E instein ci aveva provato. Aveva passato gli ultimi trent’anni della sua vita a cercare di combinare la gravità e l’elettromagnetismo in un’unica, elegante teoria, ma aveva fallito. “La maggior parte della mia progenie intellettuale è finita molto giovane nel cimitero delle speranze deluse”, così aveva dovuto riconoscere già nel 1938, senza mai darsi per vinto però, fino alla fine dei suoi giorni. Oggi, a non volersi arrendere, è invece un’intera generazione di fisici, quella che da più di trent’anni va a caccia di una teoria che tenga assieme, sotto a un unico ombrello matematico, tutti gli aspetti fisici fondamentali dell’Universo.
Tra le diverse teorie di ogni cosa, la più nota predice che, alla cosiddetta scala di Planck – dove le dimensioni sono dell’ordine di un milionesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di centimetro – l’universo non sia popolato da particelle ma cordicelle, quelle che i fisici chiamano stringhe. Si tratta però di una teoria, anzi, per meglio dire, di una classe di teorie, che non può vantare alcuna verifica sperimentale, né diretta né indiretta.
Sinuose come i tentacoli di una piovra, le stringhe stanno provando negli anni a tastare varie zone del conoscibile. Le potete veder lambire la teoria dell’informazione quantistica, afferrare la fisica della materia condensata e avvincere alcuni cosmologi col problema dell’inflazione. Sono insomma ancora tra noi, alla ricerca di un riconoscimento e di un’applicazione pratica, di qualcosa di tangibile che spazzi via tutte le dicerie messe in giro contro di loro. Non vogliono essere più considerate come il prodotto di una fisica buona solo a corrompere gli studenti impressionabili, una marmellata indigesta di formule vuote e speculazioni ardite. Il problema è che già il loro primo vagito fu un fallimento.
Bad vibrations
Era 1968, anno di rivoluzioni vere e presunte. I fisici delle alte energie erano impegnati a interpretare i risultati dei processi di interazione tra le particelle subatomiche, quelle che ormai da un po’ di tempo sciamavano copiose nei grandi acceleratori, a Brookhaven, nello stato di New York, e a Stanford, in California. L’attenzione era rivolta in particolare agli adroni, le particelle “forti” (ἁδρός), come il protone, che ne è il rappresentante più leggero. In questo settore, Gabriele Veneziano, giovane fisico di Firenze, aveva individuato una funzione matematica, figlia di Eulero e nota da almeno due secoli, che pareva descrivere accuratamente certe reazioni. L’interpretazione fisica del modello di Veneziano rimase oscura fino al 1970, anno in cui Nambu, Nielsen e Susskind compresero che a venire rappresentato in quella formula era un mondo di oggetti elementari che non potevano più essere interpretati come particelle ma come oggetti che si estendevano in una dimensione, più simili a cordicelle tese, sottilissime e vibranti: le stringhe.
Le particelle adroniche, che gli esperimenti mettevano in bella mostra, erano solo il risultato della vibrazione delle stringhe che ne determinava la massa e il modo in cui interagivano. Si trattava un’idea intrigante, senza dubbio, ma il modello di Veneziano era fragile e destinato all’oblio. Più si acquisivano dati, meno i dati parevano andarci d’accordo. A funzionare bene sarebbe stato invece un altro modello, quello che, a metà degli anni Settanta, sarebbe diventato di riferimento per tutta la fisica delle particelle – il Modello Standard – che avrebbe mostrato che gli adroni sono particelle composte, fatte di particelle più piccole: i quark.
Le stringhe erano però troppo stuzzicanti per esser messe subito da parte. Lavorandoci ancora un po’ si era scoperto che popolavano un universo quantomeno bislacco, caratterizzato da ben venticinque dimensioni spaziali e attraversato da particelle più veloci della luce, i tachioni. Allo stesso tempo le vibrazioni delle stringhe producevano però tante particelle, fin troppe, ma non tutte quelle conosciute. Un’altra bella rogna.
L’odore del tutto
Tutte le particelle note si possono accomodare in due grandi categorie: i bosoni, che preferiscono stare ammucchiati nello stato ad energia più bassa e i fermioni, una congrega di aristocratici che amano mantenere le distanze, e a cui appartengono, per esempio, i protoni e gli elettroni. Le stringhe “primitive” non riuscivano a generare i fermioni, ed erano quindi i progenitori di una società destinata a una rapida estinzione, priva degli ingredienti di base per montare un atomo.
Morto un mondo immaginario, però, se ne fa un altro, e così Pierre Ramond, per risolvere il problema delle particelle mancanti, scoperchiò il vaso di Pandora della Supersimmetria. Ramond mise in piedi una teoria che permetteva di recuperare i fermioni alla causa delle stringhe costruendo però una società che non prevedeva scapoli: ad ogni fermione noto andava ora associato un nuovo bosone di uguale massa e viceversa. Con un nuovo problema: uno dei partner era solo presunto, nascosto da qualche parte, invisibile agli strumenti, mai rivelato.
Si sistemava una cosa e se ne guastava un’altra, come al solito. E, come al solito, qualcuno ci avrebbe messo una pezza, immaginando un meccanismo che avrebbe provveduto a rendere molto più pesanti – e così non più facilmente rivelabili – i partner supersimmetrici delle particelle note. Nel frattempo la teoria delle stringhe si stava evolvendo, i tachioni erano spariti – meno male – ma era venuta a galla un’infinità di particelle prive di massa, esattamente come il fotone, il “quanto” della radiazione elettromagnetica. Tra queste c’era il gravitone, l’ipotetico “quanto” del campo gravitazionale. Si cominciava a percepire l’odore del Tutto.
Magical Mystery Theory
Sarà stata la metà degli anni Settanta. È la sera di un imprecisato giorno d’estate e gli ospiti dell’Aspen Centre for Physics son stipati in una sala dell’hotel Jerome, ad assistere a quello che hanno chiamato physics cabaret. In sala solo fisici e qualche sfortunato familiare: di che potranno ridere se non della fisica? Tra loro s’è accomodato anche Murray Gell-Mann e sta fremendo, aspetta il momento giusto, quello in cui far accadere le cose che non ti aspetti. Il colpo di scena, lui, l’ha preparato bene. Scende il silenzio. È quel momento. Si alza di botto, attraversa di corsa la sala, balza sul palco e urla: “Ho capito la teoria del tutto!”. Due tizi in camice bianco lo afferrano e lo trascinano via. Cala il sipario.
Ad Aspen, piccola e celebre località che s’adagia su un’alta valle incastrata tra le Montagne Rocciose del Colorado, i teorici erano di casa e potevano (e possono ancora) ragionare senza distrazioni o vincoli, da soli o in gruppo e in maniera informale, discutendo sdraiati su un prato o tracciando su una lavagna il primo abbozzo di una teoria. Ramond, la supersimmetria, l’aveva immaginata lì e sempre lì, nel 1984, era esplosa la prima rivoluzione della teoria di quelle che ormai sono chiamate superstringhe. John Schwartz, ricercatore al California Institute of Technology, si era presentato sul palco di un nuovo “physics cabaret” e aveva riproposto, quasi identica, la scena che aveva già visto protagonista Gell-Mann: “Ho capito come fare tutto”, s’era messo a urlare e poi ancora “È tutto coerente! Si tratta di una teoria quantistica della gravità! Spiega tutte le forze!”. Non stava scherzando però, aveva appena scoperto (con Michael Green) che la “versione buona” della teoria era quella che alloggiava in uno spazio-tempo a dieci dimensioni. Sempre meglio che ventisei, fu subito facile chiosare, non senza ironia. Il modello di Schwartz appariva però come un’estensione naturale del modello standard, in grado di giustificare tutte le particelle elementari e tutte le interazioni fondamentali in un colpo solo. Andava preso sul serio.
Da quel momento, quelle che erano state vissute come speculazioni ai margini della fisica generalmente accettata diventano moda, persino sui giornali. La copertina del numero di Novembre 1986 di Discover viene dedicata alla teoria del tutto e, all’interno, l’articolo principale titola “Tutto quanto è legato alle stringhe”. I fisici coinvolti in questo programma di ricerche sono euforici, sicuri di riuscire a comprendere molto presto tutto quanto. Non va così. Col tempo si scopriranno ben cinque differenti varianti della teoria delle stringhe e in questa babele la depressione tornerà sovrana. Le cose cambiano una volta ancora quando si capisce che tra quelle cinque teorie è possibile identificare delle coppie che, pur parlando lingue diverse, descrivono lo stesso universo. È il primo passo verso una confederazione di teorie e di una teoria più generale che potrebbe abbracciarle tutte, quella che Ed Witten nel 1995 chiama M-theory. M sta per membrana, per mistero o per magia, eppure diventa subito la teoria Madre, la madre di tutto, anche delle stringhe.
Universi immaginari
Ma è davvero così come dicono? Davvero il nostro vituperato spazio tridimensionale è immerso in un supermondo ultradimensionale? E come mai non ne percepiamo i segni? Una vecchia teoria, cara pure ad Einstein, pare contenere la risposta.
Theodore Kaluza e Oskar Klein, negli anni Venti del secolo scorso, avevano provato a unificare gravità ed elettromagnetismo attraverso l’introduzione di una nuova dimensione spaziale. La dimensione aggiuntiva non si estendeva però all’infinito, come quelle ordinarie, ma era “arrotolata” su se stessa e dunque di taglia finita, invisibile agli occhi. Se, ad esempio, una cosa del genere capitasse al nostro universo tridimensionale, se cioè la taglia di una delle tre dimensioni diventasse di colpo microscopica, precipiteremmo tutti a Flatlandia, un mondo dove “le donne sono delle linee rette”, i soldati e “gli operai della classi inferiori sono dei triangoli con due lati uguali” e i Cerchi sono Sommi Sacerdoti, organizzatori di tutte le Arti e le Scienze.
Per le dimensioni-extra del supermondo funziona, in ipotesi, così: non possono essere percepite perché la loro taglia è molto più piccola della taglia enormemente grande delle tre in cui ci siam liberi di muoverci. Quanta energia è necessaria per sondare l’esistenza delle dimensioni-extra? Se la taglia è dell’ordine della lunghezza di Planck, beh, tanto vale quasi non provarci nemmeno, ma se invece è maggiore, ad esempio pari a un miliardesimo di un miliardesimo di metri, sarà sufficiente l’energia disponibile al Large Hadron Collider (LHC), il grande collisore di protoni, il più grande al mondo.
Superscommesse
È il 2000. Il 21 giugno, per la precisione. Mentre al CERN di Ginevra i lavori di costruzione del Large Hadron Collider, sono ancora nella fase iniziale, a Copenhagen, i fisici che partecipano al meeting sui “metodi nonperturbativi in teoria delle stringhe e di campo” sono impegnati a scommettere. In gioco ci sono un po’ di bottiglie di buon cognac e la bontà dei loro modelli teorici. Ci si chiede se entro dieci anni verrà scoperta sperimentalmente almeno una tra le particelle previste dalla Supersimmetria. Il grande collisore di Ginevra, con il suo anello di 27 chilometri di diametro entro il quale i protoni sarebbero presto schizzati a una velocità prossima a quella della luce, è candidato a dirimere la questione. I no – nessun “partner supersimmetrico” delle particelle note verrà scoperto – prevalgono nettamente sui sì, ma per decidere i vincitori dieci anni non basteranno.
Le prime collisioni utili, quelle da cui tutti si aspettano una raccolta di dati in grado di far emergere l’atteso e l’inatteso, vengono registrate a partire da fine marzo 2010: è solo nel 2011, però, che i protoni giungono alla velocità di crociera agognata. Serve tempo per raccogliere altri dati e, soprattutto, per analizzarli. I nostri scommettitori si rincontrano nel giugno del 2011 ancora privi di una risposta. Costretti a rinnovare la scommessa, ne rimandando la chiusura al 2016. Nel frattempo, nel 2012, sempre a LHC, la fisica delle particelle conosce uno straordinario successo: la scoperta del bosone di Higgs (o bosone BEH, da Brout-Englert-Higgs, che dir si voglia), una particella la cui presenza certifica l’esistenza un meccanismo in grado di fornire la massa a tutte le particelle elementari. Si tratta delle conclusione di un’impresa collettiva straordinaria sia da un punto di vista sperimentale, sia teorico. Il Modello Standard, ormai non ci sono più dubbi, funziona maledettamente bene, talmente bene che a scommetterci contro ci si rimette di sicuro. Stephen Hawking ne è testimone: punta contro l’Higgs, perde cento dollari e comincia a lamentarsi che con la sua scoperta la fisica è diventata meno interessante.
I nostri super-scommettitori si riuniscono nell’agosto di quest’anno, questa volta per l’ultima volta, in una sala della Niels Bohr National Academy. Le misure di LHC sono andate avanti, a energie sempre maggiori. Purtroppo, tra i detriti delle collisioni non solo non è apparsa nessuna particella tra quelle previste dalla Supersimmetria, ma proprio nessun segno di fisica oltre il Modello Standard: nessun parente eccitato del bosone di Higgs; nessun segnale da altre dimensioni e gravitoni niente, neanche a parlarne. I ventiquattro che avevano scelto il No sono dichiarati vincitori e s’aggiudicano l’agognata bottiglia. Alla riunione è presente anche Stephen Hawking che di scommesse, a quanto pare, non se ne perde una: questa aveva preferito non giocarla. È lì solo per curiosare e, a cose fatte, dichiara che se avesse partecipato avrebbe votato No.
Epilogo
Quello che si è aperto con gli ultimi risultati di LHC rappresenta, per alcuni fisici teorici, uno scenario da incubo: o non c’è altro da scoprire o, se c’è, non lo scopriremo probabilmente mai.
E allora forse ha ragione chi sostiene che c’è più di un universo e magari siamo capitati in quello fatto così, quello che non dà soddisfazione ai profeti delle stringhe e della supersimmetria. O magari la risposta si trova sul bordo del nostro universo, chi può dirlo? Tra quelle formule e in quegli universi qualcosa però potrebbe tornare ancora utile, una matematica che aiuti a spiegare fenomeni non del tutto compresi. La pensa così, ad esempio, Subir Sachdev che si occupa di transizioni di fase quantistiche in materia condensata e ritiene che la teoria delle stringhe, nel caso di superconduttività ad alta temperatura, possa funzionare davvero. Conclusioni definitive, com’è tipico delle stringhe, non ne ha ancora ricavate.