A nche gli scienziati più aperti hanno dei tabù. Provate a parlare di “moto perpetuo” a un fisico, e lo vedrete girarsi e andarsene senza nemmeno salutare. Otterrete lo stesso effetto con altre cose manifestamente irrazionali come l’astrologia, l’omeopatia o il verso giusto delle chiavette USB. Se gli parlate di teletrasporto, invece, non batterà ciglio. Basta cercare sul sito della rivista Nature (la più selettiva di tutte) per trovare decine di articoli scientifici sul tema. Su Physical Review, ne troverete addirittura centinaia.
Il concetto di teletrasporto oggi è utilizzato comunemente dagli scienziati. Nonostante violi alcuni dei fondamenti su cui si basa la possibilità stessa di studiare la fisica, il teletrasporto è diventato infatti una realtà empirica, verificata quotidianamente dagli scienziati sperimentali in tutto il mondo. Non sappiamo ancora realizzarlo nelle dimensioni macroscopiche di Star Trek, in cui si viaggiava persino in comitiva, ma con singole particelle funziona già. Einstein non lo riteneva possibile e la chiamava “spooky action at a distance”, “inquietante azione a distanza”. Ora l’espressione è diventata il titolo di un libro di George Musser, uno dei più popolari divulgatori della fisica teorica della rivista Scientific American, appena pubblicato da Adelphi.
Il significato più esatto di “spooky” è “spaventoso”, nel senso dei fantasmi. Per Einstein ammettere l’esistenza del teletrasporto equivaleva a riconoscere una realtà soprannaturale. Per molti scienziati dell’epoca era una specie di scomunica. Eppure se in questi anni parliamo seriamente di teletrasporto è proprio colpa di Einstein.
L’entanglement
Negli anni Trenta, studiare la fisica teorica significava in gran parte occuparsi delle idee di Einstein. Era lui ad aver dimostrato l’esistenza degli atomi, gettato le basi della meccanica quantistica e, ovviamente, spiegato la struttura dell’universo con un capolavoro di eleganza, la teoria della relatività generale. Avrebbe dato lavoro ai teorici per altri cento anni. La relatività (in gran parte opera sua) descriveva l’interazione gravitazionale tra corpi dotati di massa o energia e permetteva previsioni più accurate mentre la meccanica quantistica (sviluppata da numerosi altri scienziati) descriveva le proprietà di particelle, atomi e molecole ma ipotizzava l’impossibilità di prevedere con precisione l’evoluzione di un sistema. Eppure, quella che trovava più conferme sperimentali era la meccanica quantistica.
Einstein la riteneva una teoria ancora acerba. Sarebbe stata presto superata da una teoria più profonda, pensava, in grado di rimuovere quella imprevedibilità che invece i colleghi Bohr e Heisenberg ritenevano ineliminabile. Nel 1935 Einstein credette di aver trovato la crepa nella teoria quantistica che avrebbe indotto a rivederne le fondamenta. Insieme ai giovani Boris Podolsky e Nathan Rosen, Einstein mostrò in un famoso articolo che, secondo la meccanica quantistica, due particelle potevano influenzarsi istantaneamente a distanza, una possibilità negata dalla teoria della relatività. Per Einstein le spiegazioni possibili erano due. La meccanica quantistica potrebbe non essere “completa”: cioè, potrebbero esserci proprietà della materia che ne determinano il comportamento ma che ancora non abbiamo scoperto – e questa era l’ipotesi più credibile secondo Einstein. Oppure si sarebbe dovuto buttare a mare il principio di località. La “località” sembrava una proprietà indiscutibile della realtà, prima ancora della teoria fisica: significa che ogni cosa ha una posizione ben precisa e che le cose interagiscono prima con quelle a cui sono vicine. Nella teoria della relatività di Einstein, questo si traduce in una proprietà ben definita: particelle, onde, segnali non possono trasmettersi istantaneamente da un punto all’altro, visto che non possono viaggiare più velocemente della luce (300 mila chilometri al secondo). Rinunciare a questo limite significava abbandonare la teoria della relatività ristretta, a cui la stessa meccanica quantistica doveva parte del suo successo empirico. Impossibile. Fu chiamato “il paradosso EPR” dalle iniziali dei suoi scopritori.
Per Einstein ammettere l’esistenza del teletrasporto equivaleva a riconoscere una realtà soprannaturale. Per molti scienziati dell’epoca era una specie di scomunica.
Per quarant’anni, il paradosso EPR non ebbe grandi conseguenze e la meccanica quantistica ottenne sempre maggiori successi e applicazioni. Negli anni Sessanta, però, il fisico irlandese John Bell ideò un teorema e un esperimento in grado di stabilire se le variabili nascoste postulate da Einstein esistono o no. Da allora, gli esperimenti per verificare il teorema di Bell sono stati effettuati molte volte, e sempre con lo stesso risultato: le particelle comunicano istantaneamente a distanza.
Il fenomeno si chiama “entanglement”, cioè “intreccio”, e funziona così. In laboratorio un fisico crea due fotoni “intrecciati”, cioè due raggi di luce di debolissima intensità ottenuti dalla separazione di un raggio appena più intenso e che procedono in direzioni diverse. Questi raggi di luce, secondo la meccanica quantistica, hanno proprietà fisiche intrinsecamente casuali, che assumono un valore solo dopo essere state misurate: una di queste è la polarizzazione della luce, lo stesso fenomeno contro cui combattono i fotografi quando vogliono eliminare i riflessi dalle foto con i filtri. Se i fotoni si allontanano tra loro e si misura separatamente la loro polarizzazione, si ottengono valori statisticamente correlati l’uno all’altro, come se anche a grande distanza i fotoni si “copiassero” istantaneamente l’uno sull’altro. Esperimenti del genere sono stati ripetuti su distanze enormi, come quelle che separano la terra dai satelliti in orbita.
Se ci si riuscisse con tutte le particelle che compongono un’automobile, riusciremmo a far comparire un’automobile esattamente uguale a un’altra dal nulla: per questo si parla di teletrasporto. Per ora gli scienziati se ne occupano una particella per volta, ma chissà. In ogni caso, la meccanica quantistica sembra decisamente “non locale”.
La non-località
I fotoni dell’entanglement si comportano come due monete che inspiegabilmente cadono sempre entrambe sulla stessa faccia. Invece di far comparire un’automobile, si potrebbe allora provare con una cosa più semplice. Un messaggio, ad esempio, codificato con una sequenza di 0 (testa) e 1 (croce). La sequenza esatta potrebbe essere letta allo stesso tempo a chilometri di distanza, realizzando la trasmissione istantanea di un segnale.
Però non funziona: le monete si mettono d’accordo tra loro, ma è impossibile prevedere su quale faccia si accordino. Dunque, l’entanglement non può essere usato per inviare segnali più veloci della luce e secondo molti fisici la relatività è salva.
Il guaio è che la non-località sbuca in tanti altri fenomeni previsti dalla fisica moderna: “in esperimenti in ambito quantistico, nei paradossi dei buchi neri, nella struttura su larga scala dell’universo, nel vortice delle collisioni tra particelle”, elenca Musser. ”In tutti questi esempi, la fisica entra in una specie di limbo ai confini della realtà”.
La fisica entra in una specie di limbo ai confini della realtà in esperimenti in ambito quantistico, nei paradossi dei buchi neri, nella struttura su larga scala dell’universo, nel vortice delle collisioni tra particelle.
C’è da capire la riluttanza dei fisici ad abbandonare la località. Fare scienza diventa molto più difficile. Secondo la teoria di Einstein, l’insuperabilità della velocità della luce è legata all’esistenza di un ordine cronologico tra gli eventi e dei rapporti di causa ed effetto. Superare la velocità della luce permetterebbe di tornare indietro e influenzare la nostra stessa realtà: uccidere il nonno e impedire la propria nascita, ad esempio. “Se c’è una cosa che le leggi della fisica devono fare è impedire le contraddizioni logiche, ed è proprio questo l’effetto del limite di velocità universale”.
Anche al riparo da certi paradossi, ammettere la non-località crea comunque notevoli problemi. Se due punti dello spazio-tempo lontani si influenzano, per capire cosa succede in un punto e in un istante determinato devo conoscere l’intera storia dell’intero universo. Ci sarebbe ancora spazio per la comprensione del mondo?
Un’oscillazione antica
Come Musser racconta molto bene, la battaglia tra fisica e non-località non inizia oggi. Già Zenone, Democrito e Aristotele si interrogavano sulla divisibilità di una realtà apparentemente continua, un problema strettamente legato alla località. Infatti, se la realtà non può essere scomposta in parti indipendenti, occorre considerarla sempre tutta insieme, senza distinguere una posizione dall’altra e un prima da un dopo. I paradossi di Zenone sull’impossibilità di dividere il continuo in una somma di elementi infinitesimi miravano proprio a questo. Aristotele non era d’accordo e rimise la località al suo posto: “per lui avere una posizione è quasi la definizione stessa di esistenza; non averla significa non esistere”, spiega Musser.
Newton invece riteneva che la forza di gravità si trasmettesse istantaneamente tra pianeti lontani e decise che della località si poteva anche fare a meno. Ma poi abbiamo sviluppato il cosiddetto “Modello Standard” con cui oggi spieghiamo il comportamento delle particelle elementari. Lì le interazioni diventano uno scambio di particelle dette bosoni tra altre particelle di materia dette fermioni, cioè interazioni tra vicini che viaggiano a velocità finita. Ora, sostiene Musser, le frontiere della fisica dall’entanglement ai buchi neri ci costringono a rimettere in discussione la nozione di spazio.
La seconda parte del racconto di Musser è dedicata alla difficile divulgazione delle teorie fisiche che provano a riconciliare fisica e non-località. La nuova fisica non prova a cancellare destra, sinistra, alto, basso, prima e dopo. Nella vita quotidiana, lo spazio-tempo tradizionale continua a funzionare piuttosto bene e “ci vediamo al bar fra un’ora” continua a essere un buon modo per darsi appuntamento. Ma sappiamo che in certe condizioni la nozione tradizionale di spazio può andare in crisi. Una teoria fisica fondamentale, dunque, deve superare l’idea kantiana che non sia possibile immaginare il mondo senza lo spazio.
La nuova fisica non prova a cancellare destra, sinistra, alto, basso, prima e dopo. Ma sappiamo che in certe condizioni la nozione tradizionale di spazio può andare in crisi.
Musser presenta teorie di frontiera come la teoria delle stringhe, la gravità quantistica a loop, la “grafità” quantistica. Questi modelli fanno emergere i concetti spazio-temporali di distanza, posizione, cronologia da componenti elementari che di per sé ne sono privi. Lo spazio-tempo cessa di essere una scenografia comune in cui ambientare le diverse rappresentazioni della realtà e diventa un risultato della rappresentazione stessa.
Una cosa del genere è già avvenuta con altri concetti apparentemente fondamentali, come la temperatura. Nel Diciannovesimo secolo si è capito che essa riflette il comportamento collettivo di insiemi numerosi di particelle e che non ha senso parlare di temperatura per le singole particelle. Analogamente, lo spazio-tempo sarebbe solo un risultato di come i costituenti fondamentali della natura si organizzano e interagiscono.
Tra fisica e metafisica
Si tratta di teorie affascinanti, ma che hanno il piccolo problema di non essere ancora falsificabili. Ovvero, non esistono ancora esperimenti che possano smentire la teoria delle stringhe, così come l’esperimento ideato da Bell ha escluso l’ipotesi delle variabili nascoste di Einstein. È legittimo chiedersi se una teoria che fa a meno dei trascendentali kantiani di spazio e tempo e che, per sua stessa ammissione, è molto lontana dalla verificabilità sperimentale, rientri nel campo della fisica o in quello della metafisica.
La maggior parte dei fisici mostra insofferenza per la speculazione filosofica (non tutti: quelli intervistati da Musser ci sguazzano), avversione ben riassunta in una frase spesso attribuita a Feynman: “la filosofia della scienza è utile agli scienziati quanto l’ornitologia agli uccelli”. Invece, la discussione metodologica sulla delimitazione del campo scientifico oggi ha senso più che mai. Sì, certo, serve a orientarsi tra teorie che rischiano di scollarsi troppo dall’esperienza e alla fine rivelarsi inutili. Ma è anche una banale questione di denaro.
Facciamo un esempio. Il Cern sta progettando un tunnel lungo cento chilometri a trecento metri di profondità, tra Francia e Svizzera, che passi sotto il Lago di Ginevra. Ospiterà magneti così potenti che il Cern stesso prevede di aver bisogno ancora di una decina di anni di ricerca e sviluppo per inventarli. Il costo previsto per la maxi-opera supera i venti miliardi di euro. Una specie di TAV per protoni.
La discussione metodologica e filosofica sulla delimitazione del campo scientifico oggi ha senso più che mai.
Una “follia” del genere servirà a mettere alla prova teorie che stanno, per così dire, a metà strada tra il Modello Standard e le speculazioni teoriche descritte da Musser. Il nuovo acceleratore dovrebbe scoprire se “dentro” il bosone di Higgs ci siano altre particelle, se tutte le forze dell’universo sono il risultato di una “supersimmetria”, se l’80% dell’universo è fatto di particelle pesanti e poco interagenti chiamate WIMP. Diciamo che si tratta di superare il Modello Standard attuale, pur senza arrivare a ridefinire spazio e tempo. Rispetto a Star Trek, sembra un obiettivo ragionevole.
Eppure, non tutti sono d’accordo che un acceleratore del genere sia una buona idea. La fisica tedesca Sabine Hossenfelder, ad esempio, ritiene nemmeno supersimmetria o WIMP abbiano raggiunto un grado di falsificabilità sufficiente. “Non sappiamo nemmeno se la materia oscura è fatta da particelle”, sostiene ad esempio. La scienziata sa di cosa parla, lei stessa lavora nel campo della gravità quantistica e ritiene che la scarsa attenzione al metodo scientifico abbia fatto deragliare la fisica teorica: cattive predizioni generano esperimenti falliti che, a loro volta, motivano teorie ancora meno fondate.
Il suo è solo un parere e centinaia di fisici teorici sono convinti del contrario. Probabilmente non sarà lei lo scoglio più duro per i progetti del Cern. Prima di tutto, i fisici dovranno convincere dell’opportunità di un progetto così ambizioso i governi di mezzo mondo. Sarà difficile soprattutto perché la Cina si è già offerta di realizzare la stessa mega-macchina a costi inferiori (sulla carta). In ogni caso, qualunque politico che vorrà opporsi al sogno dei fisici attingerà anche alle critiche di Hossenfelder, c’è da scommetterci. Al Cern dovranno forse prepararsi a confrontarsi con qualche sottosegretario sull’epistemologia delle teorie della materia oscura. Mostrarsi impreparati su questo terreno sarebbe davvero una figuraccia.