“I o so che la Terra è rotonda, perché ho visto l’ombra della Terra sulla Luna, e io credo nelle ombre”. La sentenza apocrifa di Magellano contiene la storia dell’astronomia. Noi associamo lo studio del cielo a quello degli astri luminosi che governano la notte, ma altrettanto importante è la luce che non c’è. Fu la previsione delle eclissi a provare che il calcolo e la scienza potevano ciò che la magia solo prometteva: prevedere il futuro. Cristoforo Colombo sfruttò le effemeridi di Regiomontano, che pronosticavano l’eclissi lunare del 1504, per sedurre i nativi americani. Quando Galilei vide il lato in ombra di Venere nel suo telescopio, confermò senza possibilità di ritorno che i pianeti si muovevano davvero intorno al Sole. Sempre grazie all’ombra di Venere, registrata da James Cook, nel 1771 abbiamo potuto calcolare l’ampiezza dell’orbita della Terra con una precisione di una parte su cento. Le linee scure che William Hyde Wollaston e Joseph von Fraunhofer osservarono nella luce solare sono l’ombra degli elementi che ne compongono l’atmosfera: la firma con la quale possiamo conoscere la composizione chimica di astri che non toccheremo mai.
Oggi gli astronomi usano le ombre per scoprire altri mondi: Il telescopio spaziale Kepler rimarrà nella storia per questo. Orbitando intorno al Sole ha osservato continuamente 145.000 stelle, e documentato come muta la loro luce nel tempo. Alcune di queste, a intervalli regolari di giorni o settimane, diventano appena più deboli per qualche ora, e poi tornano a brillare come prima. È il segno che un pianeta vi passa davanti, una minuscola eclissi a ogni orbita: questa ne comunica le dimensioni, la distanza dal sole – la possibilità che ospiti della vita. In sette anni e mezzo, Kepler ha scoperto più di 1300 pianeti, e nonostante sia piagato dalla vecchiaia (due dei quattro volani che ne regolavano l’orientazione si sono rotti, costringendo la NASA a una rocambolesca e ingegnosa modifica della missione per tenerlo in vita) continua a lavorare.
In mezzo al ticchettio regolare dei mondi extrasolari, l’occhio di Kepler ha trovato un’oscurità inattesa, irregolare, incomprensibile. Una stella intorno alla quale c’è qualcosa: ma cosa?
Ma, dice il poeta, ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne conosca la nostra filosofia. In mezzo al ticchettio regolare dei mondi extrasolari, l’occhio di Kepler ha trovato un’oscurità inattesa, irregolare, incomprensibile. Una stella intorno alla quale c’è qualcosa: ma cosa?
KIC 8462852, o per gli amici Tabby’s Star, non è certo un astro cospicuo. È una piccola stella giallo-bianca, poco più brillante del Sole. A 1480 anni luce da noi, è del tutto invisibile a occhio nudo. Ma Kepler ha misurato e registrato ogni minima fluttuazione della sua luminosità. La maggior parte dei dati di Kepler sono analizzati al computer per identificare automaticamente le regolari scalfitture della luminosità stellare che sono l’indizio di un nuovo pianeta. Siccome però la rete neurale del cervello umano continua a funzionare meglio, in molti casi, dei nostri algoritmi (uno stato di cose che prima o poi rientrerà), esiste un progetto, Planet Hunters, che permette a chiunque, con un minimo allenamento, di analizzare gli stessi dati con l’obiettivo di identificare pianeti sfuggiti ai calcolatori.
Sono i volontari di Planet Hunters i primi ad accorgersi che attorno a KIC 8462852 c’è qualcosa di molto strano. La sua luminosità varia in modo completamente caotico: può restare stabile per mesi, per poi crollare del 20% in poche ore, e tornare normale altrettanto rapidamente. Altre volte fluttua in modo praticamente casuale per settimane. Se un pianeta che transita davanti alla stella è regolare, monotono come un faro, questo è un gioco di ombre impazzito, come di una pianta agitata dal vento che sbatte davanti a un lampione. Di sicuro, qualsiasi cosa eclissi KIC 8462852, non può essere un pianeta: è troppo grande.
La palla passa agli scienziati che guidano i volontari di Planet Hunters e in particolare alla brillante ricercatrice di Yale Tabetha “Tabby” Boyajian. È in quel momento che KIC 8462852 diventa la “stella di Tabby”. Su centocinquantamila stelle osservate da Kepler, KIC 8462852 è l’unica che mostra un comportamento del genere. Si parte dall’ipotesi che sia un difetto del telescopio, interferenze da parte di astri sullo sfondo, o una variabilità intrinseca della stella. Non funziona. Deve esserci qualcosa che eclissa la stella, allora: è un’ombra. Anche qui però nessuno scenario “classico” sembra avere senso. Se KIC 8462852 per esempio fosse circondata da una turbolenta nube di polvere, provocata dalla distruzione catastrofica di qualche pianeta, dovremmo vedere il calore della nube scaldata dalla stella sotto forma di luce infrarossa. Non c’è nulla del genere. Nel 2015 Boyajian si arrende e pubblica un articolo dove passa in meticolosa rassegna ogni spiegazione. Solo l’ipotesi di un immane sciame di comete, forse dovuto alle perturbazioni gravitazionali di una stella vicina, resta parzialmente in piedi. Ma il dramma è evidente dal titolo dell’articolo (Where’s the flux?), in cui “Tabby” Boyajian nasconde elegantemente l’acronimo WTF, “what the fuck”. In inglese, l’equivalente di “ma che ca…”. Una limpida dichiarazione di sconcerto.
È solo l’inizio. Com’era la stella di Tabby, prima che Kepler la osservasse costantemente? Bradley Schaefer, fisico e astronomo della Louisiana State University, ha analizzato vecchie fotografie della stella di Tabby negli archivi degli osservatori, dal 1890 al 1989. Trovando che la luminosità della stella sta lentamente diminuendo da almeno più di un secolo. Fare analisi precise di luminosità di una stella lontana basandosi su lastre fotografiche precedenti la Prima Guerra Mondiale non è certo banale, e infatti il lavoro di Schaefer è stato ritenuto inaffidabile, finché un’analisi complessiva dei dati di Kepler non ha mostrato esattamente lo stesso andamento. La stella di Tabby sta diventando davvero più buia. L’ipotesi dello sciame di comete, precaria fin dall’inizio, è definitivamente in crisi.
L’astronomo Jason Wright, della Penn State University, ha fatto notare che il comportamento della stella di Tabby è completamente compatibile con quello che ci aspetteremmo da una civiltà extraterrestre che stia incapsulando il proprio Sole dentro una struttura artificiale.
Resta uno scenario: gli alieni. L’astronomo Jason Wright, della Penn State University, ha fatto notare che il comportamento della stella di Tabby è completamente compatibile con quello che ci aspetteremmo da una civiltà extraterrestre che stia incapsulando il proprio Sole dentro una struttura artificiale. Precisamente, una sfera di Dyson (dal fisico Freeman Dyson che ha descritto il concetto nel 1960; ma ispirato dal padre della fantascienza Olaf Stapledon, che lo immaginò nel 1937). Una sfera di Dyson è un qualsiasi tipo di “guscio” – in pratica uno sciame di oggetti – che circonda una stella, allo scopo di sfruttarne completamente l’energia. Secondo Dyson, la sfera potrebbe essere costruita smantellando letteralmente un pianeta come Giove. La superficie interna potrebbe sostenere una popolazione di migliaia di miliardi di individui, su una superficie milioni di volte maggiore di quella terrestre. Per quanto fantascientifico, è un concetto preso abbastanza seriamente dai cercatori di intelligenze aliene: se vogliamo, è un passaggio obbligato per una civiltà che voglia sfruttare al massimo le fonti di energia del proprio sistema solare.
Finora tutte le ricerche astronomiche di sfere di Dyson sono finite a mani vuote. Ma per Wright, “abbiamo in KIC 8462852 un sistema con tutti gli indizi di uno sciame di Dyson: eventi non periodici di profondità, durata e complessità arbitraria”. Col procedere della costruzione dovrebbe passare sempre meno luce, spiegando il lento offuscamento. Ricerche di segnali radio o comunicazioni luminose provenienti dalla stella sono partite subito: ma non hanno avuto nessun riscontro.
È possibile che intorno a KIC 8462852 brulichi un’opera di ingegneria su scala stellare: ma è plausibile? In verità la storia dell’astronomia dovrebbe imporci la cautela: quando Burnell e Hewish osservarono i segnali radio perfettamente regolari della prima pulsar, si baloccarono con l’idea che potesse essere un segnale artificiale: del resto sembra un radiofaro così regolare! Gli extraterrestri, in casi del genere, rappresentano una non-spiegazione: un jolly ex machina per qualsiasi dato che non riusciamo a interpretare, versione fantascientifica del “Dio tappabuchi”. Una soluzione antropomorfa, in cui proiettiamo più le nostre narrazioni del futuro che un vero senso scientifico.
È più probabile che si nasconda qualcosa di meglio di una civiltà extraterrestre: qualcosa che non riusciamo neanche a immaginare. Progetti come Kepler volevano scoprire pianeti come la Terra, nell’ansia di riconoscerci allo specchio. Invece abbiamo trovato un proliferare di mondi inimmaginabili: giganti gassosi arroventati dai propri soli, sistemi di anelli planetari che fanno sparire Saturno, super-Terre senza paragoni nel nostro Sistema Solare. La storia della stella di Tabby ci ricorda che quello che c’è là fuori non merita di essere conosciuto per confermare la nostra immaginazione, ma per espanderla. Dando ancora fiducia alle ombre.