I l mio primo ricordo di Joseph E. LeDoux è personale. È il 1998, io sono un giovane dottorando e mi trovo a Casamicciola per un convegno sulle emozioni, il cervello e la coscienza. LeDoux è già un personaggio importante per le sue ricerche sull’amigdala, e quando salendo dal porto arriva con una giacca di pelle sgualcita e un paio di jeans sdruciti, offre un’immagine molto diversa da quella ideale che, da studente ingenuo, mi ero fatto degli scienziati famosi. In seguito seppi anche che LeDoux è uno dei fondatori del gruppo rock The Amigdaloyds, che unisce musica e ricerche sul cervello. Da quella mattina a Casamicciola sia le neuroscienze che LeDoux hanno fatto molta strada, ma la domanda cui tutti vorrebbero trovare una risposta è rimasta inevasa: come mai, oltre all’attività neurale (che si osserva), c’è anche la coscienza (che non si osserva)? L’imbarazzo per le neuroscienze nasce dal fatto che, tutt’ora, la nostra coscienza è fatta di cose che non si trovano nell’attività nervosa e, viceversa, quello che succede nel sistema nervoso non richiede né suggerisce la presenza della coscienza.
Nel suo ultimo libro, I quattro mondi dell’uomo. Una nuova teoria dell’io (Raffaello Cortina, 2024), LeDoux torna ad affrontare il “sacro Graal” delle neuroscienze – la natura della mente – dopo altri tentativi recenti, come ad esempio Lunga storia di noi stessi. Come il cervello è diventato cosciente (2020). Ci riesce? Purtroppo no e, proprio perché è un autore di primo piano e quello che scrive viene preso sul serio, il suo libro è un problema per la comunità scientifica. LeDoux affronta il tema della coscienza con la parvenza del metodo scientifico, ma impone pregiudizi e assunti privi di fondamento che sono presentati da teorie grazie al credito personale dell’autore e all’uso della terminologia scientifica. Il testo di LeDoux offre l’occasione per mettere in luce una serie di errori che affliggono le neuroscienze e che non sono il frutto dei limiti dell’autore (che è molto bravo), ma sono piuttosto l’esito di alcune strategie deliberate che, per vari motivi, quasi nessuno mette in discussione. Il principale motivo di questo modo di procedere è quello che, in un precedente articolo, ho definito il paradogma delle neuroscienze, ovvero l’assunto secondo il quale la coscienza deve essere una proprietà dell’attività del sistema nervoso centrale.
Il libro di LeDoux, scritto in modo accattivante, si articola attorno a due ipotesi. La prima è annunciata nel titolo: la mente nascerebbe dall’intreccio di quattro mondi (biologico, neurale, cognitivo e cosciente). Se si legge il libro con attenzione, ci si rende subito conto che si tratta di uno specchietto per le allodole o, come si dice oggi, un clickbait. Suddividere l’esistenza e il funzionamento della mente in quattro livelli è un’utile semplificazione descrittiva, ma non ha alcuna radice nella realtà: i livelli in questione sono il frutto della divisione delle comunità scientifiche – per esempio biologi e neurologi usano metodi diversi. Ma biologia e chimica non sono livelli di realtà, bensì prospettive diverse sullo stesso fenomeno. Non c’è una mela chimica e una mela biologica. C’è solo una mela, e questa è a volte studiata dai chimici, a volte dai biologi. In generale, pensare che esistano molecole organiche e molecole non organiche è un errore di categorie perché suppone che esistano essenze che distinguono regni diversi, come appunto i quattro mondi di cui parla LeDoux. Al contrario, uno dei maggiori risultati della scienza moderna è l’eliminazione del ricorso a essenze (organico vs inorganico, vivente vs non vivente, cosciente vs non cosciente). Una molecola non è “organica”, ma è usata da organismi per costruire aminoacidi e zuccheri. L’errore concettuale è spostare la spiegazione dall’analisi del contesto di un certo fenomeno a una presunta essenza intrinseca del fenomeno stesso.
La domanda cui tutti vorrebbero trovare una risposta nelle neuroscienze continua a rimanere inevasa.
L’idea dei quattro mondi, oltre che poco scientifica e reminiscente del vitalismo contro cui lo stesso LeDoux si scaglia, è irrilevante per la strategia dell’autore, che arriva ad affrontare il tema dell’Io e della coscienza solo nelle ultime pagine. Viene da chiedersi come mai: la spiegazione è che quando non si ha molto da dire sulla coscienza si preferisce accumulare credito epistemico in interminabili riepiloghi dei successi (reali, ma ininfluenti) delle neuroscienze in altri settori. In effetti, questo libro ricapitola gran parte della storia delle neuroscienze, ma è poco onesto se l’obiettivo è proporre una “nuova teoria dell’io”. La proposta di LeDoux circa la coscienza è riassunta in un paio di facciate dove il neurologo dichiara che ci “spiegherà come crede scaturiscano le esperienze coscienti umane (le percezioni, i ricordi, le credenze, le gioie e i dolori, le speranze e i sogni, le paure e le fantasie)”. La sua spiegazione è il frutto di trent’anni di lavori scientifici insieme a Mike Gazzaniga, altro autorevole neuroscienziato di primo piano. In che cosa consiste questa ipotesi? Eccola in evidenza:
La versione attuale dell’ipotesi dell’interprete suggerisce che il contenuto non cosciente dei modelli mentali basati sulla memoria di lavoro sia tradotta in esperienze coscienti di narrazioni interiori.
Prima di tutto è evidente che una formulazione del genere non spiega nulla e non dipende da nessuno dei fatti di natura biochimica o neurologica raccontati nelle precedenti pagine. Per esempio, non c’è alcuna spiegazione su come l’attività neurale, fatta di reazioni chimiche e onde di gradiente ionico, debba trasformarsi in percezioni o pensieri. Il problema più grave (e che affligge la maggior parte dei lavori nel campo delle neuroscienze) è che questa formulazione si appoggia su una serie di assunti e di premesse che non sono frutto di osservazioni empiriche, ma costituiscono altrettante ipotesi metafisiche. Vale la pena farne un elenco (incompleto, ma significativo):
- L’idea di “contenuto” come qualcosa che è all’interno del sistema nervoso e che riflette il mondo fisico o il mondo mentale.
- L’idea che il contenuto abbia una proprietà addizionale che è la “coscienza” e quindi che possa, come una lampadina, essere acceso o spento.
- L’idea che esistano dei “modelli”, intesi come qualcosa che sta per qualcos’altro senza esserlo. Il modello è normalmente inteso come una specie di proto-coscienza che riflette il mondo esterno, ma è un termine disonesto perché ha il ruolo delle idee o delle rappresentazioni senza volersene caricare il peso ontologico.
- L’idea che i modelli (come nel caso della coscienza) possano essere “mentali” o “non mentali”.
- L’idea che esista una “memoria di lavoro” come un deposito di significati cui attingere.
- L’idea che esista una dimensione “interiore” diversa dal piano fisico dove si manifestano le proprietà fisiche.
- L’idea che i “contenuti” della “memoria di lavoro” siano tradotti in “narrazioni coscienti”.
- Per finire, l’idea che il cervello svolga il ruolo di “interprete”.
Si fa fatica a credere che una frase possa contenere tante assunzioni prive di fondamento empirico e tuttavia essere presentata come un lavoro scientificamente credibile, ma tale è la potenza della fallacia dell’autorità. Per toglierci ogni dubbio sulla mancanza di basi scientifiche, LeDoux procede spiegandoci che le “narrazioni” assumono la forma di un “codice neurale indipendente da modalità, un codice ‘amodale’, un qualcosa chiamato ‘mentalese’, che non solo alimenta il nostro contenuto cosciente, ma controlla il nostro linguaggio e le nostre azioni”. Qui c’è un problema ed è grave: l’autorevolezza scientifica diventa un cavallo di troia per sostenere un’ipotesi qualunque.
Come mai, oltre all’attività neurale (che si osserva), c’è anche la coscienza (che non si osserva)?
Il punto è che le ipotesi appena elencate non rientrano nella descrizione fisica o naturalistica della realtà. Prendiamo in esame il caso paradigmatico della parola “contenuto” che viene abitualmente usato nella letteratura scientifica per parlare delle basi neurali della mente. Che cosa dovrebbe essere da un punto di vista fisico e neurale? Chi ha mai visto, in aggiunta alle configurazioni elettrochimiche, il “contenuto”? Dal punto di vista fisico ci sono fenomeni fisici in varie configurazioni, ma si è mai osservato qualcos’altro? No. Se non si sapesse che l’attività neurale è in qualche modo collegata alla mente, osservando gli scambi di acetilcolina nelle sinapsi, ci sarebbe qualche motivo per sospettare che il neurotrasmettitore sia il portatore di un fantomatico ed epifenomenico “contenuto”? No! Eppure i neuroscienziati continuano a coltivare l’idea di poter, finalmente, dimostrare che l’“interiorità” di Sant’Agostino è l’“interno” del sistema nervoso. A riprova di questa aspirazione vi è l’ultima parte della spiegazione di LeDoux in cui, appunto, viene utilizzato il termine, vagamente reminiscente del flusso di coscienza, di “narrazioni interiori”.
Che cosa dovrebbe essere una narrazione interiore in termini fisici rimane ovviamente non detto e abscondito, così come il senso fisico di “interiorizzare il mondo esterno”. Interiorizzare dove, e che cosa? Un lettore critico si dovrebbe chiedere se LeDoux sia consapevole dell’impegno metafisico di un termine come “interiorità”, che Agostino introdusse come reificazione di un comparativo di maggioranza dell’aggettivo latino intus per intendere uno spazio metafisico ulteriore rispetto alla physis classica (il mondo fisico prima di Galileo). Il termine “interiorità” non è meno problematico della vituperata res cogitans di Cartesio e non ha senso senza un principio ontologico come l’anima, che nel Quarto secolo Agostino riconosceva valido, ma che nel 2024 LeDoux e tutti noi non ammettiamo più e non possiamo reinserire surrettiziamente. Pensandoci bene, tutti i termini come “contenuto” “modello”, “pensiero” e “narrazione” non hanno alcuna controparte fisica e sono diventati accettabili nelle scienze cognitive e nelle neuroscienze soltanto per assuefazione.
Non basta dichiarare di non essere dualisti o di non credere nella res cogitans per essere fisicalisti. È necessario riuscire a ridurre la nostra esistenza, il nostro esserci, a qualcosa di fisico, ovvero di osservabile, causalmente rilevante e collocato nello spazio e nel tempo. Le neuroscienze, purtroppo, accettando superstiziosamente la premessa secondo cui la coscienza deve trovarsi all’interno del sistema nervoso, sono costrette ad abbracciare la nozione di interiorità/interno, sia pure in modo ontologicamente scorretto, come unica via per poter avere qualche speranza di poter collocare, chissà quando, la coscienza all’interno del loro campo.
L’autorevolezza scientifica diventa un cavallo di troia per sostenere qualunque ipotesi.
Di fronte alla evidente mancanza di prove, la strategia è dispiegata da LeDoux in pochi passaggi chiave. Il primo consiste in un lungo processo di anestesia epistemica in cui si accumulano innumerevoli risultati scientificamente interessanti, ma irrilevanti per il problema della coscienza in quanto tale. Questo passo corrisponde all’incirca alla prima metà del libro di LeDoux dove lo sviluppo filogenetico del sistema nervoso viene (ri)raccontato. Per carità, non voglio certo dire che la suddivisione tra protostomi e deuterostomi non sia interessante (e offra anche interessanti allegorie per futuri articoli), ma non credo ci dica alcunché sulla natura del nostro esserci. La motivazione retorica, temo, è un’altra: raccontare una storia edificante in cui vitalismo e specismo sono stati sconfitti e la scienza (vera) ha trovato una soluzione. Questa storia edificante prepara alla successiva parte del libro, dove LeDoux cerca di tratteggiare le neuroscienze e le scienze cognitive come gli eroi di una vicenda analoga. In questa nuova fase, LeDoux porta avanti una retorica condivisa da altri autori di primo piano come Anil Seth, Claire Sergent o Stanislav Dehane: muoversi impercettibilmente – e utilizzando una terminologia che suona sempre scientifica – dalla terra dei neuroni alla luna della coscienza, ma tra i due non c’è né il picco del Paradiso terrestre né il carro di Elia.
Mi spiego meglio, il gioco (o giochetto) è questo: si parte dal problema della coscienza che, espresso in termini di esperienza del mondo irriducibile alle proprietà fisiche, sembra senza speranza. Invece di riconsiderare le ipotesi di partenza – come consigliava, tra gli altri, Albert Einstein – si ritagliano (o si inventano) spazi epistemici più trattabili: la cognizione, i modelli mentali, le rappresentazioni mentali (non coscienti), il contenuto, i codici, l’informazione – nella speranza di scomporre il problema reale in pezzetti che non mettano in discussione il paradogma della neuroscienze (la coscienza come proprietà dell’attività nervosa). Questo è quello che fa LeDoux per buona parte del libro e, senza mai affrontare direttamente la domanda sul perché nella natura qualcosa debba esserci e non semplicemente funzionare, confronta schemi sempre più complicati e sempre meno verificabili nella loro discrezionalità interpretativa tra i modelli cognitivi e i dati relativi al funzionamenti dei vari livelli del sistema nervoso.
Una volta i neurofisiologi rifuggivano dal pretendere di sapere quello che non sapevano e, se dovevano trovare il meccanismo con il quale, per dire, i neuroni trasformano gli spike neurali (che sono onde di ioni) in attività chimica, lavoravano a lungo finché non avevano trovato e descritto tutti i passaggi molecolari che fanno sì che avvenga il rilascio dell’acetilcolina nei bottoni sinaptici: questo è un esempio di metodo scientifico. Al contrario, oggi, LeDoux (e con lui molti altri) si sente autorizzato a scrivere frasi come “la narrazione verbale che scorre nella mente”, “le scene visive multimodali episodiche sono costruite nei circuiti parietali e ippocampali”, “il montaggio dello schema nella mesocorteccia subgranulare”, “gli schemi [forniscono] il fondamento concettuale del modello mentale precosciente del momento presente (l’esperienza cosciente)”, per arrivare allo straordinario “il mentalese è il mezzo entro cui avvengono i suoi pensieri”.
Le neuroscienze sono costrette ad abbracciare la nozione di interiorità/interno, sia pure in modo ontologicamente scorretto.
È scienza questa? No. È filosofia? Nemmeno (o molto cattiva). Queste frasi sono tentativi maldestri di imporre una metafisica maldestra sulla base di un credito epistemico acquisito in altri settori. È qualcosa che sta avvelenando il campo degli studi della coscienza. Proprio LeDoux critica ripetutamente i filosofi (e non gli si può dare torto in molti casi), ma è lui stesso a fornire un cattivo esempio nella misura in cui continua a fare affermazioni che introducono enti metafisici (il contenuto, lo schema, il modello, il linguaggio, il mentalese, la narrazione) senza preoccuparsi né del loro costo ontologico né del loro fondamento empirico. Il suo atteggiamento è tanto più discutibile quanto più in passato ha preso posizioni contro teorie analoghe, quali l’informazione integrata, o contro la persistenza del dualismo nella ricerca sulla mente. Sia chiaro, lo scrivente condivide l’opinione secondo cui la teoria dell’informazione integrata è pseudoscienza, ma da che pulpito viene la predica in questo caso!
L’idea che esista il mentalese o che il cervello traduca l’attività neurale in narrazioni che poi diventerebbero esperienza cosciente è imbarazzante. Dovrebbe essere evidente a tutti che si tratta di una forma poco originale di omuncolarismo. Per non parlare del fatto che non si capisce per chi il cervello dovrebbe tradurre l’attività neurale in esperienza cosciente o a chi il cervello dovrebbe narrare qualcosa. Qualche anno fa, il neuroscienziato Maxwell Bennett e il filosofo Peter Hacker hanno messo in evidenza la fallacia mereologica contenuta in questi ragionamenti. Più recentemente, la neuroscienziata Liad Mudrik ha denunciato la fallacia del doppio soggetto che consiste nell’ipotizzare esplicitamente o implicitamente che il cervello abbia un soggetto cui riferirsi, come quando i neuroscienziati ci dicono che “il cervello ci inganna e ci fa vedere un mondo che non esiste”. Ma che cosa sarebbe questo chi o noi che sarebbe ingannato dal cervello e a quale scopo?
Leggendo il testo di Ledoux, non si può non inciampare in un errore che, pur sembrando eccentrico rispetto al tema del volume, è un ulteriore sintomo di un indebolimento dell’atteggiamento critico. A un certo punto, l’autore dichiara che «i cambiamenti climatici causarono il movimento dei continenti» (nell’originale «climatic changes led to movement of the continents») che è una tesi che, se difesa da uno studente di terza superiore, porterebbe alla bocciatura (non è il clima che sposta i continenti, ma viceversa). L’impressione è che, quando la quantità di affermazioni che fanno violenza alla ragione supera una certa soglia, il vaglio si allarga. Se il ferro della consapevolezza critica viene piegato, perde la sua tempra.
Spesso, se criticati nell’uso di espressioni che non hanno un fondamento fisico, i neuroscienziati replicano che non intendono alla lettera quello che dicono e che usano certi termini solo per farsi capire. Ma da chi? Vorrebbero forse dire che loro capiscono altre cose e sono costretti a usare queste metafore e questi termini per essere capiti da noi. Per favore, date fiducia al lettore e dite quello che intendete veramente. Vedrete, se avete qualcosa di sensato da dire, qualcuno capirà. Ma non credo che sia così. Credo che, al di là delle promesse delle neuroscienze sulla coscienza, non ci sia veramente nulla. Paradossalmente, è LeDoux stesso, nel suo libro, che formula un perfetto giudizio (negativo) sul suo approccio quando scrive che “gli scienziati […] quando impiegano le proprie credenziali scientifiche per dare attendibilità a punti i vista non scientifici e addirittura antiscientifici, ne deriva indubbiamente un danno”. Applausi. Adesso applicate questo criterio al suo ultimo libro sulla coscienza.