A Sacco, una frazione di poche anime della Val Gerola, in Valtellina, c’è un edificio a lungo utilizzato come stalla, finché qualcuno non si è accorto dei bellissimi affreschi quattrocenteschi che ne ricoprono le pareti. Ce n’è uno in particolare che raffigura un uomo con barba e capelli lunghi, il corpo irsuto e una clava in mano. Di fianco una scritta ce lo presenta: “sonto un homo selvadego per natura, chi me offende ge fo pagura”. Si tratta di una delle rappresentazioni più iconiche dell’uomo selvatico, un archetipo del folclore europeo diffuso soprattutto lungo l’arco alpino. Vive nei boschi, rifiuta le convenzioni sociali, si veste di pelli o è ricoperto di peli. Boiardo, nell’Orlando innamorato, lo descrive così: “Tutto peloso dal capo alle piante: Non fu mai visto più sozza figura. […] Non aveva voce de omo né intelletto: Salvatico era tutto il maladetto”.
Nella cultura europea – e in particolare dal Tardo Medioevo in avanti – l’uomo selvatico rappresentava lo spauracchio dell’uomo civilizzato. Anche quando è caratterizzato in modo benevolo, simboleggia l’altro per eccellenza: uno stadio primordiale e ferino che l’umanità ha abbandonato da tempo, a cui a tratti può guardare con fascinazione, ma mantenendo le dovute distanze. Un monito che ci ricorda come eravamo e come potremmo tornare a essere abbandonando il virtuoso percorso di progresso che la civiltà avrebbe intrapreso.
La demonizzazione della natura selvaggia – quella fuori di noi: ingovernabile, caotica e spaventosa; o quella dentro di noi: il nostro lato più ancestrale e non addomesticato – ha accompagnato a lungo le riflessioni di filosofi, teologi e scienziati. Lo racconta bene Marshall Sahlins in Un grosso sbaglio (2010), saggio in cui l’antropologo si impegna a smontare l’idea occidentale di “natura umana” e in particolare la corrente che ci vuole brutali e competitivi “per natura”. Per ribaltare il paradigma Sahlins fa una breve panoramica di momenti in cui, nella storia del pensiero, l’essere umano è stato descritto come una bestia egoista e crudele che solo l’azione concertata di tutti gli armamentari della società civilizzata era in grado di contenere. Da Tucidide a Hobbes, da Cicerone a Machiavelli, per non parlare di moltissimi filosofi cristiani, in molti hanno tracciato il ritratto di un’umanità in lotta per affrancarsi da uno stato di natura indisciplinato e brutale.
Di tutt’altro parere è invece il naturalista americano Paul Shepard, che negli anni ‘70 scrive un vero e proprio inno d’amore alla natura selvaggia e a quei progenitori che, più di tutti, hanno vissuto in comunione con essa: i cacciatori del Neolitico. Con un titolo che gioca su un apparente ossimoro, Teneri carnivori è recentemente arrivato in Italia grazie a Meltemi a cinquant’anni dalla sua prima uscita del 1973 – un anno dopo L’economia dell’età della pietra di Sahlins – e la prima domanda che ha senso porsi è: perché proprio ora?
Nella cultura europea l’uomo selvatico rappresentava lo spauracchio dell’uomo civilizzato.
Risponde bene al quesito il curatore del volume Matteo Meschiari nell’introduzione al libro, spiegando come il lavoro di Shepard sia utile in prima battuta per ricordarci che “continuiamo a definire cos’è l’umano usando come modello l’uomo civilizzato, trascurando così un milione di anni di vita pre-industriale, pre-agricola e pre-Sapiens”. Un milione di anni che oggi è interessante recuperare perché evoca un rapporto uomo-natura molto diverso da quello a cui siamo abituati, e che può venirci in soccorso in un momento in cui mettere tra parentesi il paradigma antropocentrico e ripensare il rapporto con gli ecosistemi può risultare non solo utile, ma addirittura fondamentale per la nostra stessa sopravvivenza.
Il lavoro di Shepard si inserisce nel solco dell’interesse per il “tempo profondo”, che di tanto in tanto affiora per sottrarre la “preistoria” alla dimensione puerile e deficitaria a cui troppo spesso viene relegata. Eppure, rispetto ad altri autori, Shepard è poco citato: saccheggiato magari, preso come fonte di ispirazione – per esempio da Gary Snider che gli dedica anche la poesia Old Bones (1996) – ma quasi mai rivendicato esplicitamente. Un “padre scomodo”, spiega Meschiari, da cui trarre degli spunti di pensiero senza però fare i conti con gli aspetti più provocatori della sua riflessione. Che in effetti ci sono.
A cominciare dalla netta contrapposizione tra i cacciatori-raccoglitori del Paleolitico e gli allevatori e coltivatori del Neolitico. Shepard parte da un’osservazione condivisibile: la vulgata che vuole la campagna come alternativa naturale a una modernità cittadina tutta artificio si basa, in realtà, su una falsa dicotomia. Per Shepard sono due facce della stessa medaglia, perché all’origine del nostro degrado in senso lato – che comprende il collasso ambientale ma anche le nevrosi dell’uomo contemporaneo – c’è lo stesso evento che per secoli abbiamo tanto celebrato: il passaggio all’agricoltura finalizzata al profitto. Siamo tutti vittime di un semplice quanto gigantesco equivoco: “la vita di chi coltiva la terra è felice”. È questa la menzogna che ha giustificato il sistematico attacco agli ecosistemi e le forzature che hanno imbrigliato un essere evolutivamente plasmato per muoversi con disinvoltura nella wilderness, costringendolo a un’esistenza banale, tutta lavoro e frustrazione.
Per Shepard siamo vittime di un semplice quanto gigantesco equivoco: ‘la vita di chi coltiva la terra è felice’.
È una chiave di lettura attraente: non a caso l’idea di un equilibrio iniziale improvvisamente alterato da un conflitto è alla base stessa della struttura narrativa. Ma è anche semplicistica: la moderna archeologia, infatti, sembra suggerire che non vi sia stato un passaggio netto da un sistema economico all’altro. Senza entrare nel merito delle loro tesi, David Graeber e David Wengrow ne L’alba di tutto (2021) offrono diversi esempi di studi e ritrovamenti archeologici che complicano e diversificano la nostra immagine del tempo profondo, suggerendo che forse gli esseri umani del passato si sono organizzati in un grande ventaglio di modalità che abbracciano soluzioni egualitarie e soluzioni autoritarie, piccole tribù e ampi agglomerati e così via, con lunghi periodi in cui la caccia e la raccolta coesistevano con la domesticazione senza che la seconda soppiantasse le prime. Shepard critica la visione teleologica della storia, Graeber e Wengrow avanzano dubbi più netti anche sulla sua linearità.
Un merito indubbio di Shepard è certo quello di ricordarci una volta di più – e in anni in cui non era scontato – che la storia dell’uomo non è una continua ascesa verso sorti fantastiche e progressive, e che la creatività culturale non si sviluppa solo se disciplinata dalla geometria dei campi irrigui, dal calendario o dall’economia di mercato. Ma l’analisi di Shepard non si ferma qui: nel tentativo di riabilitare l’uomo paleolitico (in particolare il cacciatore) dall’immagine stantia ma dura a morire del cavernicolo armato di clava, Shepard tratteggia un altro mostro, l’agricoltore – un essere ruvido, conformista e sospettoso, che proietta verso i suoi concorrenti o la natura selvaggia la propria insoddisfazione, abbandonando l’immaginazione per la ben più pigra fede religiosa.
Al ritratto mortificante del contadino che è in ognuno di noi contrappone “l’uomo cinegetico” (perché il termine “cacciatore” ha una connotazione troppo negativa) e ne fa un modello: i cacciatori sono teneri perché sono appagati e in armonia con il proprio ambiente. Mangiano carne come un sacramento, dividono la preda con la propria comunità, vivono l’orgoglio di una vita piena ma anche l’umiltà di attingere dalla natura senza plasmarla. E attuano una predazione “prudente” che preserva l’ecosistema, perché sarebbero i primi a risentirne, se dovessero rimanere senza selvaggina. “Nulla di ciò che fanno gli uomini si avvicina tanto a mantenere le promesse che l’immaginazione costruisce in gioventù quanto la caccia”, scrive Shepard.
Shepard critica la visione teleologica della storia, Graeber e Wengrow avanzano dubbi più netti anche sulla sua linearità.
Citando il Discorso sulla caccia di José Ortega y Gasset (2007), Shepard spiega che la vita cinegetica è autentica perché si confronta costantemente con due misteri fondamentali: la natura e la morte. La sensazione di comunione con l’animale che si sta inseguendo, secondo Ortega, crea nel cacciatore un’esperienza sensoriale più forte e completa di ogni altra, perché si tratta di riuscire a percepire l’ambiente dal punto di vista della preda senza abbandonare il proprio. L’uomo cinegetico è chiamato a conoscere il proprio habitat, a scoprirlo, a prestare attenzione. È un uomo all’erta. E proprio il rapporto con l’animale-preda, rispettato e onorato, è uno degli aspetti più interessanti del lavoro di Shepard, che identifica nel mondo animale il nostro primo grande esempio di alterità. Un’alterità con cui confrontarsi e, in parte, rispecchiarsi quasi da pari, in un rapporto molto più leale di quello che si può intrattenere con i docili animali domestici. Dimentica però un aspetto che sarebbe stato interessante affrontare: la relazione uomo-animale a ruoli invertiti. Non dobbiamo scordare infatti che per lunghissimo tempo siamo stati più prede che cacciatori, e questo ha modellato la nostra psiche e il nostro comportamento almeno quanto l’attività della caccia.
Un altro aspetto interessante è il ruolo centrale che Shepard attribuisce all’adolescenza: se l’infanzia è l’inizio del viaggio di scoperta dell’altro da sé, l’adolescenza corrisponde alla scoperta del non-umano. Da qui l’importanza dei riti di iniziazione, che permettono ai giovani di fare esperienza del silenzio e della solitudine, per immergersi quasi totalmente nella natura selvaggia. La sfida è “accogliere nella testa tutto il peso del cosmo senza la protezione della società”.
A questo punto è lecito farsi un’altra domanda che forse a molti è già passata per la testa: chi è chiamato a compiere questi riti di passaggio? Gli adolescenti tutti o gli adolescenti maschi? Naturalmente la seconda: ai riti di iniziazione femminile vengono dedicate appena due righe, per di più molto vaghe. Shepard mostra grande preoccupazione nei confronti dei maschi “non cinegetici” che, in assenza di un’iniziazione valida, si ritrovano “in un limbo sospeso tra infanzia e maturità” che li condanna a una “ricerca perenne di comfort succedanei al grembo materno”. La maturazione femminile, invece, non è affare che lo interessa.
Al ritratto mortificante del contadino Shepard contrappone l’uomo ‘cinegetico’.
In generale Shepard sembra ricordarsi dell’esistenza delle donne solo a tratti e anche allora cerca di liquidare in fretta la questione. Il suo conservatorismo per quanto riguarda i ruoli di genere è uno degli aspetti che rendono il libro problematico ora come negli anni ‘70. Oggi sappiamo anche che lo stereotipo donna raccoglitrice versus uomo cacciatore andrebbe un po’ rivisto, come testimoniano il ritrovamento del 2020 in Perù di uno scheletro di donna cacciatrice di 9.000 anni fa e gli studi che ne sono seguiti. Shepard naturalmente è figlio del suo tempo, ma c’è qualcosa di sottilmente crudele nel dipingere il ritratto così appassionato di uno stile di vita che l’autore ritiene il più appagante possibile e ammettere candidamente, senza nemmeno argomentare, che la metà della popolazione ne è irrimediabilmente esclusa.
Dove invece si argomenta destando però alcune perplessità sono i passi in cui si ricorre ad archetipi e spunti psicoanalitici che oggi sono considerati, almeno in parte, superati. Shepard non crede alla psicoanalisi come soluzione alla nevrosi contemporanee ma vi attinge a piene mani quando si tratta di rafforzare la propria tesi, e questo ci dà già l’idea dello spirito che anima questo libro, molto più emotivo e militante di quanto lo stesso autore, forse, si fosse reso conto. La parte forte del suo ragionamento sta invece nella capacità di dipingere un mondo e farci appassionare a una realtà radicalmente diversa dalla nostra, un po’ reale e un po’ immaginata, ma che contiene spunti importanti per capire chi siamo. Ed è in quest’ottica che ha seno l’ipotesi verso cui culmina il pensiero di Shepard, ossia lo spunto propositivo della future primitive utopia.
La sua proposta non è prettamente primitivista – infatti Meschiari parla di nell’introduzione di “para-primitivismo” – perché non punta solo alla decrescita ma tenta la sfida concettuale di integrare il selvaggio in un mondo che da migliaia di anni si ostina a escluderlo, sfruttando anche alcuni elementi della modernità. Per Shepard negli anni ‘70 i tempi sono già maturi: gli sembra di individuare una strana analogia tra i cacciatori raccoglitori e l’uomo contemporaneo, che rispetto agli antenati delle società agricolo-industriali sembra essere più mobile, meno territoriale, meno orientato alla coltivazione, più interessato alla natura e propenso a costruire nuclei familiari ristretti.
Il conservatorismo di Shepard per quanto riguarda i ruoli di genere è uno degli aspetti che rendono il libro problematico ora come negli anni ‘70.
Per questo “uomo nuovo” propone una vasta operazione di macro e micro ingegneria planetaria, con le città concentrate lungo le coste e l’entroterra tutto dedicato alla wilderness in cui immergersi per esperienze formative di educazione al non-umano, come i viaggi iniziatici per gli adolescenti a lui tanto cari. Niente campi coltivati, solo orti urbani e alimenti di sintesi a base microbiotica. Niente allevamento, niente pet ma solo grandi mammiferi da cacciare e contemplare, mentre i rapporti sociali tra umani sono organizzati secondo una divisione di compiti che pretende di non essere gerarchica ma rimane fortemente improntata sul genere.
Un ritratto per molti versi distopico, anche per certi aspetti che possono sembrare secondari come il rapporto con gli animali da compagnia. È inutile sottolineare quanto sarebbe difficile rinunciare a questo tipo di relazione, che è certamente più recente del passato lontano a cui tende Shepard, ma è comunque antichissima, e forse non così priva di valore, anche nell’ottica di un rispecchiamento che non è più quello con gli imponenti mammiferi del Pleistocene ma con creature che sentiamo prossime e con cui condividiamo anche alcune nevrosi che – e in questo Shepard ha ragione – forse hanno, almeno in parte, un’origine più lontana e profonda di quanto siamo abituati a pensare.
“Mettere l’ambiente ‘là fuori’, al di fuori di noi, lo ha reso invisibile”, dice Shepard, e mentre ci invita ad accogliere il selvatico che è in noi cerca anche di ricostruire un “istinto ecologico”, uno sguardo più sistemico che può rivelarsi ben più utile delle soluzioni tecnocratiche per salvarci dal collasso. Tutto questo nonostante il fatto che il rewilding, come deus ex machina ecologico, sia a sua volta frutto di uno sguardo fortemente antropocentrico – e come potrebbe essere altrimenti? – che ha radici nel nostro senso di colpa nei confronti della natura. Più che un saggio storicamente e antropologicamente accurato, Teneri carnivori è un’ottimo lavoro di mitopoiesi, il racconto di un’età dell’oro con totem, mammuth e cacce magiche al posto dei fiumi di latte e degli alberi che stillano miele. Una dichiarazione d’amore appassionata – e ben scritta – che può avere anche la funzione di manifesto ecologista.