N el mondo animale la riproduzione sessuale è un affare complesso, dove la competizione, fra individui dello stesso genere e fra i due sessi, è grande: si cerca di massimizzare il profitto, di tramandare i propri geni.
I biologi evoluzionisti parlano di selezione sessuale e fu Darwin il primo a descriverla, affiancandola alla selezione naturale. Nel parlare di selezione sessuale il naturalista inglese introdusse due meccanismi: la competizione fra i maschi, che si traduce in una “corsa agli armamenti”, e la competizione fra maschi e femmine, che si manifesta nell’evoluzione della bellezza (ornamenti sessuali). Entrambi hanno ricadute positive per gli individui “vincenti”: la prima seleziona i maschi più forti o più furbi, mentre la seconda, in un processo co-evolutivo guidato dalle femmine, quelli più belli. Queste caratteristiche si tramandano alla prole, con un vantaggio nella competizione alla generazione successiva. Tutto questo non giova solo ai singoli individui direttamente coinvolti ma è utile, pensano molti scienziati, anche per l’intera specie, perché innalza i tassi riproduttivi.
La selezione sessuale però ha anche un lato oscuro, che Darwin non approfondì: la coercizione sessuale, un modo in cui i maschi sbaragliano la concorrenza maschile “barando”. Di fatto fanno i grossi con i deboli, in questo caso le femmine. Dal punto di vista evolutivo si potrebbe parlare di exaptation, ovvero l’assunzione di nuove funzioni di un tratto originariamente selezionato per altri usi.
La selezione sessuale ha anche un lato oscuro: la coercizione sessuale, un modo in cui i maschi sbaragliano la concorrenza “barando”.
Così almeno la pensa Patricia Brennan, professoressa del Mount Holyoke College ed esperta di riproduzione: “nel conflitto sessuale i maschi spesso usano armi inizialmente evolute nella competizione fra maschi per usarle contro le femmine”, spiega a il Tascabile. “Pensiamo ai gorilla. Sono enormi e vi è un grande dimorfismo sessuale. Hanno canini e corpi giganteschi. Se la femmina cerca di scappare dal gruppo magari per accoppiarsi con un altri maschi, verrà picchiata. La sua possenza, evoluta per fronteggiare altri maschi, si rivolge verso di lei”.
“Non sappiamo però realmente quanto il conflitto sessuale sia diffuso nel mondo animale”, precisa Brennan. Il problema è che a volte si manifesta in modi non sempre comprensibili a noi esseri umani.
Violenze
Come spiega Andrea Pilastro, biologo evoluzionista dell’Università di Padova, “non esiste in realtà nessuna specie in cui non vi sia una qualche forma di conflitto, se escludiamo quelle che sono monogame per la vita, come alcuni uccelli. Non andiamo oltre una specie ogni 10mila o 100mila come proporzione. In tutti gli altri casi è una questione di grado”.
In alcuni animali questo approccio violento è praticamente l’unico adottato. “Per esempio certi insetti che praticano la cosiddetta inseminazione traumatica”, continua Pilastro. Alcuni coleotteri hanno un organo copulatore ricoperto di spine, con cui prima trasferiscono gli spermi e poi danneggiano le vie genitali della femmina, provocando delle ferite mirate probabilmente a disincentivare un suo nuovo accoppiamento con un altro maschio e a massimizzare invece le proprie probabilità di vincere la competizione spermatica.
Ci sono casi ancora più violenti. Nelle cimici dei letti (Cimex lectularius), il maschio cerca di accoppiarsi il prima possibile con una femmina vergine, cosa che gli garantisce di vincere nella corsa all’inseminazione. “In pratica la femmina viene attaccata quando ancora sta emergendo dalla muta”, racconta Pilastro. Poiché in quel momento la femmina non è in una posizione che favorisce la fecondazione, i maschi hanno evoluto un organo copulatore che è sostanzialmente un ago ipodermico con cui perforano la parete addominale della femmina e iniettano gli spermi nella cavità addominale.
Anche fra i pesci incontriamo molestatori professionisti. I pecilidi, una specie d’acqua dolce, vivono in ambienti effimeri, pozze dove l’acqua può esaurirsi e dove magari quando torna è sopravvissuta una sola femmina. Per questo le femmine hanno evoluto la capacità di conservare lo sperma maschile molto a lungo, fino a un anno. Per i maschi è sempre vantaggioso accoppiarsi, anche fuori dalla stagione riproduttiva, per cui molestano continuamente i pesci femmina senza corteggiarle. Le femmine non possono accettare sempre, poiché il costo è enorme, anche solo in termini di possibili ferite o di rischio di trasmissione di parassiti. Vengono disturbate talmente tanto che fanno persino fatica a nutrirsi.
La lista è lunga, e l’apparenza inganna. Prendiamo un animale molto “simpatico”, socievole e giocherellone ai nostri occhi umani, il delfino. “Abbiamo capito che i maschi di delfino sono violenti solo guardando ai genitali delle femmine”, racconta Brennan. “Le delfine hanno evoluto vagine molto complesse per impedire ai maschi di avere il controllo completo dell’inseminazione”.
Nelle cimici del letto, la femmina viene attaccata sessualmente quando ancora sta emergendo dalla muta.
Non sono le uniche. Brennan ha studiato a lungo le anatre: caso raro fra gli uccelli, i maschi hanno il pene. E non un pene qualsiasi: una sorta di lunghissimo cavatappi, che cresce in corrispondenza della stagione dell’accoppiamento. Brennan è una pioniera degli studi sulla sessualità di questi uccelli (al punto che è stata presa di mira qualche tempo da Foxnews e dalla destra conservatrice statunitense che mettevano in dubbio l’utilità di dare finanziamenti pubblici a studi sul sesso delle anatre). Con le sue ricerche ha risolto quello che a lungo era rimasto un mistero: se i genitali maschili sono così complicati perché la vagina sembra essere invece un semplice e breve tubo? Il “tetris” del sesso anatresco non aveva alcun senso.
Era un mistero che nascondeva particolari raccapriccianti. Bisogna prima di tutto sapere che anche fra le anatre, come in altre specie aviarie, normalmente le femmine scelgono i maschi più avvenenti e formano un legame stabile. I maschi perdenti, formalmente esclusi dalla stagione riproduttiva, però, non si arrendono e tentano il tutto per tutto: aggrediscono le femmine, a volte addirittura organizzati in gruppo, in vere e proprie gang. Le femmine, dal canto loro, oppongono fieramente resistenza, talvolta a costo della vita.
Ma, come Brennan svelò, esisteva nelle anatre anche un’altra forma più occulta di resistenza alla fecondazione forzata. Durante il periodo fertile, infatti, la vagina dell’anatra cambia forma, si fa fortemente convoluta e piena di vicoli ciechi. Per Brennan questo è indizio di un processo coevolutivo: poiché alcuni maschi hanno imboccato la scorciatoia della violenza, le femmine hanno iniziato a evolvere contromisure, “complicando” la vagina. A quel punto anche il pene ha cominciato a diventare più contorto, in un meccanismo parossistico che ha portato alle forme attuali.
Il contro-espediente femminile sembra funzionare, perché solo il 5-10% delle nidiate non è “legittima”. La fecondazione consensuale non sembra peraltro soffrirne: “È probabile che la femmina, con dei movimenti, collabori durante l’accoppiamento con i maschi da lei scelti”, spiega Brennan, “e che in questo modo riequilbri lo svantaggio dovuto all’anatomia della vagina”. Questa collaborazione nella fecondazione è in effetti diffusa nelle specie aviarie. In quelle “senza pene” – la maggioranza – che Brennan descrive come quelle che hanno imboccato la via evolutiva non violenta, la fecondazione avviene sempre con la collaborazione femminile, che apre la cloaca e la fa combaciare a quella maschile, aiutando il processo con movimenti opportuni.
In casi di questo tipo i danni sugli individui femminili sono evidenti: vengono ferite, ne risentono dal punto di vista fisico e comportamentale, e ci sono ripercussioni sulla loro capacità riproduttiva. In realtà, però, l’effetto avverso della violenza si estende ben oltre l’individuo, come deve aver già sospettato Goeff Parker, pioniere degli studi sulla coercizione sessuale. Parker, a cavallo fra anni Sessanta e Settanta, si era sorpreso nel constatare che i maschi della mosca gialla, Scathophaga stercoraria, arrivassero a importunare con tanta foga e in contemporanea una femmina, al punto di farla annegare (nello sterco in cui questa specie depone le uova, per la precisione). Che senso poteva avere tutto ciò, se alla fine il maschio con questo comportamento azzerava le sue chance riproduttive?
Parker capì presto il nocciolo della questione: queste derive possono avere risvolti crudelmente positivi per l’individuo maschio, almeno sul breve periodo. I maschi più “timidi” che aspettano con pazienza ai bordi dell’isolotto di sterco una femmina libera e desiderosa di accoppiarsi restano a bocca asciutta. Questo perché un’orda di scalmanati li precede (fra le mosche gialle, a differenza degli uccelli, il parere femminile sembra contare davvero poco). Come aveva osservato il biologo inglese, i maschi di mosca gialla violenti sono più fertili degli altri. Il problema con queste strategie però è che durano fintanto che durano le femmine, perché se esageri e le ammazzi o le traumatizzi tutte, rischi di arrivare sull’orlo dell’estinzione. “Teoricamente il conflitto può portare all’estinzione”, sottolinea Brennan. L’aggressione può portare le femmine alla morte, diminuendone il numero complessivo: questo diminuisce il tasso riproduttivo generale, e anche se le femmine non vengono uccise ma solo traumatizzate, la situazione non è tanto meglio.
Pilastro porta l’esempio delle drosofile, in cui maschi iniettano nella femmina, subito dopo la copula, delle proteine che letteralmente le avvelenano. Le femmine stanno così male che poi tendono a evitare di accoppiarsi di nuovo. “Ci sono evidenze che questo tipo di comportamenti coercitivi possano aumentare il rischio di estinzione,” concorda Pilastro. “C’è un bellissimo esperimento su insetti con abitudini simili alle drosofile in cui sono state fatte evolvere delle popolazioni in cui era presente il carattere aggressivo maschile e altre in cui era rimosso”. Dopo alcune generazioni, spiega il ricercatore, sono state prese delle femmine della prima popolazione (quella aggressiva) e sono state fatte accoppiare sia con i maschi “armati”, (della loro stessa popolazione) sia con i maschi innocui. “Si è osservato che queste femmine avevano un successo riproduttivo inferiore rispetto alle femmine di popolazione senza il tratto aggressivo”.
In pratica le femmine del gruppo aggressivo facevano complessivamente meno uova di quelle del gruppo “senza aggressione” non solo quando si accoppiavano con i maschi violenti, ma anche con quelli innocui. “In questo caso non era dunque nemmeno necessario che il maschio iniettasse il fluido velenoso per osservare effetti nocivi sul tasso riproduttivo della popolazione”.
Monogamie
Nel regno animale le specie monogame sono spesso anche quelle con il livello più basso di conflittualità fra i sessi: nelle coppie stabili cioè l’aggressività maschile è limitata. La classe animale in cui la monogamia è più diffusa è di gran lunga quella degli uccelli, che abbiamo visto aver imboccato la via evolutiva non cruenta della “bellezza”.
Può sembrar strano, ma i numeri lo confermano: anche gli esseri umani sono una specie dove prevale largamente la monogamia. È vero che sono moltissime le culture in cui si prevede la poligamia, soprattutto la poliginia, ma di fatto anche dove è ammesso avere più mogli, o mariti, nella realtà il legame più tipico sembra essere quello a due. Ma quando e perché siamo diventati monogami, riducendo così il conflitto sessuale, non è una domanda scontata.
Osserviamo i nostri nostri parenti più prossimi, scimpanzé e gorilla: nessuno di questi è monogamo, nonostante esistano altri esempi di primati che lo sono. Il gorilla vive in gruppi poliginici, con un maschio dominante e molte femmine sottomesse, lo scimpanzé in gruppi allargati dove esiste una gerarchia fra maschi, e in misura minore fra femmine. Le coppie qui si uniscono a solo scopo riproduttivo in maniera temporanea. Le abitudini monogame umane sono evidentemente emerse dopo che la nostra linea evolutiva si è separata da quella degli scimpanzé, i nostri cugini più prossimi.
La spiegazione più semplice è che il maggiore contributo del padre alle cure parentali abbia aumentato la probabilità di sopravvivenza della prole. Ma ci sono altre ipotesi, che non necessariamente si escludono a vicenda. Secondo qualcuno, infatti, il passaggio alla monogamia potrebbe essere avvenuto quando le femmine si sono sparse in territori troppo ampi perché i maschi potessero controllarle più di una per volta. Secondo Kit Opie, bioantropologo dell’Università di Bristol, invece, la monogamia sarebbe stata favorita dalla selezione naturale perché avrebbe ridotto il tasso di infanticidi.
L’infanticidio fra i primati è un metodo molto cruento che i maschi usano per indurre la femmina ad accoppiarsi quando impegnata con i figli. Non si tratta solo di non avere un cucciolo fra i piedi: nella nostra specie, e in altri primati, l’allattamento prolungato allunga notevolmente il periodo di non fertilità della madre. Togliere il piccolo di mezzo stimola di nuovo l’ovulazione. I maschi monogami, in grado di proteggere madre e figlio, avrebbero dunque maggiori probabilità di trasmettere i propri geni alle nuove generazioni.
Quando e perché la specie umana è diventata monogama, riducendo così il conflitto sessuale, non è una domanda scontata.
Per testare quale di queste assunzioni sia la più corretta, Opie e colleghi nel 2013 hanno condotto un’analisi bayesiana – una procedura statistica che stima i parametri di una popolazione in base alla distribuzione osservata – su ben 230 specie di primati per verificare la correlazione tra l’evoluzione della monogamia e un vasto set di altri tratti. “Solo in presenza di infanticidio si osserva in maniera attendibile l’aumento della probabilità del passaggio alla monogamia,” spiega a il Tascabile Opie, “mentre la monogamia a sua volta permette l’adozione secondaria delle cure parentali”. Questo vorrebbe dire, semplificando brutalmente, che è nato prima l’infanticidio della monogamia, e le cure parentali – maschili -sarebbero arrivate solo dopo tutto ciò. Anche l’adozione di territori ampi da parte delle femmine, aggiunge, sarebbe una conseguenza (piuttosto che la causa) del passaggio alla monogamia.
Per Opie alla base di questo passaggio vi è il fatto che i nostri cuccioli vengono al mondo prima di essere del tutto sviluppati e sono fortemente dipendenti dalle cure parentali. “L’origine della monogamia sociale nei primati è ben spiegata dal lungo periodo di allattamento”, spiega Opie. “Nel nostro studio dimostriamo che la cura biparentale accorcia la lunghezza relativa dell’allattamento, riducendo così anche il rischio di infanticidio e aumentando il tasso riproduttivo”.
Anche per Brennan, le lunghe cure parentali c’entrano con la monogamia, ma la scienziata sposa l’ipotesi della condivisione delle cure anziché quella dell’infanticidio. Interessante è però come pone l’accento posto sul ruolo delle femmine nel guidare il processo evolutivo, proprio come succede anche per la selezione degli ornamenti sessuali. In molte specie, soprattutto fra gli uccelli, la scelta evolutiva è andata verso la riduzione della coercizione maschile per privilegiare la bellezza, in una scelta guidata dalle femmine. Anche nella nostra specie, e in altri primati, la scelta femminile potrebbe aver avuto un ruolo nella riduzione del conflitto, come suggerisce Brennan: “Le femmine hanno cominciato a scegliere i maschi meno aggressivi perché era loro vantaggio, innescando un meccanismo coevolutivo da loro guidato”.