I l terremoto del Friuli non è rimasto nell’immaginario collettivo. Rispetto ad altre tragedie come quella, per esempio, della diga del Vajont, del 1963, sembra un evento già più lontano. Eppure era il 1976, in un momento storico in cui in Friuli si cominciava a tornare dopo la stagione di emigrazione verso la Svizzera, la Francia, la Germania. Tra maggio e settembre l’Orcolat, o orcaccio, il mostro che nel folkore locale si agita nel sottosuolo, generò una tra le peggiori sequenze di terremoti in Italia. Quasi cinquanta comuni rasi al suolo, 990 persone morte, migliaia di case distrutte e un centinaio di migliaia di persone sfollate.
La scrittrice e poetessa tedesca Esther Kinsky raccoglie pezzi di questa storia in Rombo edito in Italia da Iperborea (traduzione di Silvia Albesano). Tutto nasce da una frequentazione personale: l’autrice passa abitualmente del tempo ogni anno in un paese del Friuli, dove ha conosciuto la gente del posto e i loro racconti. Queste tracce documentarie hanno preso forma in sette personaggi, la cui narrazione alterna lentamente, procede o retrocede. A volte riconosciamo la vicenda di un protagonista toccare, tangenziale, la storia raccontata da un altro. Queste voci si intrecciano con una voce narrante che esplora la valle, passeggia lungo i sentieri e medita sul paesaggio. E poi ci sono fogli sparsi, stralci di leggende locali, voci di enciclopedia, di fiori, rocce, e a volte esergo da saggi di geologia dell’Ottocento.
Quasi cinquanta comuni rasi al suolo, 990 persone morte, migliaia di case distrutte e un centinaio di migliaia di persone sfollate. Ma il terremoto del Friuli non è rimasto nell’immaginario collettivo.
Il momento del terremoto quasi non è raccontato e comunque nel procedere del testo non c’è suspence: esiste un prima terremoto, popolato dai ricordi familiari dei protagonisti e dalle attese, ed esiste un dopo che è subito il paesaggio lacerato. Le memorie dell’una o dell’altra epoca si alternano senza linearità cronologica. In Rombo si arriva come se l’evento fosse già accaduto e i presagi di ciò che stava per accadere, rievocati nella memoria per tentare di comprendere, sono un segno premonitore passato e non colto. “All’improvviso, mentre lavoravamo, si è alzato un vento freddo ma per pochi istanti. Viene dalla neve che c’è ancora lassù, ha detto mio fratello”. A questi brandelli di memoria ci si sente inevitabilmente estranei, così come estraneo, unheimlich, sembra il profilo del monte Canin che domina il paesaggio.
Il paesaggio, come tutti gli altri protagonisti del libro, ha rischiato la pelle e sopra di lui si possono vedere i segni del terremoto: “il terremoto è ovunque” e il paesaggio non è più riconoscibile e anche chi è di casa si sente straniero. Alla memoria corale e parziale partecipano perciò anche il calcare, i fiori, gli animali di quelle terre. Non possono parlare, perché non hanno una voce umana ma si mostrano attraverso quei ritagli enciclopedici o per mezzo della voce di chi li osserva.
Il calcare del Carso è una roccia derivata da esseri viventi, un accumulo di materia morta e di tracce di vita divenuto una massa compatta, che fa da sfondo e sottofondo alla vita. La massa carsica è sensibile agli agenti atmosferici. Sensibile alle tracce e alla loro cancellazione. Una pietra che muta, su cui si può fare poco affidamento (…). Come il mostro della favola anche la montagna calcarea ha sempre bisogno di una vittima.
Ci sono uccelli come il succiacapre, il cuculo, la vipera e c’è il biacco che chiamano carbone.
Olga si chiede se il carbone, che aderisce al suolo con tutto il suo corpo, abbia una sensibilità particolare per le prime fasi del terremoto; se rimanere disteso sul muretto gli sia servito ad auscultare ciò che accadeva nelle profondità della Terra, un avvertimento per chi passava di lì; se il serpente investito fosse stato completamente assorto nel presentimento delle scosse, dimenticando i pericoli del mondo.
Ricomporre il paesaggio, tornare a conoscerlo significa riattraversare la memoria. Di questo parla Rombo. Gigi, che è uno dei narratori, dice di non avere molti ricordi di quel giorno, perché in effetti “non abbiamo nessun potere sui nostri ricordi”. Per Adelmo i ricordi, o quel ricordo, sono un’ombra esattamente come l’ombra che si staglia sul Canin: “si allarga e vi si posa come una mano. Segue una breve raffica di vento gelido, e l’ombra scompare”.
Raggiungo Esther Kinsky telefonicamente per orientarmi tra questi pezzi.
Nel libro si parla del terremoto del ‘76 attraverso un coro di sette personaggi ai cui racconti si interseca un’altra voce narrante esterna, e poi passeggiate lungo sentieri di montagna, leggende, a volte voci da enciclopedia, di fiori, rocce, e a volte esergo da vecchi libri di geologia. Qual è stato il principio compositivo nella scrittura?
Peraltro quell’esperienza non era nemmeno la mia. Negli altri libri che ho scritto, infatti, c’è sempre un narratore che descrive delle esperienze come un ego. In questo caso, invece, sapevo che non ci sarei riuscita. Volevo al contrario sette voci di persone per trovare un modo di raccontare che rimanesse a me straniero. Ma sapevo anche che non avrei potuto scrivere l’intero libro in questo modo. Ho così scritto dapprima ogni filo del racconto, ogni personaggio, per intero e poi l’ho frammentato, ho aggiunto l’altra voce narrante che descrive luoghi e percorsi, ho intersecato le leggende, le pagine da erbolario o le microstorie.
Lei ha detto che ha imparato l’italiano in Friuli, dunque forse il racconto del terremoto, se tutti ne parlavano, ha rappresentato uno strumento per imparare l’italiano. Per di più in quelle valli si parla una lingua locale slava che nel testo è lo scrigno che conserva l’esperienza traumatica del terremoto. Quindi mi sembra che, sia nel caso collettivo che nel suo caso personale di autrice, il racconto del terremoto sia una chiave d’accesso alla lingua?
Non per il mio rapporto con l’italiano, che ho imparato dopo, ma proprio per il mio rapporto con quel dialetto sloveno: io infatti parlo polacco e russo e quando ho cominciato a parlare con le persone di qui, lo facevo proprio in quel dialetto, che mi era più facile da capire dell’italiano. Dunque ascoltavo del terremoto direttamente in quella lingua locale, che mi costringeva comunque ad ascoltare il racconto da una certa distanza. È vero perciò che l’elemento linguistico era parte di quell’esperienza di ascolto. All’inizio traducevo per me stessa tutto quello che sentivo e solo dopo, ripetendo le parole tra me, ricostruivo e comprendevo completamente quello che mi avevano raccontato. Perciò si apriva una certa distanza linguistica. Ed è ulteriormente così che mi sono accorta poi, rileggendo, che tra i vari frammenti dei personaggi si apriva un abisso, come se tutto fosse spaccato.
A proposito di spaccature, dopo il terremoto il paesaggio è materialmente sconvolto e diventa il paesaggio sensoriale e della memoria dei personaggi, con i suoi sentieri altrettanto dissestati. Spesso immaginiamo la memoria come un filo che si srotola o una videocassetta con una dimensione lineare, qui la memoria rivendica la sua dimensione spaziale, paesaggistica appunto, che si può riattraversare e si può spaccare.
Sì, la memoria è così, la memoria non è un filo, è piuttosto un tessuto alle volte sbrindellato. Uno spazio dove ritorniamo per trovare posti diversi in modo diverso, ogni volta. Sono sempre stata interessata alla memoria come fenomeno e a che forma prende, con tutte queste spaccature, dopo un trauma. Questo era però il primo trauma, parte di un racconto collettivo, dove non c’era un colpevole, un fenomeno per me molto interessante.
Il paesaggio qui è innervato di acqua, ci sono piccoli torrenti, che scorrono tra rocce bianche e aride. C’è questa aridità e l’acqua e sembra di andare in un sogno. Ma la prima cosa che mi ha colpito del paesaggio di queste valli, camminando, è che queste valli sono senza orizzonte. Immaginavo allora quelle persone vivere in un luogo dove non si vede mai l’orizzonte. Mi ha ricordato alla lontana un film di Frank Capra, Lost horizon. Era quell’orizzonte perduto a colpirmi e così immaginavo quelle vite completamente chiuse dopo il terremoto, perché non c’era fisicamente più uscita. Ho provato ad avvicinarmi, guardando, a questo paesaggio trasformato, non più riconoscibile per chi l’aveva vissuto, ed era un processo che ha dettato la necessità, ancora, di frammentare il racconto.
La nonna di Adelmo, uno dei personaggi, aveva dimenticato tutto e non riconosceva più nessuno, tranne un paio di cammini che a volte, per ricordare, cantava, come gli aborigeni australiani.
Sì, gli aborigeni di Bruce Chatwin! Certo, questo è un modo che hanno anche gli aborigeni australiani di ricreare il loro mondo, le vie dei canti, ma anche gli anziani, qui, cantano o parlano camminando ed è un modo di ricostruire l’esperienza e di ritrovare un luogo.
Torniamo al terremoto: nella memoria dei personaggi l’evento si compone in un universo di segni premonitori. Il paesaggio è abitato di presagi?
Credo che dopo un’esperienza del genere si cerchino spiegazioni di questo tipo. C’è un testo di geologia dell’Ottocento che spiega che non ci sono segni, eppure tutti, tutti parlano di segni e premonizioni, per esempio i cani che abbaiano. Credo sia un modo di sistematizzare a posteriori un evento del genere, di cercare di leggere cose che non erano state lette in tempo e dunque di proteggersi in futuro. Perciò oggi quando i cani abbaiano all’impazzata, come nel ‘76, pensiamo subito di dover stare all’erta. Ora, non mi interessa tanto se questo o altri segnali siano davvero e scientificamente premonitori del fatto che si sta avvicinando un terremoto. Quello che mi interessa, da scrittrice, è come la gente reagisce, come li racconta, questi segni, come li spiega e trova modi, a posteriori, di proteggersi e di gestire un’esperienza del genere.
Gli animali occupano una grossa parte del libro, animali domestici e selvatici. Tra i “generatori di segni” ci sono anche loro. Ma sono anche un veicolo del ricordo. Per esempio, un serpente schiacciato sulla strada che, dopo il terremoto, viene ingoiato dalla terra e diventa una crepa: è l’orologio rotto del disastro. Altrove c’è una scena in cui Gigi, uno dei narratori, racconta di essere stato costretto a mettere le mani nel grembo di una capra per salvarla durante un parto gemellare e costretto a spezzare il collo a uno dei due nascituri. Questo gesto, dice, gli ha lasciato segni indelebili sul braccio.
Animali selvatici o no, la gente qui ha un rapporto con questi animali, una responsabilità e in campagna crede che gli animali capiscano altre cose degli umani. Nei racconti locali hanno un certo spazio queste bisce nere che io non avevo mai visto. I serpenti, questi carbon o chiarbon, sono dappertutto e tra maggio e giugno si vedono spesso. Certo, in generale le bisce si trovano ovunque ma qui le persone conoscono questo serpente in un modo diverso da altrove: tutti ne parlano, tutti sanno dove si trova, sentono quando si muove nel bosco. Questo mi ricorda di certi paesi slavi dove un serpente leggendario, nero, è menzionato in molte favole. Qui non ci sono favole ma il serpente è presente.
Oltre a questi serpenti, mi interessano poi sempre gli uccelli, perché abitano una parte importante di ogni paesaggio. In questa valle, poi, sono importanti anche le capre, appunto. Nel caso della storia di Gigi, si tratta di una storia traumatica, vera, che qualcuno mi ha raccontato e ho riadattato in un contesto diverso.
Queste presenze animali a volte sono leggendarie, come se avesse preso delle pagine da un bestiario medievale. Tra le presenze leggendarie quella di un mitologico essere marino, la Riba faraonika, che nella tradizione slovena è responsabile dello scoppio dei terremoti, oppure quella di un meraviglioso uccello sconosciuto che viene trovato morto dagli abitanti del villaggio, come fosse “una disgrazia”. C’è qualcosa di allegorico?
No, non sono interessata all’allegoria e la scena dell’uccello nasce dalla suggestione di alcune cronache locali. Durante il lockdown non potevo parlare con nessuno, però un’amica qui a Fagagna mi voleva aiutare a reperire materiale per questo libro e per caso conosceva un professore, etnologo che si occupava delle lingue di queste valli. Questo anziano professore mi ha prestato molti libri su questi luoghi e tra questi esistono delle cronache, redatte da maestri, avvocati, diciamo chi studiava in paese, che descrivono eventi e incidenti senza alcun commento. Tra queste cronache ho trovato la storia, degli anni Cinquanta, di questo uccello sconosciuto rinvenuto con un piccolo anello inciso di scritte in alfabeto russo. Nessuno aveva mai visto un uccello del genere. Da qui ho ideato l’episodio dell’uccello sconosciuto morto.
La Riba faraonika è invece una leggenda conosciuta da Spalato, in Croazia, fino alle Dolomiti. Una leggenda che si trova proprio lungo la linea d’incontro tra la placca africana e quella euroasiatica. I terremoti sono dovuti alle frizioni tra le due placche. In tutta la regione esiste dunque la leggenda di questo essere marino, un’immensa sirena che dorme sul fondo del mare e che con la sua coda biforcuta scatena terremoti. E c’è una canzone tradizionale, di cui scrivo nel libro, che era cantata soltanto dalle ragazze e che serviva per tenere calma la Riba faraonika.
Come mai ha scelto di mettere in esergo all’ultimo capitolo una citazione di Peter Simon Pallas, biologo tra Sette e Ottocento, in cui si dice che gli abitanti delle montagne “saranno il nuovo vivaio del genere umano, (…) domineranno sulle pianura devastate dai flutti”?
Pallas è uno dei miei scrittori di natura preferiti, lo adoro. Era davvero un genio. Certo, aveva un concetto del terremoto diverso dai geologi dell’Ottocento. Ma mi è piaciuto che questa frase cogliesse il fatto che la gente della valle dopo il terremoto dovesse sciamare, andare al mare con le donne e con i bambini per avere di nuovo una dimora, una scuola. Inoltre coglieva quel fenomeno che unisce le genti di questi luoghi nel racconto collettivo ancor più del trauma del terremoto e che fa da sfondo anche al testo: l’esperienza dell’emigrazione.