S ino al 2021 il biologo Mikhail Rusin, esperto in piccoli mammiferi, era impegnato in un progetto di conservazione del criceto grigio (Cricetulus migratorius) nell’Ucraina meridionale, nelle regioni di Kherson e Zaporozhye. “La specie è a rischio in diversi Paesi”, mi spiega Rusin, raggiunto via chat in un raro momento in cui ha a disposizione elettricità e connessione a internet, “è a rischio in Grecia, Bulgaria e Romania, oltre all’Ucraina”. Lo scoppio della guerra ha interrotto il progetto di conservazione e portato il ricercatore lontano dalla attuale linea del fronte, costringendolo a tornare a Irpin, la sua città natale, dopo che è stata liberata.
Possiamo quindi immaginare la reazione di Rusin quando, aprendo Telegram, si è ritrovato davanti la foto di una mezza dozzina di roditori, tra cui un raro criceto grigio, appesi per il collo o per la coda in una trincea appena abbandonata dai soldati russi in ritirata da Kherson. È una foto che ha fatto in poco tempo il giro dei social e dei media ucraini producendo rabbia e sgomento nel pubblico. Gli animali, piccoli mammiferi da 50 grammi e del tutto innocui, hanno impiegato molto tempo a morire. Sembra strano e commovente al tempo stesso che persone così profondamente provate dalla perdita dei loro cari, delle loro case e della loro vita di tutti i giorni si indignino di fronte alla sorte di piccoli roditori. “L’empatia per tutto ciò che è vivo, tranne i nemici in una guerra, è qualcosa che dovrebbe essere studiato dagli psicologi”, mi dice l’erpetologo Oleksandr Zinenko, anche lui raggiunto via social a Leopoli in un breve momento di pausa dal black out. “Ma bada bene, questo riguarda solo la parte del paese non direttamente traumatizzata dal conflitto”.
Non solo la devastazione ecologica in Ucraina ha una scala senza precedenti nell’Europa moderna ma, sul lungo termine, sappiamo già che colpirà tutto il resto del pianeta.
I criceti grigi sono solo la punta dell’iceberg di un danno ecologico senza precedenti in Europa. “La guerra ha messo a rischio moltissime specie e alterato gli ecosistemi sin dal 2014”, dice l’ornitologa Hanna Kuzyo, responsabile della comunicazione della Società zoologica di Francoforte, al momento residente a Leopoli. “Tutta la zona sud-orientale dell’Ucraina era un importantissimo sito di svernamento e riproduzione degli uccelli migratori. Le azioni militari nel Donbass sin dal 2015 hanno completamente distrutto molte colonie di uccelli a rischio, come il gabbiano di Pallas e il pellicano dalmata”.
L’area costiera di Kryva Kosa, sul mare d’Azov, per esempio, era parte del Parco Nazionale Meotyda in Donetsk ed era protetta dalla convenzione internazionale di Ramsar dal 2012. Tutto sembrava andare bene, in tre anni i gabbiani di Pallas avevano formato la più grande colonia europea, con 3.000 coppie riproduttive, il raro pellicano dalmata aveva iniziato a riprodursi nell’area, così come la beccaccia di mare europea, e c’erano ben 60.000 coppie di beccapesci. Kriva Kosa è molto vicina a Mariupol e al confine russo e, nel 2015, le truppe russe cominciarono a sbarcare lì. Gli uccelli scomparvero. Si è persa così una importante area riproduttiva e, dal 2018, è venuto meno lo stato di area protetta da Ramsar.
E che dire dei cetacei del Mar Nero? Ben tre specie erano comuni nell’area prima dell’inizio delle ostilità, la focena comune e due sottospecie endemiche del Mar Nero di delfini. Il biologo marino Ivan Rusev, cappello a tesa larga, fisico asciutto di chi passa tutte le giornate all’aria aperta, è attivissimo sul suo profilo Facebook nel descrivere quello che succede sulle coste del Mar Nero intorno a Odessa. Tra un black out di energia e l’altro mi ha raccontato molte storie interessanti. Tra la foce del Danubio e la foce del Dnister, nella regione di Odessa, vi è una grande area lagunare protetta, il parco nazionale Tuzlivski Lymany, del cui dipartimento scientifico Rusev è a capo. “Prima della guerra ogni anno trovavamo in media solo 3 delfini spiaggiati in questi 44 km di costa protetti e nelle aree adiacenti, caduti nelle reti dei pescatori di frodo. Con l’inizio della guerra è arrivata nella zona nord-ovest del Mar Nero una flotta di sottomarini e navi da guerra con sonar molto potenti attivati”.
Questo è l’unico parco nazionale non occupato, mi dice. “L’esercito ucraino ci ha concesso di continuare a lavorare solo su una sezione di costa lunga 6 km, in cui abbiamo già trovato spiaggiati, dall’inizio del blocco del Mar Nero, ben 45 cetacei di tre specie. La costa lungo il Mar Nero e il Mar d’Azov è lunga più di 1000 km, e di quest’area non abbiamo alcuna informazione”.
Rusev, che stima la morte improvvisa di almeno 50.000 cetacei, attribuisce la moria al rumore delle navi e dei sonar che li disorienta, porta a collisioni con le migliaia di mine lasciate in mare o causa danni acustici ed embolie gassose. “I russi”, dice, “attribuiscono la moria a una epidemia di morbillo e dicono che non c’è niente di cui preoccuparsi, ma io so perfettamente cosa è una zoonosi, ho lavorato su questo argomento per trent’anni a Odessa e conosco i sintomi. È la prima volta che una moria di questa entità avviene nel mar Nero”.
Non solo la devastazione ecologica ha una scala senza precedenti nell’Europa moderna delle convenzioni di Berna e Parigi ma, sul lungo termine, sappiamo già che colpirà tutto il resto del pianeta e che tutti ne siamo coinvolti. Al momento è opinione di tutti gli ecologi intervistati che è troppo presto per poter fare una reale stima dei danni, perché nessuno scienziato può andare lungo la linea del fronte a toccare con mano. Inoltre, non abbiamo idea di quanto ancora si protrarrà la guerra, e con quali mezzi verrà combattuta. Il problema principale, con ogni probabilità, saranno comunque i danni su larga scala come l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, la distruzione delle dighe, il taglio delle foreste, le esplosioni diffuse, i campi minati.
Emissioni
Ci si potrebbe chiedere anche, in termini di emissioni di CO2, quanto costi all’umanità questa guerra. È veramente difficile stimarlo in questo momento, ma giusto per dare qualche numero, un carro armato T-80 emette più di 10 kg di CO2 per km (per confronto, un SUV Mercedes 3000 turbodiesel, un’auto particolarmente poco “verde”, 160 grammi per km), e questo senza contare le esplosioni, gli incendi, il carburante per missili e così via. Può sembrare un calcolo ozioso, nel bel mezzo di una crisi umanitaria, ma non è così. Secondo molti non ce la faremo a stabilizzare, come promesso dai governi mondiali, il clima del pianeta a 1.5 °C sopra la temperatura media preindustriale. Se a questo aggiungiamo le emissioni belliche, l’obiettivo diventa già praticamente impossibile da raggiungere.
Alla perdita di biodiversità si aggiungono l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo.
Solo nelle prime cinque settimane di guerra sono stati registrati 36 attacchi russi alle infrastrutture di combustibili fossili ucraini, 29 alle centrali elettriche, sette alle infrastrutture idriche e sei alle centrali nucleari, secondo Global Citizen. A ogni attacco seguono esplosioni, incendi ed emissioni di CO2, polveri sottili e metano in atmosfera, e se vengono colpiti depositi di carburante si diffondono anche ossidi di azoto (NOx), acido nitrico, monossido di carbonio, diossido di zolfo, disolfuro di carbonio, diossine, furani, idrocarburi policiclici aromatici e composti organici volatili come la formaldeide, che poi andranno anche a contaminare acqua e suolo. Per fare un paragone, secondo uno studio di Oil Change International i pozzi di petrolio che vennero bruciati nel 1991 durante la seconda guerra del Golfo contribuirono al 2% delle emissioni totali di CO2 per quell’anno, e che in totale quella guerra abbia portato all’emissione dell’equivalente di 141 milioni di tonnellate di CO2.
Anche ricostruire inquina. Si stima che i costi ambientali della ricostruzione in Siria aggiungeranno qualcosa come 22 milioni di tonnellate di CO2 alle emissioni globali. Conosceremo dati più esatti relativi all’Ucraina solo a guerra (e ricostruzione) finita, ma le prospettive sono già ora inquietanti per tutta l’umanità. Di fatto, a due settimane dall’inizio della guerra, la quantità di inquinanti nell’aria a Kiev era 27.8 volte più alta di quanto consigliato dalle linee guida dell’OMS e si stima che nei primi sette mesi di guerra siano stati emessi 31 milioni di tonnellate di CO2 extra, pari all’impatto della Nuova Zelanda in un anno.
All’inquinamento dell’aria si aggiungono l’inquinamento dell’acqua e del suolo. Giusto per fare un esempio, il 21 marzo 2022 fu colpito da un attacco aereo un serbatoio di ammoniaca dell’industria chimica Sumykhimprom, nel nord dell’Ucraina. Il serbatoio danneggiato perse ammoniaca che si diffuse nel suolo in un raggio di 2.5 km, contaminando anche le riserve idriche di due villaggi. La situazione però è devastata su una scala molto più vasta. L’Ucraina è uno dei paesi più industrializzati d’Europa, e si stima che le sue miniere di carbone, impianti chimici e altre industrie pesanti producano miliardi di tonnellate di rifiuti liquidi. Queste industrie sono state bombardate senza sosta da febbraio, con inevitabili sversamenti ovunque che, a lungo andare, arriveranno al Mar Nero e da li al Mediterraneo. Senza menzionare, naturalmente, i bombardamenti nei pressi delle centrali nucleari di Chernobyl e Zaporizhzhia che, oltre a sfiorare la catastrofe nucleare, hanno sollevato polveri radioattive in ambiente.
Fiumi e foreste
Il 2 aprile 2022 una delle chiuse della diga idroelettrica di Oskilsky, nella regione di Kharkiv, è stata distrutta per fermare l’avanzata delle truppe russe. Circa 355.500.000 metri cubi d’acqua sono stati rapidamente rilasciati dal serbatoio, provocando l’innalzamento del livello del fiume Siversky Donets e prosciugando il bacino idrico della diga, esponendo 9.000 ettari di fondo. Il serbatoio serviva a mantenere costante l’approvvigionamento idrico delle regioni di Donetsk e Luhansk, sino a Mariupol. Inoltre, buona parte dell’ex bacino idrico era costituito da acque poco profonde favorevoli alla deposizione delle uova dei pesci e alla nidificazione di uccelli anche rari, ma tutto quello che ruotava intorno a questa grande area paludosa è destinato a scomparire, inclusi i pesci, trascinati a valle dalle acque.
Nelle città, riferiscono tutti i contatti ucraini, al momento in cui viene scritto questo articolo c’è gas per il riscaldamento. Il problema sorge semmai nelle zone più remote del paese o sottoposte ai bombardamenti più pesanti. Il 6% del vasto territorio ucraino consta di parchi nazionali. Secondo dati FAO, il 16m8% dell’Ucraina è coperto da foreste, un’area di quasi 10 milioni di ettari, di cui 59.000 ettari sono foresta primaria, non alterata dall’uomo. In mancanza di gas per il riscaldamento, il taglio delle foreste è inevitabile, ma in che misura lo sapremo solo al termine della guerra. Secondo il WWF a settembre 2022, prima del “grande inverno”, già 280.000 ettari di foreste erano stati distrutti o tagliati. “Quello che vedo ora”, dice l’erpetologo Oleksandr Zinenko, “è che il territorio di molte aree protette è stato bombardato, scavato da mezzi meccanici e presenta trincee. Uno dei fiumi principali dell’Ucraina orientale è stato inquinato con petrolio e olio da container affondati. I campi hanno un aspetto spaventoso. So che anche gli esplosivi contengono sostanze inquinanti, e non riesco a immaginare quante possano essercene nel suolo. Probabilmente gli inquinanti saranno letali per i girini, ma per i rettili la distruzione causata dalla guerra potrebbe essere il male minore rispetto all’agricoltura intensiva, forse tranne che per la vipera delle steppe, il cui areale coincide con la zona in cui si combatte”.
Coltivazioni e suolo
A questo quadro si unisce un’altra considerazione che ci tocca tutti molto da vicino. Quello ucraino è uno dei suoli più fertili d’Europa e le sue esportazioni di cereali sono fondamentali per moltissime nazioni. Questi suoli sono stati costantemente bombardati, bruciati e inquinati da scarichi industriali e metalli pesanti. Che conseguenze avrà tutto ciò sulla produzione agricola ucraina, da cui dipendono tante vite a livello mondiale?
L’Ucraina, secondo la FAO, nel 2020 era il quinto esportatore mondiale di grano tenero per fare il pane e il quarto esportatore di mais destinato soprattutto all’alimentazione degli animali d’allevamento. L’Italia nel 2022 ha importato 157 mila tonnellate di grano tenero (37 mila in piu’ rispetto al 2021) e 624 mila tonnellate di mais, circa il 20% del mais importato. Quanto l’Ucraina riuscirà a mantenere i ritmi di produzione, tra bombardamenti e inquinamento? Nel 2022 la produzione complessiva non sembra essere calata di molto secondo l’Earth Observatory della Nasa, assestandosi a 26.6 milioni di tonnellate di grano, compatibile con la media degli ultimi 5 anni. Tutto ciò, nonostante l’impossibilità di mietere lungo la linea del fronte in Ucraina orientale. Un risultato molto positivo, se si comparano la resa effettiva (il 94% dei campi è stato mietuto) con le previsioni iniziali, che stimavano un calo del 20-30% nella produzione.
Ogni centimetro di suolo fertile distrutto è una perdita incalcolabile, visto che impiega centinaia di anni per rigenerarsi.
Il problema è che i bombardamenti continuano e alterano il suolo dei campi coltivati, che a sua volta aveva tolto spazio alla biodiversità della steppa. Per fare un esempio, il sistema d’arma TOS-1 Buratino impiegato dalle truppe russe in Ucraina orientale lancia, in una salva, 24 razzi a testata termobarica che creano sul bersaglio una fitta nebbiolina di liquido combustibile. All’ignizione si scatena un’esplosione che copre un’area minima di 8 ettari, l’equivalente di 16 campi di calcio. L’onda d’urto dei gas generati dall’esplosione è in grado, ad esempio, di uccidere nemici rifugiati in caverne o bunker sotterranei. Non sappiamo con certezza quanti ne siano dispiegati in Ucraina, ma le stime parlano di circa 25-30 unità che possono lanciare circa 3-4 salve l’ora. A questi vanno aggiunti i lanciarazzi piu’ “convenzionali” e l’artiglieria tradizionale.
Un razzo Grad/Uragan/Smerch o un proietto da 152mm con testata al fosforo bianco copre di frammenti incendiari che bruciano a circa 850 °C un’area pari almeno a mezzo ettaro. Tra lanciarazzi multipli e cannoni l’esercito russo ne dispiega, secondo stime occidentali, circa 6.000. L’uso di fosforo bianco su campi coltivati e insediamenti urbani da parte dell’esercito russo è ampiamente documentato anche da canali Telegram russi. In aggiunta a questi proiettili “speciali”, le due parti lanciano circa 80.000 proiettili e razzi di artiglieria convenzionale al giorno: un equivalente proiettile NATO da 155 mm si compone di circa di 7 kg di esplosivo e 36 kg di acciaio al cromo (con un 12% circa di cromo) e il metallo è pre-frammentato per disperdersi in centinaia di schegge che, se non finiscono nel corpo di qualche sfortunato soldato, rimangono nel terreno.
Il cromo è estremamente tossico sia per la salute umana, tramite bioaccumulo, sia per gli ecosistemi acquatici e terrestri. Inoltre numerosi dati evidenziano la sua tossicità proprio per lo sviluppo e la crescita di cereali e altre piante coltivate. Oltre al cromo queste leghe di acciaio contengono, in percentuale minore, numerosi altri metalli tossici per l’ambiente come nichel, molibdeno, vanadio, cobalto e manganese, che si disperdono nel suolo dei campi coltivati e nelle acque, per non parlare dell’uranio impoverito dei proiettili anticarro.
L’inquinamento da metalli pesanti non è però il solo problema dei campi ucraini. “La biochimica del suolo ha dei cicli biogeochimici piuttosto complessi che si basano principalmente sui microrganismi”, spiega Adriano Sofo, professore associato esperto di chimica del suolo dell’Università della Basilicata. “Le alte temperature distruggono i microrganismi del suolo, per non parlare della sua fauna, come i lombrichi. A temperature di 800 gradi la componente silicea del suolo vetrifica, cambiandone la struttura chimica, e la componente organica, come l’humus, mineralizza. Quello che rimane, cioè ceneri e minerali fini, viene eroso dagli agenti atmosferici”.
Ogni centimetro di suolo fertile distrutto è una perdita incalcolabile, visto che impiega centinaia di anni per rigenerarsi. “Al danno al suolo fertile c’è poi da aggiungere la conversione del carbonio organico in CO2, che si disperde in grosse quantità in atmosfera, contribuendo al cambiamento climatico: ogni ettaro bombardato, ammettendo abbia un contenuto di sostanza organica del 4% in peso e che vengano combusti solo i primi 20 cm di suolo, può rilasciare in atmosfera quasi 400 tonnellate di CO2. Fortunatamente, il suolo, a causa della sua porosità, è un pessimo conduttore di calore e quindi solo i primi centimetri saranno persi irrimediabilmente”.
Il costo di un ecocidio
Quanto vale la distruzione sistematica degli ecosistemi ucraini? E’ possibile stimare l’ “ecocidio” di un intero paese per chiedere i danni di guerra? La vita delle persone è una perdita irreparabile e va messa certamente in conto al primo posto. Ma la perdita ambientale influisce sull’esistenza di chi rimane pesando anche sulla ricostruzione, sulla ripresa economica e, sul lungo termine, sulla qualità della vita di tutto il pianeta. Le foreste, i laghi, i fiumi, i monti, le spiagge hanno inoltre un loro valore intrinseco indipendente dall’ uso umano, permettendo l’esistenza delle reti trofiche da cui dipende l’intera biosfera.
Tutti questi luoghi, una volta distrutti, non possono essere ricostruiti come se fossero un supermarket o una casa, e il loro ripristino si misura lungo una scala dei tempi secolare, ma c’è anche di peggio: delle praterie delle steppe dei cosacchi rimaneva già ben poco, circa il 3% era sopravvissuto agli aratri. Gli esperti della UN Global Compact, una convenzione dell’ONU per incoraggiare pratiche sostenibili, stimano la perdita di ben 20 specie di piante delle steppe a causa della guerra, soprattutto in Crimea, e dall’estinzione non c’è modo di tornare indietro.
Il presidente Zelensky è consapevole di tutto questo e sembra intenzionato a ricostruire il suo paese anche sul piano ecologico. Il 14 dicembre 2022 ha rivolto un appello al parlamento della Nuova Zelanda chiedendo di assumere un ruolo guida nel tener conto della distruzione ambientale del suo paese. L’8 Novembre ha parlato alla COP27, la conferenza annuale delle Nazioni unite sul cambiamento climatico, esprimendo la sua preoccupazione in materia. Sin dall’inizio della guerra il ministero dell’Ambiente ucraino ha messo in piedi una task force di esperti per stimare il numero e l’entità dei danni ecologici, nella speranza di portare la Russia davanti a un tribunale internazionale e chiedere il risarcimento dei danni.
Certo, non è facile monetizzare i danni ecologici: quanto vale una foresta distrutta? Quanto costa un delfino morto? Quanto vale una tonnellata di CO2 rilasciata? O un ettolitro di petrolio nel suolo? Quanto chiedere per una specie estinta?
Gli esperti vengono inviati, quando possibile, sui luoghi dei potenziali disastri ecologici per raccogliere campioni di aria, di acqua, di suolo, per osservare e monitorare. A ottobre 2022 erano stati censiti almeno 2.000 casi di danni ecologici, stimati in 36 miliardi di euro. Certo, non è facile monetizzare i danni ecologici: quanto vale una foresta distrutta? Quanto costa un delfino morto? Quanto vale una tonnellata di CO2 rilasciata? O un ettolitro di petrolio nel suolo? Quanto chiedere per una specie estinta? Tuttavia la stima monetaria di un danno materiale è quello che fanno da sempre assicurazioni e avvocati, non c’è niente di nuovo in questo, quello che è nuovo invece è porre l’accento sulla catastrofe ambientale causata da una guerra, e organizzarsi per pretendere che venga compensata.
C’è un precedente: al termine della guerra del Golfo, nei primi anni Novanta, il consiglio di sicurezza dell’ONU votò per costringere l’Iraq a pagare i danni di guerra al Kuwait, e questo includeva circa 3 milioni di dollari in danni ecologici, a causa degli incendi appiccati ai pozzi di petrolio. Questa nuova visione dei danni bellici e delle priorità per la ricostruzione è importante: la guerra, e soprattutto i danni di guerra, nel terzo millennio devono fare i conti con l’estinzione di massa in corso e con i cambiamenti climatici, che hanno un impatto su tutto il pianeta, non solo sui Paesi in conflitto. In Francia ci sono tuttora zone in cui la formazione del suolo, la rigenerazione delle foreste e la coltivabilità dei campi sono stati alterati in negativo dalla Prima guerra mondiale sino ai nostri giorni: la composizione in termini di alberi è cambiata, la biodiversità è diminuita, tutt’oggi il suolo intorno a Ypres è contaminato da grandi quantità di piombo e rame, metalli molto tossici sia per gli ecosistemi che per gli esseri umani, e il governo francese dovette dichiarare una fascia di terra tra Lille e Nancy “zone rouge”, zona rossa, in quanto resa inabitabile dall’artiglieria inesplosa e dalle contaminazioni di piombo, mercurio, cloro e arsenico. La zona rossa esiste tutt’ora, a distanza di oltre un secolo, e si stima che l’area sarà nuovamente abitabile in un periodo tra 300 e 700 anni.
Al momento purtroppo ci tocca rimanere a guardare e sperare che gli ecosistemi siano almeno risparmiati dall’uso di armi chimiche o nucleari da parte del governo russo. La natura in qualche modo si riprenderà, ma il trauma causato da questo evento rimarrà per intere generazioni, non sappiamo di che entità. “La natura sta subendo enormi perdite e minacce da questa guerra”, dice sconsolato Zinenko. “Il problema è che non abbiamo modo di controllare questi processi catastrofici, ne’ al momento siamo in grado di stimare le conseguenze a lungo termine di quello che sta accadendo”.