C’ è una crisi legata alle innovazioni digitali che si sta facendo largo, e che si concretizza in problemi cognitivi che, anche se non ricevono una diagnosi medica, sono comunque evidenti in uno stadio pre-clinico: deficit di attenzione, scarsa memoria, incapacità di regolare le emozioni, calo dell’empatia e del pensiero creativo. Perché sta avvenendo tutto ciò?
“Non è una crisi definita da una mancanza di informazioni, conoscenze o competenze”, ha scritto il docente di Neurologia e Psichiatria Adam Gazzaley in un lungo saggio pubblicato su OneZero. “Abbiamo fatto un buon lavoro nell’accumularle e tramandercele lungo i millenni. Piuttosto, è una crisi che riguarda ciò che ci rende umani: l’interazione dinamica tra il nostro cervello e l’ambiente che ci circonda; il ciclo onnipresente tra il modo in cui percepiamo i dintorni, integriamo questa informazione e agiamo su di essa”.
È una dinamica, quella tra cervello e ambiente, che nei nostri antenati primordiali aveva il compito di assicurarci la sopravvivenza permettendoci – tra le altre cose – di trovare le sostanze nutrienti ed evitare quelle tossiche. “È da qui che la cognizione umana è emersa per supportare il nostro successo in un ambiente che si è fatto sempre più complesso e competitivo: attenzione, memoria, percezione, creatività, immaginazione, ragionamento, capacità di prendere decisioni, regolazione dell’emozione e dell’aggressività, empatia, compassione e saggezza. Ed è in questi campi che prende forma la nostra crisi”, scrive sempre Gazzaley.
Il nostro cervello non è semplicemente riuscito a tenere il ritmo con i rapidi cambiamenti del nostro ambiente; in particolare con l’introduzione e l’ubiquità delle tecnologie dell’informazione. Nel nostro nucleo, noi umani siamo delle creature che per natura ricercano le informazioni. Il risultato è che un profondo cambiamento nel flusso delle informazioni avrà inevitabilmente degli effetti importanti e, come abbiamo ormai visto, molti di questi sono negativi.
In poche parole, il vecchio ambiente in cui ci siamo evoluti è andato. Il nuovo ambiente in cui ci troviamo oggi è completamente differente: è composto da informazioni che ci inondano costantemente, da stimoli ininterrotti (spesso sotto forma di notifiche), da cicli di ricompensa sempre più rapidi che portano con loro un’inevitabile insofferenza all’attesa e all’attenzione prolungata. Il nostro ambiente è stato radicalmente trasformato dalla tecnologia e questo pone nuove e intense sfide al nostro cervello, che non si è ancora adattato per fronteggiare tutto ciò senza subire potenti contraccolpi mentali e psicologici. Non basterà però attendere che l’evoluzione faccia il suo corso, perché nel frattempo l’innovazione tecnologica procede a un ritmo sempre più spedito: non abbiamo ancora fatto in tempo ad abituarci a internet, social network e smartphone e già ci stiamo affacciando su un mondo in cui, come scrive ancora Gazzaley, “ci troveremo immersi nella realtà virtuale aumentata, con le nostre interazioni guidate direttamente dall’intelligenza artificiale”.
Provando a delineare i tratti fondamentali dello scenario che ci troviamo di fronte, ne esce un quadro inquietante: studenti che si sentono in dovere di assumere farmaci per soddisfare le richieste sempre più estreme del mercato del lavoro che gli si staglia di fronte. Lavoratori che subiscono sulla loro pelle lo sfilacciamento della comunità e della classe sociale di appartenenza, trovandosi immersi in una competizione esasperata laddove un tempo c’era (maggiore) solidarietà, pagandone il prezzo anche in termini di solitudine. Dipendenza da farmaci stimolanti per tenere il ritmo richiesto dallo stesso mercato del lavoro e per sfruttare la produttività resa possibile dalle nuove tecnologie, forzando il nostro cervello a tenere il passo con innovazioni per le quali non è equipaggiato. La corda viene tirata finché non si spezza: provocando una crescente diffusione di ansia e depressione.
Il nostro ambiente è stato radicalmente trasformato dalla tecnologia e questo pone nuove e intense sfide al nostro cervello.
Del tema si sta discutendo ampiamente tra due fronti contrapposti. E torna forse più utile partire dagli esperti che negano che il nostro stile di vita sempre più rapido, competitivo e disgregato stia causando un aumento di disturbi mentali. Secondo i dati dell’Istituto per la valutazione e misurazione per la salute (IHME), nel 2017 le persone che nel mondo hanno sofferto d’ansia sono circa 300 milioni, 160 milioni sono invece quelle che hanno avuto gravi episodi depressivi e cento milioni sono state invece vittime della distimia (una forma depressiva più leggera). Nel complesso, sempre secondo l’IHME, 971 milioni di persone nel mondo (13% della popolazione) soffre di qualche forma di disturbo, tutte in aumento in termini assoluti negli ultimi trent’anni. Un aumento che, però, è appena superiore alla crescita della popolazione globale dal 1990 a oggi: “Tutti i modelli che abbiamo creato per i paesi ad alto reddito, nei quali esistono dati raccolti nel corso degli anni, mostrano che la diffusione non è cambiata, si è stabilizzata”, ha spiegato parlando con Internazionale il professore di Salute mentale dell’Università del Queensland (Australia) Harvey Whiteford.
Un altro aspetto da prendere in considerazione è che a far aumentare il numero delle diagnosi relative ai disturbi mentali potrebbe anche essere la destigmatizzazione di questi disturbi, oggi più socialmente accettati di quanto mai lo siano stati in passato: “Se ne parla molto e sempre più persone ricevono una terapia”, spiega ancora Whiteford. “I tassi di cura sono cresciuti. In Australia siamo passati dal trattare circa un terzo delle persone che hanno ricevuto la diagnosi a circa la metà di esse”.
Lo studio della IHME è solo uno dei tanti a negare che sia in corso un’epidemia di disturbi mentali. Ma come spesso avviene con gli studi statistici, ce ne sono altrettanti che affermano l’esatto contrario. I dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, per esempio, ribaltano quelli dell’IHME, in particolar modo quando si fa riferimento a un aumento di casi di disturbi mentali proporzionale alla crescita della popolazione. L’OMS parla infatti di un numero di persone che soffrono di ansia e depressione raddoppiato tra il 1990 e il 2013, mentre la popolazione nello stesso lasso di tempo è passata da 5,2 a 7,2 miliardi di abitanti. Altri esperti, inoltre, hanno direttamente messo in correlazione gli stravolgimenti del mondo del lavoro con questa possibile epidemia; facendo riferimento direttamente all’Italia.
La discussione è accesa: alcuni ricercatori negano che il nostro stile di vita sempre più rapido, competitivo e disgregato stia causando un aumento di disturbi mentali.
Gli ultimi dati dell’Istat, risalenti al 2018, hanno mostrato come il benessere psicologico sia in netta diminuzione sia tra i giovani sia tra gli adulti italiani: “Lo status economico, il genere, l’esclusione sociale in particolare dal mercato del lavoro influiscono sul benessere psicologico; in Italia la depressione, così come i suicidi, sono meno diffusi che nel resto d’Europa, anche se la crisi sembrerebbe aver peggiorato le condizioni già difficili delle generazioni più giovani”, scrive proprio l’Istituto di Statistica. Tutto ciò è confermato anche dai dati della SIFO (Società italiana di farmacia ospedaliera), secondo cui “i casi di disturbi dello spettro psicotico, del comportamento alimentare o della personalità sembrano essere in aumento tra i più giovani, talvolta anche in compresenza di abusi di sostanze”. A ulteriore dimostrazione, c’è il balzo mostruoso del reddito annuale prodotto dalle prestazioni psicologiche, passato in Italia negli ultimi vent’anni da 110 milioni di euro a circa 800 milioni (+600%).
Due studi inglesi citati da Oliver James ne Il Capitalista Egoista (Codice Edizioni, 2009) descrivono come i disturbi mentali siano quasi raddoppiati in Gran Bretagna tra le persone nate nel 1946 e quelle nate nel 1970. “Per esempio”, scrive Oliver James, “nel 1982 il 16% delle donne trentaseienni ha riportato di soffrire di “problemi di nervi, sentirsi giù, tristi o depresse”, mentre nel 2000 la cifra per le trentenni era del 29% (per gli uomini era l’8% nel 1982, il 13% nel 2000)”.
Basta la destigmatizzazione a spiegare queste spaventose impennate? Non secondo numerosi studi. Vale la pena citarne uno in particolare che, per quanto prodotto da una realtà “minore” (l’Ordine degli psicologi dell’Emilia Romagna), ha il merito di essere recente (24 aprile 2019). Nella ricerca si sottolineano “gli effetti, soprattutto psicologici, che si determinano quando un individuo non intravede un futuro per sé e per la propria giovane famiglia. La condizione di precariato lavorativo non rende instabile solo la situazione economica, ma mina anche lo stato psicologico delle persone”. Un altro recente dossier, stilato questa volta dall’Osservatorio della Salute, per spiegare la diffusione sempre maggiore di psicofarmaci evidenzia la necessità di “tener conto dell’aumento di questi farmaci in relazione ai mutamenti del contesto sociale, influenzati dalla crisi economica ancora in atto”.
Come dire: non è necessariamente la crisi economica in sé che scatena i disturbi mentali; ma è (anche) la crisi economica, la mancanza di prospettive e la precarietà estrema delle condizioni lavorative a rendere più probabile una “slatentizzazione” di questi disturbi in persone che hanno già una qualche predisposizione. Come ormai accertato, la predisposizione verso depressione o bipolarismo può rimanere latente nel corso di tutta la vita, senza manifestarsi in maniera clinica, oppure emergere più o meno all’improvviso. Un’emersione che può essere causata da abusi di sostanze, traumi, stress, violenza domestica, isolamento sociale e altro ancora. Ma proprio lo stress e l’isolamento sociale sono due delle conseguenze più evidenti dell’attuale struttura del mercato del lavoro ultraflessibile.
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o stress e l’isolamento sociale sono due delle conseguenze più evidenti dell’attuale struttura del mercato del lavoro ultraflessibile.
Poniamo allora il caso di una persona che non sa di essere a rischio di crisi maniaco-depressive che si laurea negli anni Ottanta. Troverà generalmente un impiego in tempi rapidi e probabilmente in linea con i suoi studi. Non solo: il suo ufficio sarà magari vicino a casa e ai suoi affetti, e il lavoro regolato con un contratto a tempo indeterminato. La sua vita ha una prospettiva netta e chiara, che consentirà anche di accedere senza troppe difficoltà a un mutuo per la casa. Magari sarà una vita noiosa, o non troppo soddisfacente, ma con tutta probabilità sarà una vita priva di quegli scossoni che possono far emergere i suoi disturbi latenti. Prendiamo adesso il caso di una persona che, anche in questo caso, non sa di essere a rischio di crisi maniaco-depressiva, che si è laureata nel 2019 e che ha di fronte a sé lavori precari che lo rendono vittima di una costante incertezza, a cui viene richiesto di fare costanti straordinari non pagati, che per migliorare la sua condizione deve magari emigrare all’estero e allontanarsi da amici e famiglia senza averne desiderio, e che non ha la possibilità di pianificare il suo futuro (anche attraverso l’acquisto di una casa). Chi dei due corre più rischi che la latente crisi maniaco-depressiva si manifesti? La domanda, ovviamente, è retorica. Le conseguenze della precarietà a cui siamo costretti, invece, possono essere tragiche.
Estratto da Technosapiens (D editore, 2021)