L a fascinazione per le bevande alcoliche, quelle fermentate e solo in tempi più recenti quelle distillate, accompagna le civiltà, antiche e moderne, da millenni. Il vino nei paesi Mediterranei e la birra in quelli del Nord Europa hanno radici culturali e antropologiche così profonde che spesso i risultati della ricerca sui rischi per la salute legati al consumo di alcol, e le conseguenti politiche di informazione e tutela della sanità pubblica, sono avvertiti come un attacco all’identità e alle tradizioni nazionali.
La storia del vino (ma un parallelo si potrebbe fare per altre bevande fermentate provenienti da molti paesi, non solo occidentali) si offre a una lettura stratificata. Il frutto della vite nel corso della storia è bevanda sacra che accompagna i riti (in alcuni dei quali è contemplata l’ebbrezza), legante delle relazioni sociali, piacere in grado di generare emozioni, ma anche alimento calorico e fortificante. Non ultimo, medicina. Uno dei motivi per cui non solo gli addetti ai lavori ma anche le persone comuni, consumatori e non, oppongono resistenza ad accettare il fatto che il consumo di alcolici comporti dei rischi, infatti, è che per millenni (e fino a tempi tanto recenti da poterne ancora conservare la memoria nelle generazioni più anziane), esso è entrato non solo nelle carte dei vini, ma anche nelle ricette e nelle prescrizioni degli speziali e dei medici di famiglia, per i quali il rapporto di fiducia era totale e incondizionato.
Anziché trovare il suo giusto spazio in un ruolo edonistico ed emozionale di piacere per il palato e per il naso e confermarsi come elemento fortissimo di identità culturale e territoriale quale è, ancora oggi il consumo di vino cerca così talvolta nella medicina il ruolo superato che ha avuto nel passato. Un radicatissimo bias di conferma: dopotutto si dice che lo dica “anche il dottore”, e i proverbi e rimedi popolari confermano: “vino rosso fa buon sangue”.
La più igienica di tutte le bevande
I primi a inserire il vino e la birra nella preparazione dei loro medicamenti sono i Sumeri, seguiti dai Babilonesi e gli Egiziani, ma il loro utilizzo come rimedio per ferite e malattie non è un’esclusiva delle civiltà occidentali ed è conosciuto anche nell’antica Cina e nella medicina vedica in India.
Per millenni e fino a tempi recenti il vino è entrato nelle ricette e nelle prescrizioni degli speziali e dei medici di famiglia, per i quali il rapporto di fiducia era totale e incondizionato.
È in Grecia e successivamente nell’antica Roma che la salute cessa di dipendere soltanto dalla benevolenza degli dei e che il vino entra nella farmacopea occidentale, dove per secoli mantiene la sua posizione. Gli artefici sono i padri della medicina, Ippocrate (nato intorno al 460 a.C. nell’isola di Coo e autore -reale o presunto – di un Corpus di quasi 70 opere) e, cinque secoli dopo, Galeno da Pergamo (circa 130 d.C. – 200 d.C.). È quest’ultimo, la cui carriera lo porta da medico dei gladiatori a curante dell’Imperatore, che codifica “scientificamente” un intero apparato nel quale tutti i vini conosciuti sono classificati e descritti per le loro caratteristiche e per i loro effetti.
Per Galeno, che riprende la teoria degli umori di Ippocrate, il vino è in grado di opporsi alla corruzione degli umori restituendo l’armonia e di intervenire nella formazione del sangue. I vini leggeri hanno azioni e proprietà specifiche diverse da quelli dolci e densi e di conseguenza ognuno, descritto per le sue caratteristiche e la sua provenienza, trova applicazioni e prescrizioni anch’esse diverse. I testi di Galeno basati su teorie e fondamenti anatomici e fisiologici che oggi sappiamo errati, continuano a essere tradotti e tramandati per secoli e le sue teorie e rimedi assumono nella medicina occidentale un carattere quasi dogmatico fino e oltre il 1500.
Con dei distinguo per le diverse categorie di persone e per i vini di diversa provenienza, gli antichi attribuiscono al vino proprietà antisettiche, sedative, ipnotiche, anestetiche, tonificanti, antianemiche, digestive, purificanti, diuretiche, antidiarroiche, fortificanti e rinvigorenti (azione fondamentale quest’ultima, particolarmente raccomandata per bambini, convalescenti, anziani ed eroi). Le ragioni di alcune di queste applicazioni sono legate agli effetti psicotropici dell’alcol, ma anche al fatto che esso rappresenta una delle poche sostanze allora disponibili ad azione disinfettante e antibatterica, sfruttata negli unguenti per la medicazione delle ferite e nell’acqua come prevenzione degli inquinamenti da possibili patogeni.
L’uso igienico e la raccomandazione di bere alcolici puri o diluiti anziché acqua, rappresenta del resto in molti paesi e fino a secoli molto più recenti un’azione frequente per la prevenzione della diffusione delle epidemie da fonti inquinate. È a questo soprattutto che si riferiva Louis Pasteur, padre della microbiologia, quando definiva il vino “la più igienica di tutte le bevande”, coniando uno dei motti di maggior successo per l’intero settore.
Oltre alle proprietà curative o preventive che si attribuiscono al vino di per sé, veniva anche utilizzato come solvente per la preparazione dei medicamenti, essendo l’alcol in grado di estrarre le sostanze attive come ad esempio gli alcaloidi o gli antiossidanti dalle piante officinali.
Oltre alle proprietà curative o preventive che si attribuiscono al vino di per sé, esso veniva poi utilizzato come solvente per la preparazione dei medicamenti, essendo l’alcol in grado di estrarre le sostanze attive come ad esempio gli alcaloidi o gli antiossidanti dalle piante officinali. E se in alcuni casi come nell’uso della corteccia del salice, le proprietà dei principi hanno continuato ad avere un fondamento nelle scienze erboristiche e nella chimica farmaceutica più moderna, in altri non ce l’hanno affatto, come per la Teriaca, un miscuglio dalle molteplici proprietà, antidoto a tutti i veleni attribuito al Re Mitridate e contenente un enorme numero di ingredienti compresa la carne di vipera, che Galeno consigliava di accompagnare al miglior Falerno faustiniano.
I vini medicali sono ancora presenti nella Farmacopea Ufficiale del Regno d’Italia del 1892, la maggior parte sono a base di Marsala e tra essi troviamo anche un “Vino oppiato composto”. Gradualmente nei decenni successivi la medicina ufficiale abbandonerà il ricorso al vino e ai vini medicali come rimedio per questa o quella malattia, pur continuando ancora a lungo a sostenere le proprietà benefiche del consumo di vino nell’alimentazione. Usciti dalle farmacie questi prodotti restano però sulle nostre tavole, poiché si scopre che alcuni sono soprattutto molto buoni, così che la loro natura di elisir, liquori di erbe, vini chinati, vermouth, si trasforma nel tempo in altrettante bevande alcoliche tipiche.
Tra moderazione ed ebbrezza
Già ai tempi dei Greci e dei Romani il consumo di alcolici è controverso; il vino e la sua ebbrezza attraversano periodi di maggiore o minore permissivismo e se è vero come abbiamo detto che al vino si attribuiscono tutta una serie di proprietà curative e che dopo la fondazione di Roma nel periodo dei Re l’alcol non è ben visto, l’ubriachezza è invece contemplata (anche abbondantemente) all’interno dei riti e delle occasioni conviviali.
Ippocrate stesso raccomanda la giusta misura, ma i motivi per cui l’abuso sia da respingere non sono mai legati ai rischi per la salute o per la dipendenza, quanto piuttosto alla perdita del controllo, al decoro e alla moralità. San Benedetto nel VI secolo nel capitolo numero quaranta “La misura del vino” della sua regola “Hora et Labora”, fa capire che per quanto se ne possa moderare l’uso il vino è un conforto al quale anche i più virtuosi dei monaci difficilmente rinunceranno e scrive:
Ciascuno ha da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro ed è questo il motivo per cui fissiamo la quantità del vitto altrui con una certa perplessità. Tuttavia, tenendo conto della cagionevole costituzione dei più gracili, crediamo che a tutti possa bastare un’emina (più o meno una bottiglia attuale ndr) di vino a testa. Quanto ai fratelli che hanno ricevuto da Dio la forza di astenersene completamente, sappiano che ne riceveranno una particolare ricompensa. Se però le esigenze locali o il lavoro o la calura estiva richiedessero una maggiore quantità, sia in facoltà del superiore concederla, badando sempre a evitare la sazietà e ancor più l’ubriachezza. Per quanto si legga che il vino non è fatto per i monaci, siccome oggi non è facile convincerli di questo, mettiamoci almeno d’accordo sulla necessità di non bere fino alla sazietà, ma più moderatamente, perché “il vino fa apostatare i saggi”. I monaci poi che risiedono in località nelle quali è impossibile procurarsi la suddetta misura, ma se ne trova solo una quantità molto minore o addirittura nulla, benedicano Dio e non mormorino: è questo soprattutto che mi preme di raccomandare, che si guardino dalla mormorazione
.
In altre parole San Benedetto è molto più severo nei confronti di chi mormora piuttosto che di chi beve vino. A partire dal basso Medio Evo e poi nel Rinascimento, pur restando ferme le convinzioni sui benefici del vino nell’alimentazione, così come il suo uso farmaceutico, alcuni cominciano a mettere in guardia dagli abusi, come fa Pier Andrea Mattioli che nel 1543 scrive che “il vino bevuto senza modestia nuoce al cervello, guasta la memoria e fa molti altri e abominevoli e pessimi effetti”.
Ma occorre aspettare ancora qualche secolo perché, con il progredire delle conoscenze della medicina prima e con la nascita della psichiatria poi, si cominci a parlare di rischi per la salute legati al consumo e all’abuso di alcol. Il passaggio nel quale il bere e soprattutto il bere molto o troppo, da vizio privato diviene una questione sociale, avviene tra il 1700 e il 1800 e coincide con altre grandi trasformazioni. È nello stesso periodo che l’urbanizzazione e le condizioni di vita della nuova classe operaia portano a un incremento preoccupante del consumo di alcolici. Complice in alcuni paesi è soprattutto la diffusione di distillati a basso costo: nel periodo ricordato come Gin Craze, la mania del Gin, facile da produrre e definito “la rovina delle madri”, a causa dell’impennata di violenze e malaffare nei quartieri più poveri di Londra, le autorità furono costrette a prendere provvedimenti per frenare i consumi con i Gin Act emanati tra il 1729 e il 1751.
I termini di alcolismo e alcolista vengono usate per la prima volta nel 1849 da un medico svedese di nome Magnus Huss che descrive e distingue gli effetti dell’ubriachezza acuta dalla dipendenza cronica. È solo da allora che gli alcolisti diventano malati e nasce la necessità di curarli, a volte come alienati o degenerati con l’internamento e l’applicazione di metodi e terapie molto discutibili e comuni ai diversi casi di “follia o degenerazione”. È nello stesso periodo, intorno alla fine dell’Ottocento e in quello stesso clima di attriti sociali, che nascono anche lo stigma per la degenerazione e il giudizio morale per l’abuso e per il consumo di alcolici.
I movimenti antialcol e le Leghe della temperanza eserciteranno forti pressioni anche a livello politico e porteranno gli Stati Uniti nel 1919 alla scelta del “regime secco”, con la proibizione di produrre, commerciare e consumare alcolici di ogni tipo per legge. Il periodo del Proibizionismo – lo sappiamo anche dai film della Chicago dei gangster – genererà corruzione e contrabbando ma non ostacolerà il consumo di alcol e resterà in vigore fino al 1933 con la rimozione dei divieti voluta da Roosvelt.
L’ubriachezza degli altri
La condanna per l’abuso nei paesi mediterranei produttori e cultori del vino è più sfumata. Sebbene negli stessi anni, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, i consumi di alcolici aumentino anche in Italia e in Francia e i problemi di carattere sociale comincino ad avvertirsi, più spesso il vino è percepito come alimento e fonte di calorie insostituibile. La reazione ai movimenti di temperanza prima e al proibizionismo poi si divide in due correnti: da un lato una narrazione che evidenzia i danni legati all’abuso delle altre bevande alcoliche, quelle prodotte e consumate in quantità nei paesi esteri, e dall’altro la propaganda per un consumo igienico e salutare del vino, sostenuto ancora come nei secoli precedenti dalla medicina e dalle abitudini alimentari.
Una singolare “infografica” ante-litteram dal titolo “Quanto si beve in Europa” pubblicata sulla rivista popolare per le famiglie Il Buon Consigliere nel 1901 evidenzia, con il supporto di dati effettivamente poco credibili, non solo la morigeratezza nei consumi e nei costumi degli italiani, ma anche le abitudini più dissolute e viziose dei concorrenti di sempre, i francesi, e dei popoli dediti a bevande diverse, come la birra o i distillati.
“Osservando le nostre figure i lettori avranno alcune disillusioni in merito a pregiudizi che tutti prima degli attuali studi statistici ritenevano, come altrettante virtù” si legge nell’introduzione, anche se gli stessi pregiudizi a sostegno della narrativa tornano poi fortissimi nelle didascalie dove “il francese è intelligente, intraprendente, lavoratore accurato ma è vizioso” mentre “il tedesco è buon lavoratore sebbene poco accurato e di poco gusto”.
Peccato che anche i dati utilizzati dall’autore Francesco Maggini, con un consumo annuo di alcol degli italiani di un litro procapite, sono smentiti da quelli riportati da Francesco Carpentieri nel volume Il vino e l’alcolismo del 1922 per la casa Editrice Fratelli Ottavi, per il quale il consumo medio procapite per anno nel periodo 1901-1905 sarebbe stato di ben 15,55 litri (raggiunti con 114 litri di vino per anno più pochi litri di altre bevande). Una fake news in piena regola.
La condanna in modo particolare dei distillati e l’assoluzione del vino tra le cause dell’alcolismo e delle malattie legate all’alcol continua anche nel Ventesimo secolo. Lo stesso Carpentieri, che pure riporta con rigore le conoscenze del tempo relative alla tossicità dell’alcol, ripercorrendo e approfondendo la storia del rapporto dei popoli con gli alcolici, parla dei superacolici e dei distillati (da lui definiti “alcolici” o anche semplicemente “alcol”) e scrive che: “Con la scoperta dell’alcol l’ubriachezza cessa di essere un vizio per diventare una malattia. È con l’alcol che sorge l’alcolismo”.
Il che per certi versi potrebbe essere vero se parliamo di occasioni di consumo, in quanto il vino è più spesso legato alle abitudini alimentari che all’abuso, ma non è di questo che parla l’autore che continua invece così: “Difatti gli ubriachi di vino diventano ripugnanti, magari pericolosi, ma restano solo eccezionalmente vittima del loro vizio; coloro che abusano di alcol invece, si avviano rapidamente al manicomio od al cimitero, generano esseri malaticci, a loro volta destinati a morte precoce o quantomeno al manicomio od al carcere”. Un vizio a quanto pare ritenuto quindi in grado di generare una tara morale ereditaria.
Oggi sappiamo che il rischio di danni per la salute aumenta al crescere del consumo e che consumi moderati e associati alla dieta comportano rischi minori: questo non modifica la necessità di informare cittadini e consumatori su quanto oggi sappiamo sul rapporto tra alcol e salute.
Nel 1924 nasce a Parigi l’OIV Ufficio Internazionale del Vino, che nel 1930 pubblica sul suo Bollettino il bando per il Primo Concorso Premio OIV, una competizione internazionale ancora esistente e molto prestigiosa per le opere scientifiche e divulgative sulla vite e il vino. Nel regolamento del concorso bandito per la redazione di un’opera dal titolo La verità sul vino con “testi o didascalie per un opuscolo di propaganda a favore del vino e dei suoi benefici sulla salute” si legge che i concorrenti avrebbero dovuto esporre le virtù del vino, consumato fino dalla prima infanzia e spiegare che dai 10-12 anni questo sarebbe dovuto poi entrare a far parte dei pasti principali.
Quella di introdurre il vino nell’alimentazione dei bambini e dei ragazzi è del resto un’abitudine alimentare diffusa nei paesi mediterranei fino a non molti decenni fa. Sullo stesso Bollettino dell’OIV nel 1938 Salvador Da Cuna della Facoltà di Medicina di Lisbona, riporta un’indagine fatta su 700 bambini provenienti da 278 famiglie povere portoghesi: all’87,7% di essi il vino è somministrato generalmente a partire dai 3 anni. Da Cuna espone poi i risultati ottenuti da lui stesso nella cura di neuropatie, dispepsie e nefriti, in bambini tra i 18 mesi e gli 8 anni, consigliando il vino in piccole dosi dopo bollitura per la rimozione dell’alcol fino ai tre anni e poi diluito con acqua per i più grandicelli.
Ogni epoca naturalmente si confronta con le conoscenze che ha. Oggi sappiamo che l’alcol, inserito dal 1988 dallo IARC nel gruppo I delle sostanze ad azione sicuramente cancerogena, rappresenta il terzo fattore di rischio per le cause di malattia e mortalità in Europa. Mentre il consenso sugli effetti deleteri dell’abuso è pressoché unanime, sui rischi legati al consumo moderato si continua spesso a discutere e vi sono studi che dimostrano un’azione di protezione dei costituenti del vino su alcune malattie cardiovascolari e nei confronti di alcune forme tumorali. La questione è molto complessa, ma in un bilancio generale i rischi prevalgono sui benefici e questo rapporto porta sempre più la comunità scientifica, l’OMS e i decisori politici a definire degli interventi allo scopo di contenere i primi.
Il fatto che il rischio aumenti al crescere del consumo e che consumi moderati e associati alla dieta comportino rischi minori pur non azzerandoli, non modifica la necessità di informare cittadini e consumatori su quanto oggi sappiamo sul rapporto tra alcol e salute. In tutto questo il messaggio che dovrebbe passare definitivamente è che non si beve vino perché fa bene, ma perché ne traiamo piacere, perché lo abbiamo sempre fatto e probabilmente, come sosteneva San Benedetto, non ne faremo mai facilmente a meno, perché siamo esseri emozionali e le nostre scelte non dipendono solo da cosa ci fa bene e da cosa ci fa male.
Il messaggio che dovrebbe passare definitivamente è che non si beve vino perché fa bene, ma perché ne traiamo piacere, perché lo abbiamo sempre fatto e probabilmente, come sosteneva San Benedetto, non ne faremo mai facilmente a meno.
Ma per capire quanto ancora il bias di conferma del quale si parlava all’inizio sia radicato nella nostra cultura riportiamo tre casi molto più recenti di quelli già citati. Il primo è ormai di qualche anno fa: nel 1977 andava alle stampe un libro dal titolo Curarsi con il vino scritto dal Dottor Valerio Fasola, il cui sottotitolo recita “il vino può mantenerci in buona salute e contribuire alla guarigione di molti disturbi: un medico spiega come e perché”. Gli altri due hanno portata internazionale: tra le indicazioni per il consumo di alcol dell’Organizzazione Mondiale della Sanità c’è quella rivolta ai medici di non consigliare o raccomandare il consumo di alcolici e nel 2020 è stato necessario l’intervento della stessa OMS per arginare alcune notizie che si stavano diffondendo e chiarire che il consumo di alcolici non ostacola né previene la diffusione e il contagio da SARS COV-2. Un bias che rappresenta l’assoluzione al piacere edonistico che ci concediamo (senza mormorare) quando obbediamo al dottore.