N el 2013, George Monbiot, apprezzato veterano del giornalismo scientifico con una solida preparazione in scienze biologiche, lanciò dalle pagine del Guardian un Manifesto per il rewilding del mondo. Nello stesso anno approfondì la sua visione in un libro, da poco tradotto in Italia: Selvaggi: il rewilding della terra, del mare, della vita umana (Piano B, 2018). Cosa significa rewilding? Una possibile traduzione potrebbe essere rinaturalizzazione, ma probabilmente non rende abbastanza giustizia all’originale, che si rifà a wilderness, termine a sua volta di difficile traduzione, che possiamo rendere in italiano con natura selvaggia, originaria.
Secondo le descrizioni dei sostenitori, il rewilding è una pratica che prevede di ripristinare ampi ecosistemi reintroducendo (o favorendo il ritorno di) grandi carnivori (o, soprattutto in Europa, erbivori) per poi lasciare fare alla natura il proprio corso. Secondo questa visione, la conservazione della natura dovrebbe essere lasciata in gran parte alla natura stessa. Gli ecosistemi non andrebbero cioè gestiti dall’uomo, alla stregua di un grande giardino o di un acquario: una volta ripristinata la megafauna necessaria, la natura selvaggia farebbe il suo ritorno. Anche l’uomo trarrebbe beneficio da questo ripristino sotto forma di un miglioramento dei cosiddetti servizi degli ecosistemi. Questi comprendono non solo acqua e aria più pulite, e risorse come legname, pesce, molecole di interesse farmaceutico, ma anche la possibilità per gli urbanizzati H. sapiens di godere della natura dal punto di vista culturale ed estetico. Anche questo è un valore della biodiversità, e gran parte del libro di Monbiot è appunto dedicato al bisogno di molte persone di rientrare in contatto con la natura incontaminata.
Una visione radicale
Negli ultimi anni si è affermato e ha preso piede un altro concetto: quello di Antropocene, un termine che descrive l’era geologica che porta i segni (anzi, le cicatrici) dell’attività umana, nella quale vivremmo tuttora. In questa cornice, non stupisce che il rewilding faccia presa sul pubblico.
La storia del rewilding precede però di una ventina d’anni il manifesto di Monbiot. La parola “rewild” appare per la prima volta sulla carta stampata nell’articolo di Jennifer Foote “Trying to Take Back the Planet”, pubblicato il 5 febbraio 1990 su Newsweek. La giornalista raccontava il mondo dell’ambientalismo radicale, come quello praticato dall’associazione Earth First!. Infatti, è proprio a uno dei fondatori di Earth First!, Dave Foreman, che si riconosce la paternità del termine rewilding. Nel 1998 i biologi Michael Soulé e Reed Noss pubblicarono l’articolo Rewilding and biodiversity: conservation as complementary goals for continental conservation sulla rivista ambientalista Wild Earth, edita da Foreman. Qui gli studiosi cercarono di formalizzare il concetto della conservazione nell’ambito della biologia tramite le 3 C che descrivono il processo di rewilding: cores, corridors, carnivores. I nuclei (cores) sono vaste aree di natura selvaggia (wilderness), i corridoi ecologici sono aree che permettono alla fauna di spostarsi, e i carnivori sono la componente da cui dipende il buon funzionamento dell’ecosistema.
Il caso a cui fanno riferimento regolarmente i sostenitori del rewilding è quello della reintroduzione dei lupi nel parco di Yellowstone.
Il caso a cui si riferiscono regolarmente i sostenitori del rewilding è quello della reintroduzione dei lupi nel parco di Yellowstone. Intorno al 1930 la caccia aveva completamente annientato i lupi del parco, che la legge avrebbe protetto solo a partire dal 1973. Nel 1995, dopo anni di discussione, il lupo venne finalmente reintrodotto nel parco. I cervi, che si erano moltiplicati moltissimo in sua assenza, diventarono prede del lupo, che impose nei suoi territori il cosiddetto paesaggio della paura, cioè una condizione di allerta verso i predatori che portava a maggiore articolazione nella distribuzione degli erbivori. Con meno cervi, intorno ai fiumi i salici e i pioppi ricominciarono a crescere. I castori avevano così materia prima per le loro dighe, quindi anche la forma dei fiumi cominciò a cambiare, portando alla formazione di nuove nicchie ecologiche per una varietà di piante e animali. Proprio George Monbiot ha doppiato un breve documentario intitolato Come i lupi cambiano i fiumi, diventato molto popolare.
Diversi progetti di conservazione affermano di basarsi sul rewilding e osservando questi casi si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un metodo di conservazione tanto innovativo quanto scientificamente solido. Ma le cose stanno diversamente.
Dalla narrazione alla realtà
“A livello scientifico non esiste un consenso nemmeno su quello che si intende precisamente per rewilding, né c’è accordo tra gli studiosi sulla sua efficacia. Secondo le descrizioni dei sostenitori, non sembra altro che una riproposizione in chiave ideologica di concetti che appartengono alla restoration ecology, una disciplina matura e scientificamente collaudata”, mi dice Luigi Boitani, ordinario di Biologia della Conservazione e Ecologia Animale alla Sapienza (Roma). La restoration ecology, spiega il professore a il Tascabile, interviene sugli ecosistemi cercando di ripristinare le parti (cioè le funzioni) che hanno perduto. In questo senso il rewilding, che pure tra gli studiosi annovera alcuni entusiasti, non sarebbe un concetto rivoluzionario per chi si occupa per mestiere di conservazione. D’altra parte, a differenza della disciplina a cui attinge, la visione del rewilding sembra più radicale di quanto permettano di comprendere le conoscenze e le possibilità attuali.
Boitani è specializzato nello studio dei grandi carnivori e in particolare è tra i massimi esperti mondiali di uno degli animali simbolo del rewilding: il lupo. E proprio a proposito di lupi, Boitani sfata la narrazione che dipinge questo animale come salvatore di Yellowstone. La storia dei lupi che cambiano i fiumi, utilizzata anche dalle più importanti organizzazioni ambientaliste, è stata a dir poco ingigantita. Certo, i lupi introdotti nel parco hanno cominciato a fare quello che fanno i lupi, cioè cacciare. Ma sostenere che l’azione dei lupi abbia salvato il parco attraverso una cascata trofica da manuale è semplicistico. Dalla fine degli anni ‘90, quando sono usciti i primi studi che avvallavano il fenomeno, ne sono poi usciti molti altri che ridimensionano il ruolo del lupo come deus ex machina. Boitani ricorda, per esempio, che subito prima della reintroduzione c’era stata una stagione di caccia insolitamente lunga diretta proprio all’eliminazione dell’abbondante popolazione di cervi. La caccia, inoltre, continuava fuori da confini del parco, continuando a ridurre la popolazione di ungulati. Altri autori fanno notare che a Yellowstone c’era stata una grave siccità, un altro fattore che ha colpito i cervi. Nel frattempo, anche se il lupo mancava da tempo, a Yellowstone non c’era scarsità di predatori: la popolazione di orsi e puma stava aumentando. I paesaggi paradisiaci mostrati nel video di Monbiot non tengono poi conto delle aree dove la vegetazione è rimasta praticamente tale e quale (e comunque altrove i pioppi e i salici sono cresciuti soprattutto in altezza e non in numero).
A livello scientifico non esiste un consenso nemmeno su quello che si intende precisamente per rewilding, né c’è accordo tra gli studiosi sulla sua efficacia.
La vicenda è al centro di un dibattito scientifico. Gli esperti continuano a studiare il parco cercando di districare la complessa trama delle relazioni ecologiche in cui però il lupo non è più il protagonista indiscusso. Il dibattito è vivo e vitale sulle riviste scientifiche, mentre sulla stampa generalista raramente si mette in dubbio la fiaba dei lupi di Yellowstone. Un’eccezione di rilievo è un pezzo d’opinione Is the Wolf a Real American Hero? pubblicato nel 2014 dal New York Times a firma di Arthur Middleton, ora professore associato di gestione della fauna selvatica alla University of California, Berkeley. Descrivendo quanto la narrazione popolare sia in contrasto con lo stato delle ricerche, il professore si concentra su una domanda importante: che cosa ci importa se questa storia è vera o falsa? Dopotutto è servita a lanciare grandi progetti di conservazione. Il problema, secondo Middleton, è che “ripetendo la solita vecchia storia sui lupi di Yellowstone, dirottiamo l’attenzione da problemi più grandi, ci facciamo illusioni sulle vere sfide di gestione degli ecosistemi, e alimentiamo la mitologia del lupo a spese del comprensione scientifica.” Una riflessione simile a quella di Boitani a proposito del rewilding nel suo complesso: il concetto, abbiamo visto, non ha una definizione condivisa, ma possiamo immaginare che se usato come accattivante confezione per una gestione della natura basata sulla restoration ecology possa avere una sua utilità.
“Bisogna però rimanere coi piedi per terra, cercando di guardare al futuro piuttosto che al passato, come fanno alcuni ideologi della natura pristina. Se prendiamo l’Europa, e l’Italia in particolare, vediamo che abbiamo il 40% in più delle foreste rispetto all’Ottocento. Non abbiamo mai avuto tanti animali nei nostri boschi. E tutto è successo grazie all’abbandono della campagna”, secondo Boitani. “A differenza degli Stati Uniti – prosegue il professore – le nostre aree protette sono piccole e al 98% sono private. Questo significa che l’unico modello che dobbiamo perseguire è quello della convivenza con la fauna selvatica, compresi i carnivori che naturalmente sono indifferenti ai confini dei parchi”. Viviamo già in un mondo più selvaggio, mi racconta Boitani, dove la grande fauna cara al rewilding vive alle porte delle nostre città. Se la vogliamo conservare, dobbiamo partire da questa realtà di integrazione e non da improbabili utopie di equilibri naturali in cui l’uomo è solo un timido ospite.