M ilioni di anni di guerra. Come in una sceneggiatura dozzinale di fantascienza ci siamo noi, i buoni, gli esseri umani, e loro, i mostri invisibili. Li riconosciamo da poco più di un secolo, da quando Martinus Beijerinck descrisse il mosaico del tabacco come contagium vivum fluidum, agente infettivo capace di passare i filtri più sottili. Ma da sempre i virus sono sinonimo di maledizioni inafferrabili. Piaghe come HIV, incubi selvaggi come Ebola, o seccature di routine quali raffreddore o herpes, i virus sono i più alieni dei nostri nemici. A malapena vivi, cristallizzabili e trattabili come un agente chimico, descrivibili accuratamente solo nella neolingua della biologia molecolare – capside, polimerasi, virione. Cosa c’è di più apparentemente disumano? Eppure i virus hanno costruito non solo la storia e la cultura umana (un esempio fra mille: quello che ha fatto l’Aids al rapporto dell’Occidente con la sessualità). I virus sono parte delle nostre vite. In un senso più letterale di quanto immaginiamo.
Il castello errante dell’evoluzione
Per quanto ne sappiamo, dove c’è vita ci sono virus. Infettano tutte le forme viventi, dai batteri più piccoli alle balene, piante, funghi e perfino altri virus. Ognuno di noi ne porta una quantità spaventosa. Il viroma umano è una collezione enorme e diversa di virus che coesistono con noi, nel nostro apparato digerente, nelle nostre mucose, nei nostri polmoni. Si stima che un essere umano sano abbia sempre in corso una dozzina di infezioni virali asintomatiche. L’infezione non è una parentesi patologica: è la normalità.
Questa convivenza lascia il segno. Nel maggio del 2016, un’analisi esaustiva ha dimostrato che almeno il 30% degli adattamenti evolutivi a livello molecolare è servito a difenderci dai virus. Come un castello errante di Howl che muti continuamente le proprie serrature e i propri accessi, l’evoluzione modifica le nostre proteine, in una perenne corsa contro i parassiti. Un simile adattamento non è indolore: se una proteina recettore cambia per evitare di dare appiglio a un virus, questo può andare a scapito della sua funzione, o modificarla in direzioni inattese. Come questo gioco di opposte esigenze abbia plasmato la nostra evoluzione è ancora da capire, ma se vi sembra una questione metallica e astratta, sappiate che invece è la burattinaia del nostro cuore.
Com’è possibile? Le infezioni virali sono state uno dei principali motori dell’evoluzione del sistema MHC, uno dei pilastri del nostro sistema immunitario – e della nostra vita sentimentale. Il sistema MHC, senza entrare nei dettagli, funziona perchè è vario: le migliaia di varianti MHC esistenti nell’umanità rendono difficile la vita ai virus, perchè devono confrontarsi con migliaia di apparati difensivi leggermente diversi. Rimescolare MHC nella propria prole, creando individui con combinazioni inedite, significa darle una possibilità di sfuggire ai virus. E come si fa? Scegliendo letteralmente chi amare. Numerose specie infatti, inclusi gli esseri umani, scelgono i loro partner a seconda di quanto il loro MHC sia diverso dal proprio. E lo capiamo, noi e loro, dall’odore. Quell’indefinibile odore di buono del vostro partner potrebbe significare che, inconsciamente, state con qualcuno che potrebbe darvi una prole resistente ai virus.
I, virus
Non solo i virus sono con noi, ma in noi. Forse non ce lo ricordiamo, ma la prima bozza del genoma umano pubblicata nel 2001 fu una grossa rivelazione sul senso dell’essere umani. Lungi dall’essere il Progetto Intelligente che vorrebbero i creazionisti, il nostro patrimonio genetico è una catasta caotica e ridondante di accidenti. Oltre metà del genoma è fatto di sequenze ripetute, come un libro in cui pagine o gruppi di lettere si ripetessero perversamente centinaia o migliaia di volte. Di più: alcune di queste pagine vengono da altri libri.
Quasi l’8% del nostro genoma è infatti composto da decine di migliaia di sequenze che chiamiamo HERV: human endogenous retrovirus, retrovirus umani endogeni. Sono antichi virus, risalenti in alcuni casi all’alba dell’evoluzione dei primati, incapsulati perennemente all’interno dei nostri cromosomi. E più del 40% (sì, quaranta per cento) è occupato da versioni degenerate e semplificate di questi virus, noti come retrotrasposoni.
Da dove vengono questi ospiti? Tutti i retrovirus, come il famigerato HIV, vivono una doppia vita. Liberi e infettivi, sono delle microscopiche praline di proteine e lipidi che racchiudono un piccolo frammento di RNA. Quando infettano una cellula, copiano questo RNA in un segmento di DNA (un procedimento inverso a quello più consueto, in cui il DNA viene trascritto in RNA – da cui retrovirus), che va a inserirsi nel genoma della cellula infetta. È questa copia di DNA a produrre nuovi virus. Ingegneria genetica naturale, in corso da centinaia di milioni di anni.
Quanto è umano il nostro genoma, se metà del codice che ci definisce è letteralmente fatto di altre creature?
Capita di rado che un retrovirus si inserisca in uno spermatozoo o in una cellula uovo, e capita ancora più di rado che questo venga passato alla prole: ma capita, e tanto basta perché ciascuno di noi, in ciascuna cellula, abbia ereditato quasi centomila sequenze di retrovirus. (Oggi sappiamo anche che non solo i retrovirus, ma quasi tutte le famiglie di virus umani hanno un loro rappresentante nel genoma, sebbene non sia sempre chiaro come ci siano arrivati.) L’ultima invasione di retrovirus nel genoma della nostra specie risale a circa 250.000-100.000 anni fa, ma in altre specie questo processo divampa tuttora – nei koala, per esempio. Anche se in gran parte imprigionati e tenuti a bada, incapaci di formare nuove particelle infettive, i retrovirus endogeni umani possono risorgere, in esperimenti che sono l’equivalente di un Jurassic Park microbiologico.
È metà del nostro DNA: eppure vorremmo forse ignorarlo, ritenerlo “DNA spazzatura” per usare una espressione ormai obsoleta. Da bravi xenofobi, considerarli clandestini malamente integrati, sovversivi. Per esempio, ci sono parecchi sospetti che i retrovirus endogeni abbiano un ruolo nella schizofrenia. Ma senza retrovirus endogeni, non potremmo nemmeno venire al mondo. È il gene di un retrovirus, noto come syncytin, a permettere la formazione della placenta umana. Originariamente il gene serviva al virus per fondersi con la cellula ospite: ora permette ad alcune cellule della placenta di fondersi assieme, creando uno strato impermeabile al sistema immunitario della madre (un identico scippo genetico è avvenuto più volte nella storia dei mammiferi, indipendentemente).
Di più. Ci sono indizi che tutta la rete di interruttori genetici che permette il nostro sviluppo, da una cellula fecondata a un essere umano, sia inestricabilmente intrecciata ai retrovirus endogeni. Per esempio, quando siamo solo degli embrioni di poche cellule, un retrovirus endogeno, HERV-K, viene attivato. Le proteine codificate dai suoi geni, ironicamente, sembrano poterci difendere da altre infezioni virali, e legano migliaia di altre molecole all’interno dell’embrione in via di sviluppo: HERV-K partecipa all’alba dell’esistenza di ognuno di noi. HERV-K è allo stesso tempo un virus e un elemento genetico umano, funzionale.
Una sola moltitudine
Cosa significa allora essere umani? Ingoiando un po’ di becero riduzionismo, si può dire che il genoma umano sia la cosa più vicina a una risposta oggettiva (anche se rudimentale) a questa domanda. Ma quanto è umano quel genoma, se metà del codice che ci definisce è letteralmente fatto di altre creature? Aspettate, però: come definiamo quale parte sia “nostra” e quale “estranea”, del resto, se da milioni di anni sono parte della nostra eredità, se partecipa alla nostra vita dalla nascita? Forse non sono veramente altre.
Nelle parole di Luis Villarreal, direttore del Center for Virus Research dell’Università della California, “i virus sono il creatore nascosto che ha contribuito a renderci umani.” Termini come “individuo”, “specie”, “identità” sono illusioni ottiche: approssimazioni che svaniscono non appena ci si avvicini. Il genoma non è il codice sorgente di un programma, un preciso algoritmo ben progettato e architettato. È un bazar di informazioni alla rinfusa che lottano ciecamente per replicarsi, che a volte viaggiano insieme e a volte si separano, che collaborano o si combattono a seconda di come tira il vento dell’evoluzione. Perchè l’albero della vita non è veramente un albero: è una trama che si rimescola continuamente. Tutta la vita sulla Terra è un torrente di informazione genetica in continuo flusso da miliardi di anni, separato in rivoli che possono fondersi in ogni momento. Noi, come ogni forma di vita, conteniamo moltitudini: siamo l’eredità dei nostri antenati non umani, siamo gli accidenti storici che hanno plasmato la nostra specie, siamo le forme di vita con cui siamo entrati in contatto; siamo i virus che ospitiamo.