ingegnere aerospaziale Werner Von Braun, ex fiore all’occhiello del Terzo Reich che, dopo la guerra, avrebbe portato gli Americani sulla Luna col suo razzo Saturn V. Il progetto, che prevede una stazione lunare e una flotta di dieci astronavi assemblata in orbita, sarà il primo di una serie di piani monumentali che non vedranno mai la luce. Due capisaldi del nuovo realismo marziano risalgono a quell’anno. Arthur C. Clarke, in Le sabbie di Marte, accompagna il protagonista dal disappunto per il panorama spoglio e per gli insignificanti insediamenti cittadini, fino alla celebrazione della grezza maestosità dei panorama marziano. Isaac Asimov in Maledetti marziani ritrae un pianeta ancora più duro, sede di una città mineraria, dove ogni mitologia fantastica sulla vita su un altro pianeta è schiacciata da mere questioni utilitaristiche e di sopravvivenza. In entrambi i libri, è molto sentita la questione della dipendenza dai “padroni” terrestri, che col passare del tempo trovano sempre meno conveniente investire tanto in una colonia così poco redditizia.
Esula dal realismo invece Philip K. Dick, che più avanti, in Noi marziani (1964) e Le tre stimmate di Palmer Eldritch (1965) narra l’alienazione psicologica e sociale di un mondo grottescamente dominato dall’avidità e dalla speculazione, che attira lavoratori dalla Terra con promesse fallaci per poi bloccarli in un posto dove nessuno vorrebbe stare. Marte ha, ancora una volta, le caratteristiche di un mondo di frontiera arido e in declino, in cui i nativi Bleekmen in via di estinzione sono emarginati o sfruttati dai terrestri. Il clima greve dei romanzi di Dick sembra anticipare la cocente delusione generata dalle sonde Mariner 4, 6 e 7 che raggiungono Marte tra il 1965 e il 1969 e scattano foto del 20% della superficie marziana, mostrando quello che sembra poco più che una replica del terreno lunare: solo roccia e crateri. Il disappunto è ben descritto da Luděk Pešek in La Terra è vicina (1970): l’immagine desolata e sterile di Marte, le enormi difficoltà tecniche e il senso di tedio e di ottundimento emotivo dell’equipaggio sembrano voler annientare qualunque residuo di narrativa romantica marziana. Ma non è ancora finita: verso la fine del 1971, la sonda Mariner 9 raggiunge il pianeta nel corso di una lunga tempesta di polvere; scatterà oltre 7000 foto dell’intera superficie del pianeta che ancora una volta rivoluzioneranno l’immaginario marziano.
Progetti e missioni
Una volta decretata la vittoria statunitense nella corsa alla Luna, e a fronte di crescenti difficoltà economiche dell’Unione Sovietica, negli anni Settanta la competizione tra le due superpotenze mondiali si dissolve e il programma spaziale USA/URSS riceve un brusco ridimensionamento. La NASA si ritira nell’orbita terrestre, collaborando perfino con l’ormai ex-URSS per la costruzione della Stazione Spaziale Internazionale. Nessuno dei numerosi progetti di esplorazione marziana proposta da allora in poi si concretizzerà a causa sia dei costi proibitivi, sia di una mutata considerazione della vita degli astronauti, specialmente dopo le tragedie degli Space Shuttle Challenger e Columbia. All’attuale stato delle conoscenze, una missione umana su Marte è ancora molto rischiosa.
In controtendenza rispetto alla politica, l’immaginario fantascientifico sulla colonizzazione marziana rinasce dalle sue ceneri. Le immagini del Mariner 9 narrano un pianeta forse privo di vita, ma geologicamente suggestivo e variegato, con paesaggi mai immaginati prima, che indicano un passato più caldo, ricco d’acqua in superficie. Tra essi spiccano la regione di Tharsis, sede del Monte Olimpo, che coi suoi 25 km di altezza è il vulcano più alto di tutto il Sistema Solare, e il sistema equatoriale di canyon noto come Valles Marineris, dieci volte più lungo del Grand Canyon e profondo come la Fossa delle Marianne. Cinque anni dopo, i lander delle missioni Viking 1 e 2 analizzano il terreno marziano in cerca di segni di vita; il dibattito sui risultati delle analisi chimiche e spettroscopiche porta a un nulla di fatto.
Le missioni Mariner e Viking restituiscono l’immagine di un pianeta vergine, che può essere “creato” da zero dando vita a una nuova utopia (o distopia). In futuro, potremmo disporre di motori a propulsione più potenti per arrivare su Marte e di tecnologie innovative per ricavare elementi da costruzione, energia, propellente, acqua, cibo e aria per l’habitat riciclando i materiali trasportati o sfruttando quelli presenti in loco. Meno banali saranno le sfide personali e collettive, tra cui le difficoltà ad adattarsi, soprattutto psicologicamente, alle condizioni della vita marziana (reclusione, ambiente alienante, convivenza forzata) e i problemi economici, politici e organizzativi alla base della nascente civiltà marziana. Ma non basta: l’uomo non vorrà restare confinato all’interno di moduli, cupole e tute spaziali. Occorre modificare l’uomo – o modificare Marte: si parla allora rispettivamente di areoformazione (da Ares, il nome greco di Marte) e terraformazione.
Nel concreto, areoformare un uomo implica modificarlo chirurgicamente o geneticamente. Nella letteratura fantascientifica, i risvolti di questo approccio sono stati esplorati in due romanzi, Uomo+ di Frederik Pohl (1976) e Climbing Olympus di Kevin J. Anderson (1994): in contesti diversi, i prototipi di uomo marziano sono sottoposti a operazioni di chirurgia adattiva che li rendono conformi alle condizioni marziane. Terraformare Marte invece richiede un progetto chimerico, estremamente oneroso, lungo decine o centinaia di migliaia di anni, di ingegneria climatica che include varie tecniche volte ad aumentare la temperatura, la pressione atmosferica, la concentrazione di ossigeno e a creare uno scudo magnetico “surrogato” per schermare il vento solare.
La terraformazione non è esente da controversie etiche e critiche di antropocentrismo. Fino a che punto è accettabile alterare un ambiente alieno per adattarlo a noi? C’è il rischio di compromettere altre forme di vita, o distruggere preziose testimonianze geologiche? I promotori del sogno marziano non hanno dubbi: secondo Elon Musk per esempio il nostro destino è rendere l’uomo una specie multiplanetaria. Un’idea condivisa anche da Robert Zubrin, ingegnere aerospaziale che nel 1998 ha fondato la Mars Society con l’obiettivo di insediare l’uomo su Marte. Secondo Zubrin, creare una biosfera abitabile dall’uomo è “la conferma più profonda della natura divina dello spirito umano, esercitata nella sua forma più alta portando la vita in un mondo morto” (Case for Mars, 1996).
Il dibattito resta dunque limitato alle pagine della fantascienza, in particolar modo nella trilogia di Kim Stanley Robinson (Il rosso di Marte, Il verde di Marte, Il blu di Marte), pubblicata tra il 1993 e il 1996. L’epopea narra tre secoli di vicende dei “primi cento”, la spedizione inviata nel 2027 per colonizzare e terraformare Marte i cui membri, grazie a trattamenti genetici sviluppati su Marte, acquisiscono una longevità virtualmente illimitata, mentre flussi migratori sempre più intensi arrivano dalla Terra sotto l’egida delle società transnazionali terrestri. Robinson, oltre allo stato dell’arte delle conoscenze scientifiche su Marte, riassume e rielabora i temi classici (e non) della colonizzazione planetaria: le difficoltà relazionali e di adattamento; le mire indipendentiste; lo scontro tra favorevoli e contrari alla terraformazione (verdi e rossi); le speculazioni delle transnazionali; il pericolo rappresentato dal collasso ambientale e politico sulla Terra; soprattutto, la complessità nel creare un’utopia marziana a partire dagli ideali, dalle culture e dalle priorità di singoli personaggi, gruppi etnici e portatori d’interesse. Vi è anche spazio per evocare lo splendore sublime di Marte in tutte le sue fasi di terraformazione; viceversa i protagonisti, ciascuno a suo modo e coi suoi tempi, si ritroveranno profondamente aeroformati, diventando marziani a pieno titolo.
L’ultima fase della letteratura marziana tende a spostare l’accento sull’aeroformazione “psicologica” dei terrestri, specialmente in condizioni di emergenza che li costringono a ingegnarsi per sopravvivere. È il caso di The Martian di Andy Weir, libro del 2011 da cui fu tratto l’omonimo film di Ridley Scott del 2015. La storia riprende i temi filoamericani della frontiera; il protagonista, creduto morto e abbandonato su Marte, è un nuovo Robinson Crusoe che deve adattarsi alle condizioni insindacabili del pianeta. The Martian illustra, tra le altre cose, la necessità di un approccio multidisciplinare alla scienza e alla tecnologia, nonché l’importanza dei rapporti tra scienza, politica e mass media.
E se un giorno le agenzie spaziali gettassero la spugna decretando che, considerati i problemi più urgenti qui a Terra, non vale la pena andare su Marte? Smetteremo di sognare? Nel racconto The Old Cosmonaut and the Construction Worker Dream of Mars (2002), Ian McDonald racconta di uno spazio virtuale in cui, dopo l’abbandono definitivo dei progetti di colonizzazione marziana, una comunità di appassionati si scambia i propri racconti, le leggende e le visioni di Marte. In fondo, è stata la nostra immaginazione a popolare Marte prima di noi e, se un giorno ci arriveremo, troveremo il suo mito lì ad attenderci.