M entre la mia motoslitta si faceva lentamente strada tra le creste ghiacciate del fiordo, che parevano onde sulla vasta copertura di ghiaccio marino, ero ipnotizzata dal monotono ronzio del motore; avevo l’impressione che fosse passata un’eternità. Simile a una delle tante lingue d’oceano che si incuneano nella costa verso Spitsbergen – la più grande isola norvegese nel magico arcipelago settentrionale delle Svalbard – il Van Meijenfjord è stato formato dall’inondazione di profonde valli modellate dai ghiacciai alla fine dell’ultimo periodo glaciale, circa 10.000 anni fa, quando le grandi calotte si sono sciolte e il livello del mare è aumentato.
La mia destinazione era la riva meridionale del Van Keulenfjord, l’insenatura più a sud, il che voleva dire prepararsi a due faticose traversate dell’oceano ghiacciato. Anche se il mio viso era avvolto da un berretto e da una sciarpa per proteggerlo dal freddo pungente, alle narici non poteva sfuggire l’odore denso e acre del fumo di benzina che usciva dallo scarico della motoslitta proprio davanti a me. Il mio petto premeva contro l’aria gelida e il pollice destro, intorpidito, spingeva con forza il pulsante dell’acceleratore per tenere testa al mezzo che a gran velocità mi precedeva sul ghiaccio. Mentre i miei occhi erano fissi sulla motoslitta dieci metri più avanti – una sorta di entità nera e ronzante che ondeggiava sul terreno irregolare – la mia mente veniva divorata dalla paura di perdere la concentrazione e di non accorgermi di eventuali corpi estranei sul ghiaccio, che avrebbero potuto rovesciare il mio mezzo e sbalzarmi via dalla sella come una bambola di pezza. Viaggiare in motoslitta era una delle tante abilità che avevo dovuto acquisire al mio arrivo alle Svalbard. (…)
Attraversare la superficie ghiacciata dei fiordi poteva essere insidioso ed era meglio farlo durante un breve periodo in primavera, quando il sole riappariva dopo la lunga oscurità invernale ma il ghiaccio era ancora abbastanza solido da garantire un passaggio relativamente sicuro da una striscia di terra all’altra. Ma il pericolo era comunque sempre dietro l’angolo. Di tanto in tanto, incontravamo tratti in cui il ghiaccio marino si era spostato e aveva aperto piccole crepe. La superficie grumosa del ghiaccio lasciava il posto a pozze d’acqua, sotto le quali non si era mai certi se ci fosse altro ghiaccio o acque oceaniche profonde e fredde. L’atteggiamento dei miei compagni di viaggio norvegesi, di fronte a questi tratti liquidi, era semplicemente quello di guidare più velocemente – e questo valeva per la maggior parte degli ostacoli, dai crepacci nei ghiacciai alle pozze di ghiaccio nei fiordi. Mentre premevi nervosamente l’acceleratore per spingerti in avanti, potevi avvertire la buca in cui la parte posteriore della motoslitta scivolava durante la corsa; il segnale era una specie di tonfo ovattato. I cingoli anteriori riuscivano a malapena a far presa sul terreno e a trascinare il veicolo in avanti, piuttosto che giù nella buca.
Ogni volta che vedevo una sagoma gialla e indistinta che annaspava nella nebbia o un puntino biancastro all’orizzonte, mi chiedevo: “È un orso? Sta venendo verso di me?”.
Era terrificante, ma in un certo senso esaltante. E poi c’era l’immancabile faccenda degli orsi… Le Svalbard sono una delle roccaforti del grande orso del ghiaccio, “Isbjørn” in norvegese, “Nanuk” per gli inuit della costa canadese o “orso polare” per tutto il resto del mondo. Il suo nome scientifico, Ursus maritimus, esprime forse in modo più lampante la sua dipendenza dall’oceano come fonte di sostentamento. Mentre lavoravo alle Svalbard, questo animale potente e solitario non era mai lontano dai miei pensieri. Ogni volta che vedevo una sagoma gialla e indistinta che annaspava nella nebbia o un puntino biancastro all’orizzonte, mi chiedevo: “È un orso? Sta venendo verso di me?”. Strizzavo gli occhi per metterlo a fuoco e capire se avesse il caratteristico corpo gigantesco e la piccola testa bianca tipica dell’orso del ghiaccio o se invece fosse soltanto una renna (il più delle volte si trattava della seconda).
I fiordi delle Svalbard sono anfratti vitali per gli orsi polari: il ghiaccio marino è un porto sicuro e un luogo di riposo per la loro preda più importante, la foca dagli anelli. Il lungo collo e la velocità dell’orso lo rendono adatto a pescare le foche nei buchi del ghiaccio o a bloccarle mentre nuotano. Delle otto specie di orso presenti sulla Terra, l’orso polare è il più carnivoro ed è quindi ovvia la scarsa prospettiva che ha di sopravvivere in un Artico senza ghiaccio – prospettiva, questa, molto probabile per la fine del XXI secolo. In assenza di ghiaccio, infatti, gli orsi perdono una piattaforma vitale per gli spostamenti e l’accesso alla loro principale fonte di cibo.
Solo cinquant’anni fa, l’orso polare veniva cacciato indiscriminatamente, anche dai turisti che gli sparavano durante le escursioni nell’Artico. La diminuzione del numero di esemplari ha portato, all’inizio degli anni settanta, a uno storico accordo per la protezione della specie, siglato dai principali paesi che ospitavano orsi sul loro territorio (Canada, Danimarca, Norvegia, USA e l’allora URSS). Ora l’animale è anche classificato come “vulnerabile” dalla IUCN, Unione internazionale per la Conservazione della Natura. Così, sebbene alle Svalbard si debba sempre avere con sé una pistola, se un orso venisse ucciso, l’onere di dimostrare che era necessario sopprimerlo, perché ci si trovava in pericolo di vita, ricadrebbe su chi ha sparato. Philip Pullman, nella sua trilogia Queste oscure materie, li ha ribattezzati “panserbjørne” o meglio “orsi corazzati”. Il primo volume dei tre, La bussola d’oro, è ambientato in una delle isole Svalbard abbastanza diversa da quella che conosco, ma evoca una magia molto familiare. L’unica armatura che possiedono i veri orsi polari delle Svalbard è l’istinto di caccia affinato in milioni di anni di evoluzione, peculiarità che sta diventando rapidamente inutile a causa del ritiro del ghiaccio marino.
Ho visto molti orsi alle Svalbard, alcuni da lontano, altri da vicino, altri forse troppo da vicino. Ricordo ogni incontro, ogni singolo orso, la miscela inebriante di paura e meraviglia, unite alla costante sensazione di essere un’intrusa in quella terra di ghiacci. C’è qualcosa, nei magnifici orsi, che attira la nostra attenzione: è la loro libertà di vagare fiduciosi sulla terra e nell’oceano, senza confini. Questo, forse, rispecchia la nostra volontà di autodeterminazione ed è anche il motivo per cui ci sentiamo così emotivamente legati al loro destino.
Una volta mi è capitato di fissare i piccoli occhi scuri di un orso polare, a pochi centimetri dai miei, attraverso la fragile finestra di plexiglas di una minuscola capanna in cui aveva cercato di entrare pochi secondi prima. La porta di legno dell’ingresso avrebbe dovuto essere sicura, ma, nel mio caso, era attaccata ai cardini solo da uno spago arancione sfilacciato. Una sera ero arrivata in motoslitta molto tardi e, nella confusione, avevo tagliato il pezzo di spago, ma non solo: avevo tagliato anche il mio dito; la lama aveva sfiorato l’osso e il sangue era sprizzato ovunque. In quel momento ero con due compagni: l’allegro gallese Martyn Tranter (il mio supervisore durante il dottorato) e Brummie Rich Hodgkins, dall’umorismo più pungente. Nessuno dei due poteva sopportare la vista del sangue, così ero stata abbandonata a me stessa e mi ero dovuta arrangiare per medicare il dito ferito. Il fragoroso russare di Martyn che veniva dalla cuccetta di fronte alla mia mi aveva tenuta sveglia e per questo ero riuscita a sentire un rumore sospetto: sembrava che qualcuno stesse graffiando la parete. Con un balzo ero saltata fuori dal mio lettino e mi ero trovata davanti l’orso, che teneva le gigantesche zampe anteriori appoggiate contro la porta della capanna. Avrebbe potuto entrare facilmente, ma per fortuna non aveva fame. Dopo aver sbirciato attraverso le finestre, aveva iniziato alcuni rituali di accoppiamento abbastanza vigorosi con una partner delle sue stesse dimensioni, a pochi metri di distanza dalla nostra casetta. “Scommetto che nemmeno David Attenborough ha mai visto una cosa simile”, avevo pensato.
(…)
Una mattina, sul presto, stavo allegramente preparando il porridge, mentre tutti gli altri dormivano nella capanna e nelle tende all’esterno. Improvvisamente, un botto enorme perforò l’aria silenziosa del mattino, riverberando lungo le ripide pareti del fiordo e seguito poco dopo da un forte scoppio. Il primo rumore era stato causato da un filo elettrico, il secondo da un colpo di fucile di uno dei nostri due Mauser tedeschi calibro 308 (con l’anno 1945 inciso sulla canna). Un’orsa femmina adulta era entrata nel campo con un cucciolo al seguito. Dave Garbett, il nostro assistente di campo, sentendo il rumore dello scalpiccio fuori dalla sua tenda, aveva socchiuso leggermente l’apertura e aveva visto la madre che si dirigeva verso di lui. Aveva afferrato il fucile per sparare sopra le teste degli orsi, come avvertimento (nell’agitazione generale aveva anche strappato il telo della tenda). Io, intanto, assistevo alla scena, stringendo fra le mani tremanti il cucchiaio di legno e osservando, senza proferire verbo, la coppia di orsi che, spaventata, correva goffamente attraverso il campo, prima di dirigersi finalmente verso il fiordo.
La mia principale ossessione durante le visite al Finsterwalderbreen era questa: poiché c’è acqua sul letto del ghiacciaio, può quest’acqua, in qualche modo, supportare la vita di qualche organismo?
Quando non mi preoccupavo degli orsi, la mia principale ossessione durante le visite successive al Finsterwalderbreen era questa: poiché c’è acqua sul letto del ghiacciaio, può quest’acqua, in qualche modo, supportare la vita di qualche organismo? Oggi la luce del sole favorisce la maggior parte della vita sulla Terra: attraverso il processo di fotosintesi, le piante usano l’energia solare per combinare l’anidride carbonica con l’acqua e creare molecole organiche – inizialmente glucosio, ma alla fine anche proteine e grassi. Le sostanze nutritive che consumiamo come esseri umani, derivano in ultima analisi dalle piante: le mangiamo consumando la carne e il latte delle mucche e di altri animali che a loro volta le mangiano, e così via. Tutto è riconducibile alle piante e, dunque, al sole.
Sotto i ghiacciai, però, non c’è luce, ma solo roccia frantumata e (come ora sappiamo) acqua – quindi, come potrebbe la vita sopravvivere in quel profondo e buio mondo sotterraneo? Questa domanda si collega alla questione del ferro e dello zolfo legati nella pirite (l’oro degli stolti). Entrambi questi elementi sono presenti sulla Terra dalla notte dei tempi, ovvero da diversi miliardi di anni fa. Gli scienziati credono che un certo tipo di microbo chiamato “chemiotrofo”, che può usare l’energia chimica al posto della luce, abbia prosperato sulla Terra nell’antichità. Ciò potrebbe essere avvenuto perché molte reazioni chimiche terrestri rilasciano energia e alcuni microbi hanno trovato un modo per riutilizzarla. Per esempio, quando la pirite reagisce con l’ossigeno, magari alla base di un ghiacciaio, lo zolfo all’interno della roccia viene convertito in solfato per mezzo di una “reazione di ossidazione”. Questa reazione genera energia e un microbo può sfruttarla per sopravvivere e crescere. In sostanza, il microbo si ciba della roccia.
Avevo un ardente desiderio di conoscere un dettaglio che avrebbe potuto aiutarmi a capire come i microbi potessero sopravvivere. Quanto pesavano gli ioni solfato diffusi nella corrente che sgorgava dall’area proglaciale del Finsterwalderbreen? Può sembrare una domanda strana, ma gli atomi di alcuni elementi, come lo zolfo e l’ossigeno (che compongono lo ione “solfato”, SO42-), possono avere masse diverse. Sulla Terra, ci sono due tipi principali di atomi di ossigeno: uno pesante e uno leggero. Questi sono conosciuti come “isotopi”, dalle parole greche isos (uguale) e topos (luogo); hanno masse diverse pur essendo, di fatto, lo stesso elemento e occupando la medesima posizione nella tavola periodica.
L’ossigeno nelle molecole d’acqua presenti nel ghiaccio dei ghiacciai è generalmente leggero. Questo riflette l’iter che le molecole d’acqua percorrono prima di depositarsi su un ghiacciaio sotto forma di neve. Se considerate che l’acqua dell’oceano contiene molte molecole d’acqua leggere e alcune pesanti, quando quest’acqua evapora, è più facile per le molecole più leggere lasciare l’oceano ed entrare nell’aria. Quando l’aria, carica di umidità, viaggia verso le cime delle montagne e verso i poli, gli atomi di ossigeno pesanti si disperdono più facilmente nella pioggia o nella neve, nelle vicinanze della loro fonte oceanica. Al contrario, per ciò che è leggero, è più semplice raggiungere i ghiacciai in alto.
D’altra parte, l’ossigeno presente sotto forma di gas nella nostra atmosfera è molto pesante perché, quando le piante e gli animali usano l’ossigeno nell’aria per ossidare il carbonio organico e generare energia, catturano preferibilmente l’ossigeno leggero presente nell’aria, lasciando in essa l’ossigeno pesante. Le piante sulla terraferma e negli oceani contribuiscono a compensare questo effetto, poiché assorbono l’acqua (che è relativamente leggera) e restituiscono in atmosfera alcune delle sue molecole di ossigeno. Ad Arolla, gli scienziati avevano già segnalato che l’ossigeno, presente nel solfato dei ghiacciai in deflusso, era leggero, il che significava che lo zolfo nella pirite non avrebbe potuto essere convertito in solfato semplicemente usando l’ossigeno atmosferico. Quindi, doveva provenire dall’acqua (leggera) della fusione glaciale.
L’unico modo in cui ciò poteva accadere era grazie all’aiuto di un intelligente gruppo di microbi che sono in grado di usare un tipo specifico di ferro (simile alla ruggine) per ossidare i solfuri. Così facendo, sfruttano l’energia chimica rilasciata durante la reazione per catturare l’anidride carbonica dalle acque di fusione e produrre molecole organiche per le loro cellule. È possibile che batteri come questi fossero presenti sulla Terra in tempi primordiali e oggi, sulle Alpi, si possono trovare sul fondo dei ghiacciai.
Eseguii alcuni test sull’acqua del Finsterwalderbreen per vedere se lì le cose fossero andate nello stesso modo. Al contrario, in quel caso, il solfato conteneva sia ossigeno pesante sia zolfo pesante (che ha appunto forme leggere e pesanti). Tutto ciò era strano e poteva accadere solo se un altro tipo di microbo, un batterio solfato-riduttore, avesse utilizzato il solfato come strumento per ossidare il carbonio organico e ottenere energia. Questi particolari microbi sono quelli che chiamiamo eterotrofi – dal greco hetero (altro) e troph (nutriente) – ovvero microbi che devono contare sul cibo prodotto da altri. Prosperano in luoghi dove non c’è ossigeno; li si trova spesso nelle discariche. I batteri solfato-riduttori preferiscono consumare solfato contenente zolfo leggero (che convertono in idrogeno solforato, all’origine dell’odore di uova marce che si trova anche nelle discariche) e ossigeno, lasciando intatti alcuni o tutti i solfati con zolfo pesante e ossigeno. Queste scoperte mi fecero capire che le acque di fusione del Finsterwalderbreen provenivano da un ambiente molto più povero di ossigeno di quello di Arolla, oltre a dimostrare che alcuni microbi prosperavano in quelle condizioni.
Non si può più pensare ai ghiacciai come a terre desolate, congelate e sterili: la realtà è che sono parte della biosfera terrestre tanto quanto le foreste e gli oceani.
Alle Svalbard, riempiendo bottigliette con acqua di fusione, feci molte scoperte. Mi resi conto che c’era dell’acqua che scorreva sul letto di un ghiacciaio artico, infiltrandosi in percorsi inattesi e, in alcuni casi, per sentieri che si rivelarono poi “esplosivi”, necessari al flusso idrico per aggirare la bocca del ghiacciaio. E trovai pure prove di vita attiva in quell’acqua: organismi microscopici che si erano adattati a vivere nel freddo, senza ossigeno, sopravvivendo grazie all’energia prodotta da reazioni chimiche.
Questa fu una rivelazione, un’indicazione lampante che l’acqua di fusione prodotta su milioni di chilometri quadrati di ghiacciai nel Canada settentrionale, in Scandinavia, in Groenlandia e nell’Artico russo non scorreva direttamente sul ghiaccio, ma precipitava in profondità, dove lubrificava la roccia, permettendo al ghiaccio polare di scivolare sul suo letto. Ciò era utile a spiegare in che modo i ghiacciai si muovevano, triturando le loro piattaforme rocciose e alimentando i giganteschi fiumi glaciali con sedimenti fini e fertili. Significava, inoltre, che una vasta area del pianeta sotto i ghiacciai, precedentemente ritenuta inerte e di fatto morta, era invece molto viva. Non si può più pensare ai ghiacciai come a terre desolate, congelate e sterili: la realtà è che sono parte della biosfera terrestre tanto quanto le foreste e gli oceani.
Estratto da Il mondo dove è bianco. Viaggio nelle terre dei ghiacciai tra allarme e stupore di Jemma Wadham (Aboca edizioni 2022, traduzione di Laura Calosso).