C he cosa succederebbe sulla Terra se domani mattina tutti gli esseri umani, improvvisamente e misteriosamente, scomparissero? Non è necessario immaginare asteroidi, pandemie o guerre nucleari. Non importa la causa, è un esercizio mentale.
Pensiamoci. In un’alba inusitata, senza il segno di alcuna cinematografica apocalisse, il brulicante ronzio dell’umanità è messo a tacere, tutti i nostri macchinari sono spenti, auto e treni immobili, aerei a terra, navi e petroliere alla deriva. Non c’è più nessuno ai posti di comando. Le fabbriche abbandonate, i negozi vuoti, le strade deserte, asili e scuole tristemente silenziosi. Le stalle sono aperte, le case abbandonate, le biciclette appoggiate ai muri, i robot improvvisamente paralizzati, gli schermi dei computer tutti neri. I telefonini, ovunque muti: fine della grande conversazione planetaria. Ripetitori e trasmettitori silenti. I cavi dell’alta tensione non sono più un pericolo per gli uccelli. I centri commerciali, finalmente, deserti e ancor più desolati di quando erano pieni di gente.
Ora chiediamoci: che cosa resterebbe del clima da noi alterato, delle gloriose architetture umane, di grattacieli, cattedrali e altri vanti, di sostanze plastiche e rifiuti tossici? Prima o poi, nulla: più nulla resterà delle opere di chi si pensava eterno. Nessun artista a interpretarle, nessuno scienziato a studiarle. Senza manutenzione, imploderanno rapidamente tutti gli impianti delle città, le fabbriche, le dighe, le centrali nucleari. Per la natura il sollievo sarà immediato, come quando un peso schiacciante improvvisamente viene meno, e l’oppressione si scioglie.
Dal Dialogo di un folletto e di uno gnomo di Giacomo Leopardi a Dissipatio H. G., ultimo visionario testo di Guido Morselli, il mondo dopo (e senza) di noi è un luogo letterario già frequentato. Da qualche tempo a questa parte tuttavia – sull’onda delle evidenze crescenti circa i cambiamenti climatici, gli squilibri popolazionali, la deforestazione e la crisi della biodiversità – è diventato anche un modello scientifico. Molti ricercatori si sono cimentati nell’impresa di calcolare quale sarebbe il destino del pianeta in nostra assenza, dopo una settimana, un mese, un anno, dopo secoli e millenni. Con risultati sorprendenti e rivelatori.
Si scopre infatti che ben presto la vegetazione tornerebbe a riprendersi gli spazi che le abbiamo tolto. Il mare in pochi mesi e anni corroderebbe gli edifici e le strutture umane, inghiottendosi lo strato mortifero di cemento di cui abbiamo ricoperto le coste. L’immane biomassa degli animali d’allevamento che teniamo chiusi nei capannoni verrebbe sterminata dalla fame e dai predatori. In alcuni secoli, delle nostre vanagloriose opere resterebbero rovine, buone per archeologi alieni in visita. Resisterebbero un po’ di più gli oggetti in ceramica, le statue di bronzo, i pezzi di ghisa e, nonostante tutto, le grandi cattedrali in pietra, piramidi e muraglie.
Se adesso lasciamo passare migliaia di anni, di noi troveranno ancora sparse in ogni dove le plastiche e le microplastiche, infiltrate persino negli abissi oceanici. Non esistono ancora batteri in grado di digerire quei polimeri e ci vorrà tantissimo tempo prima che si evolvano. Dopo ben 100mila anni il clima tornerà ai suoi cicli naturali: 100mila anni, tanto è grave il macigno dell’impronta climatica che in pochi secoli abbiamo impresso sul pianeta. Dopo cento millenni i gas serra finalmente rientreranno nelle loro dinamiche fisiologiche e riprenderà il normale alternarsi delle glaciazioni. E così le calotte andranno e verranno, come fanno da 2,5 milioni di anni, triturando davvero ogni cosa al loro passaggio.
A quel punto, persino il più abile degli archeologi alieni farà fatica a trovare tracce fossili di umanità nei sedimenti. Con l’aiuto dei geologi, però, potrà ancora vedere la firma nera che abbiamo lasciato negli strati rocciosi corrispondenti al periodo 1945-1963: un fallout radioattivo globale, dal primo test in New Mexico alle due bombe atomiche sganciate sul Giappone, sommati a tutti gli ordigni nucleari fatti irresponsabilmente brillare in superficie e nel sottosuolo (si calcola siano stati più di 500) prima della messa al bando dei test. Alcuni isotopi radioattivi prima di decadere resteranno in circolazione, come nostra sinistra impronta digitale, per centinaia di migliaia di anni, altri addirittura per 15 milioni di anni. Sarà questo il segno geologico che probabilmente verrà usato per fissare il punto di inizio dell’Antropocene. Non proprio un bel segno, per i posteri.
La Terra senza di noi ci insegna l’umiltà evoluzionistica, cioè la coscienza di non essere indispensabili e al contempo la responsabilità di mantenere in vita il più a lungo possibile questa bellissima e ambivalente avventura umana.
E allora esageriamo nel nostro esperimento mentale. Passiamo a una scala paleontologica del tempo e saltiamo a 50 milioni di anni dopo la nostra silente dipartita. In quel futuro lontanissimo, qualunque osservatore con gli strumenti puntati sul terzo pianeta del sistema solare non potrà più scorgere alcun segno residuo del passaggio umano, nulla sarà rimasto delle imprese di quel mammifero bipede di grossa taglia che lo abitò per duecento millenni. Eppure, altrove nell’universo, in direzione opposta, non sarà così.
Fuori dal sistema solare saranno ancora in viaggio le minuscole sonde pioniere che abbiamo lanciato decenni fa. A chi le troverà faranno quasi tenerezza. E infine, a 50 milioni di anni luce dalla Terra, vi sarà ancora la bolla in espansione di tutte le trasmissioni radio e televisive che da Guglielmo Marconi in poi abbiamo disseminato nel cosmo. Un inquinamento indelebile a base, principalmente, di talk show televisivi, spot pubblicitari e chiacchiericcio insignificante. A quel punto l’alieno perspicace su Andromeda sentirà di cosa parlavamo poco prima della nostra fine, ascolterà un presidente degli Stati Uniti definire il riscaldamento climatico “una costosa bufala” e allora capirà subito perché guardando la Terra non vi è più alcun segno di presenza umana.
Ovviamente, l’esercizio della Terra dopo di noi può avere un gusto cinico e persino nichilista. Se è così, tanto meglio farla finita con questo esperimento dannoso e invadente, auto-proclamatosi Homo sapiens. Ma sarebbe un’interpretazione sbagliata. La Terra è già stata senza di noi per la stragrande parte della sua durata e se saremo così stupidi da auto-estinguerci potrà benissimo continuare a fare a meno di noi. Siamo una specie giovane e non dovremmo farci prendere dalla presunzione di dominare o controllare il sistema Terra. Fra l’altro, senza la fine del mondo degli altri – soprattutto dei grandi rettili che dominavano, quelli sì, fino a 66 milioni di anni fa – noi oggi non saremmo qui a parlarne e a scriverne. Insomma, la Terra senza di noi dovrebbe indurci non alla rinuncia e all’indifferenza, ma alla consapevolezza dell’opportunità unica che abbiamo avuto di essere qui, per il rotto della cuffia, alla fine di un intricato percorso evolutivo. Le cose avrebbero potuto andare diversamente nell’evoluzione e invece adesso ci siamo noi, qui, a contemplare il cosmo e a farci domande sulle nostre origini. La Terra senza di noi ci insegna insomma l’umiltà evoluzionistica, cioè la coscienza di non essere indispensabili e al contempo la responsabilità di mantenere in vita il più a lungo possibile questa bellissima e ambivalente avventura umana. Se non altro, per un principio etico di buon senso: non abbiamo alcun diritto di consegnare ai nostri figli una casa, la Terra, in condizioni peggiori di come l’abbiamo trovata.
L’Antropocene ha un significato evoluzionistico noto. Da alcune decine di millenni noi cambiamo gli ecosistemi attorno a noi per renderli più consoni ai nostri propositi espansivi. Adattiamo gli ambienti a noi. Poi però dobbiamo adattarci ad ambienti che noi stessi abbiamo modificato, in un processo ricorsivo conosciuto come “costruzione di nicchia”. Noi cambiamo il mondo, che poi cambia noi. Lo abbiamo fatto con il fuoco, con l’agricoltura e l’allevamento, poi con la nostra prorompente evoluzione culturale e tecnologica. Il cambiamento climatico di origine antropica è una nuova, rischiosa, puntata di una vecchia storia. Rischiosa perché non è scontato che l’adattamento alle condizioni inedite da noi stessi create ci vada sempre bene. Potremmo infilarci in una trappola evolutiva.
Per uscirne con le ossa indenni, servirà lungimiranza. Il catastrofismo è un alibi per l’inazione. Abbiamo gli strumenti per intervenire sul processo, ma senza fughe in avanti fanta-tecnologiche (tipo certi progetti di geo-ingegneria climatica). Dobbiamo innanzitutto comprendere che siamo una specie imperfetta (con una mente piena di bias cognitivi ed emotivi) dotata di un potere tecnologico immenso. Salvare il pianeta significa salvare anche noi stessi e il futuro dei nostri discendenti. Gli interessi nostri e quelli della natura coincidono, quindi l’ecologismo di cui abbiamo bisogno è un ecologismo umanista e scientificamente informato. La natura non è né buona né cattiva, fa il suo mestiere e continuerà a farlo anche quando non ci saremo più. Annunciare fatti spaventevoli (per quanto veri) non è abbastanza, perché creano assuefazione e smettiamo di crederci per davvero. Bisognerà attingere ad altre sorgenti di motivazione. La scelta di evitare una Terra senza di noi spetta solo a noi, alle nostre capacità culturali, politiche e morali collettive. Richiederà un cambio negli stili di vita e una trasformazione dei nostri modelli di sviluppo e di consumo nel segno della sostenibilità, della giustizia ambientale e sociale, dell’uguaglianza.
Altrimenti? Altrimenti nulla di irreparabile. Ci sarà un’altra delle tante, imprevedibili staffette evolutive. Consegneremo il vessillo di specie terrestre dominante a qualche organismo opportunista e generalista, insetto, uccello, mammifero o batterio che sia. La biodiversità tornerà a prosperare in forme nuove, anche se forse non contemplerà più la nascita di un William Shakespeare e di un Leonardo da Vinci.
L’ultimo libro di Telmo Pievani è La Terra dopo di noi. Fotografie di Frans Lanting, Editore Contrasto, Roma, 2019. Telmo Pievani sarà ospite del Tascabile, con Caspar Henderson, all’incontro Storie di natura del Festivaletteratura 2019: venerdì 6 settembre, alle 21, in Piazza Leon Battista Alberti, a Mantova.