A lla COP28 di Dubai una piccola vittoria, va detto, c’è stata. Più sul piano simbolico che nel concreto, ma non per questo meno importante. Dopo trent’anni di conferenze sul clima, infatti, è stato scritto nero su bianco dalla comunità internazionale – 198 nazioni, fra cui gli stessi Paesi produttori di petrolio, gas e carbone – che la principale causa della crisi climatica sono i combustibili fossili. Pochi giorni prima, all’inizio della conferenza, il presidente della COP ma anche CEO della compagnia petrolifera statale emiratina ADNOC Sultan Ahmed Al Jaber ha dovuto rettificare l’affermazione secondo cui non ci sarebbe nessuna scienza “che dica che l’abbandono graduale dei combustibili fossili permetterà di mantenere l’aumento di temperature entro 1,5 gradi”. Queste sue parole, risalenti a un’intervista di qualche tempo prima, erano state diffuse dal Centre for Climate Reporting. Le sue smentite e scuse in conferenza stampa hanno fatto il giro del mondo.
Sarà più difficile, d’ora in poi, per un ministro dell’ambiente di qualsiasi nazione, affermare di non essere sicuro dell’origine antropica del cambiamento climatico. Solo quest’estate, il nostro Pichetto Fratin aveva detto a tal proposito, riferendosi ai combustibili fossili: “È quello? Non è quello? Io non lo so”. Ecco, ora lo deve sapere per forza. Il documento finale della COP28 sconfessa apertamente il negazionismo climatico, o almeno quello più esplicito o meno ipocrita. Toglie l’ultimo barlume di appoggio a chi ancora aveva il coraggio di dire che il riscaldamento globale non esiste, oppure che non è causato direttamente dall’essere umano e in particolare dall’utilizzo dei combustibili fossili. Dopo trent’anni quello raggiunto è, finalmente, il grado zero da cui partire. Eppure, se vediamo il negazionismo come una strategia più che una convinzione, allora ci accorgiamo che sono solo le tattiche a cambiare.
In Rigenerazione. Per una democrazia capace di futuro (Castelvecchi, 2022) il sociologo Marco Deriu ha coniato il concetto di “negazionismo di secondo tipo” o “subnegazionismo”, mentre in un capitolo della collettanea curata da Greta Thunberg The Climate Book (Mondadori, 2022), il climatologo Kevin Anderson parla apertamente di “nuovo negazionismo”, “riferibile all’atteggiamento cognitivo e politico di coloro che non negano il cambiamento climatico e la sua gravità come fatto in sé, ma poi si limitano a considerare solamente azioni e interventi di tipo tecnologico, economico, di mercato, completamente inappropriati o visibilmente fuori misura rispetto alla radicalità della sfida climatica ed ecologica. La percezione della realtà, dunque, non viene del tutto rimossa ma ‘anestetizzata’ in modo da risultare tutto sommato ‘gestibile’ e ‘amministrabile’ così da congelare l’angoscia e il sentimento di inadeguatezza e di impotenza”.
Il documento finale della COP 28 sconfessa apertamente il negazionismo climatico, o almeno quello più esplicito o meno ipocrita.
Insomma, si assottigliano le schiere del negazionismo tout court e altri meno espliciti negazionismi prendono voce. Ma facciamo un passo indietro: il negazionismo climatico è una strategia di chi? Un rapporto pubblicato da Greenpeace Italia e ReCommon uscito a settembre 2023 e intitolato “Eni sapeva” rivela come degli studi interni risalenti agli anni Settanta e Ottanta – quando l’Eni, fra l’altro, era un’azienda completamente statale – mettessero già in luce “i possibili impatti distruttivi sul clima del pianeta derivanti dalla combustione delle fonti fossili”. Come ampiamente documentato dagli storici della scienza Naomi Oreskes ed Erik Conway nel loro Mercanti di dubbi (Edizioni Ambiente, 2019), anche altre grosse aziende petrolifere erano a conoscenza del problema, tanto che a partire dalla fine degli anni Ottanta Exxon coordinò una campagna internazionale che puntava a mettere in luce le incertezze della scienza del clima e in ombra decenni di studi sulla gravità dei rischi. Da allora Big Oil ha soffiato sul fuoco del negazionismo per scongiurare uno spostamento del mercato su fonti meno inquinanti.
Ora, come sappiamo una volta data una notizia falsa è molto difficile smentirla, e dopo l’avvento dei social questo meccanismo ha reso particolarmente semplice soffiare su quei fuochi. Più il rumore della scienza si faceva forte e unanime, più screditarlo richiedeva armi pesanti come il complottismo, ma a quel punto probabilmente non c’era nemmeno più troppo bisogno di soffiare: gli scettici si alimentavano a vicenda. Gli sforzi di lobbying erano più utili in politica o durante le conferenze sul clima, affinché non si nominassero i combustibili fossili nei rapporti finali e le norme adottate non fossero mai troppo severe. Il diffondersi di movimenti ambientalisti ampi e l’aumento di frequenza degli eventi estremi degli ultimi due anni hanno convinto però la grande maggioranza degli esseri umani della realtà della crisi climatica, e sempre più anche della sua origine antropica. Ed ecco che la narrazione cambia: Eni si tinge di verde con le pubblicità di Plenitude, il CEO di ADNOC afferma la necessità di allontanarsi gradualmente dall’utilizzo dei combustibili fossili, la comunità politica internazionale sigla l’origine antropica della crisi che gli scienziati davano per assodata da tempo.
Proliferano perciò nuove tattiche, che possono andare sotto il nome di negazionismo di secondo grado, o subnegazionismo, come proposto appunto da Marco Deriu e da altri. In un’intervista uscita a settembre su Vox, il climatologo dell’Università della Pennsylvania Michael Mann ne classifica diversi tipi: divisionismo, ritardismo, catastrofismo, deviazione, minimizzazione. A identificarli non è stato Mann, che però li ha messi in fila sotto lo stesso cappello della disinformazione. Lui le chiama D-word perché in inglese cominciano tutte con la D come l’originale denialism. Cominciamo con delaying, il “ritardismo”: lo troviamo chiaro e tondo in quello stesso documento finale di COP28 uscito il 13 dicembre a Dubai, dove si fa riferimento ai sistemi di cattura e stoccaggio di CO2. Trasmette l’idea che non ci si debba precipitare ad abbandonare il fossile perché in futuro questi impianti saranno in grado di eliminare gran parte delle emissioni grazie a sistemi di cattura e stoccaggio del carbonio atmosferico (CCS). In realtà, le stime ci dicono che al momento questi impianti, per arrivare a essere efficaci su ampia scala, consumerebbero troppa energia ed è molto difficile dire per certo se potremo farci affidamento.
Se vediamo il negazionismo come una strategia più che una convinzione, allora ci accorgiamo che sono solo le tattiche a cambiare.
Per non dover ricorrere a una drastica riduzione dei consumi, sempre in quel documento si parla di aumentare la produzione di energia da fissione, anche se costruire un’intera flotta di nuove centrali nucleari richiederebbe molti anni mentre i fossili andrebbero abbandonati da subito – discorsi simili riguardano la fusione nucleare, ancora di là da venire, e l’ingegneria climatica, che secondo la maggior parte degli scienziati pone davvero troppi rischi. Di certezze su cui fare affidamento nel presente, però, ce ne sono: si chiamano fonti rinnovabili e riduzione dei consumi, ed è sulla realtà presente che ci si dovrebbe basare. Il ritardismo consiste invece nell’ipotecare il futuro in nome di soluzioni che forse troveremo ma che per ora non ci sono: nel frattempo continuiamo a estrarre e bruciare combustibili fossili e, se bisogna abbandonarli, “sì, ma di morte lenta”.
Minimazzare (downplaying) l’impatto o i rischi del cambiamento climatico è un’altra tattica molto efficace. Negli ultimi trent’anni ci siamo fatti raccontare che gli impatti non sarebbero stati poi così gravi, del resto ci sembravano ascrivibili a un generico futuro. Ora che li vediamo da vicino possiamo comunque credere che la situazione non peggiorerà poi troppo, che gli scienziati esagerano, che Greta Thunberg è una specie di Cassandra. Ma possiamo anche dire che quelle stesse tecnologie di cui parlavamo prima risolveranno tutti i nostri problemi, e che se ci sarà siccità basterà inseminare le nuvole per stimolare la pioggia in un clima più caldo, come già si fa in Arabia Saudita o a Panama.
Il “divisionismo” (dividing) punta invece sul ben noto principio del dividi et impera: Mann si riferisce a divisioni interne fra gli ambientalisti, come fra vegani e non vegani o fra chi sceglie di non usare più auto o aerei e chi invece continua ad avere una vita “normale”. In realtà mi sembra più interessante interpretare il divisionismo climatico da una prospettiva di classe: raccontare che la lotta alla crisi climatica è appannaggio della sinistra benestante, o mettere l’accento sulle disuguaglianze a cui porterebbe una transizione energetica, aggiungendo magari che si perderanno posti di lavoro e che saranno i più svantaggiati a rimetterci. E questa narrazione è efficace perché in parte è vera: leggi come quella francese da cui nacquero i gilet jaunes, che alzava indiscriminatamente il prezzo del carburante proprio dopo aver tagliato alcune tratte ferroviarie di provincia, non fanno altro che seminare timore fra chi la macchina non può fare a meno di usarla e a pagare la benzina ci arriva appena. Non è diverso dallo storico ricatto fra salute e lavoro che esperienze come l’ILVA di Taranto ci ricordano: la salute (propria o del pianeta) la sceglie solo chi può permetterselo, a meno che non si esca da questa dicotomia.
Si assottigliano le schiere del negazionismo tout court e altri meno espliciti negazionismi prendono voce.
La deviazione (deviating) è uno dei subnegazionismi più efficaci perché attecchisce anche sulla sensibilità degli stessi ambientalisti. Si tratta di spostare l’attenzione dalle emissioni delle grandi aziende a quelle del singolo cittadino; dalla (sovra)produzione di un bene all’acquisto da parte del consumatore; dal sistema economico al comportamento dell’individuo. Deviare il discorso è raccontare che il problema è che io salga o no su quell’aereo, invece di dire che quell’aereo non dovrebbe volare – il che non vuol dire eliminare tutti gli aerei, ma ridurli drasticamente e sostituire dove possibile con tratte ferroviarie. Concentrarsi sull’acquisto consapevole (e spesso costoso) e sulla dieta vegana, anziché puntare i fari sull’industria intensiva dell’agroalimentare e sulla grande distribuzione; sulla raccolta differenziata certosina della plastica, quando in ogni caso al mondo ne viene riciclato solo il 10%, e il punto è che non se ne dovrebbe produrre così tanta.
La dieta vegana, la raccolta differenziata, prendere il treno invece dell’aereo sono tutti comportamenti molto importanti se pensati collettivamente, ma restano gocce se non si agisce a monte. L’individualismo dà l’illusione di avere la situazione sotto controllo, il compiacimento di assumere un comportamento virtuoso e il diritto di giudicare gli altri anche senza prendere in considerazione il costo di certe scelte. Un’osservazione interessante proposta da Mann è che questa ondata di deviazionismo climatico fa leva sull’idea che l’azione per il clima consista nel controllare lo stile di vita delle persone – uno spauracchio della destra, soprattutto americana. Il punto, comunque, è che l’individualismo funziona perché è rassicurante e ha il potere di capovolgere i pesi e sposare l’attenzione sugli effetti anziché sulle cause.
Ultima D-word, o forma di nuovo negazionismo climatico, è il catastrofismo (doomism). Dire che ormai è troppo tardi è un ottimo invito all’inazione e raccontare che quel+1,5 gradi è uno spartiacque fra il tutto e il niente è scorretto e pericoloso. Non siamo né l’ultima generazione sulla terra né l’ultima che può fare qualcosa. Una volta superato quel il grado e mezzo di aumento della temperatura globale media rispetto i livelli precedenti alla rivoluzione industriale ci sarà in ogni caso da lottare per allontanarsene il meno possibile: ogni centesimo di grado è importante, ogni contributo è fondamentale ora e lo sarà in futuro. Il catastrofismo, inoltre, neutralizza il discorso politico insito nella lotta alla crisi climatica: racconta una catastrofe uguale per tutti, nascondendo l’impatto ben differenziato su fasce di popolazione più agiate e fasce più vulnerabili, luoghi del mondo più ricchi e quindi capaci di adattarsi e zone più povere ed esposte agli effetti del cambiamento climatico.
Il ritardismo consiste invece nell’ipotecare il futuro in nome di soluzioni che forse troveremo ma che per ora non ci sono.
Abbiamo detto all’inizio che il negazionismo, in tutte le sue forme vecchie e nuove, è una strategia più che una convinzione: a volte può essere stata portata avanti con vere e proprie campagne di disinformazione, delegittimazione e greenwashing, ma spesso la banalità del male consiste semplicemente nel soffiare su fuochi già accesi, sulle paure e sui sospetti, in alcuni casi legittimi. Per questo ha senso chiedersi chi siano i negazionisti. Per cominciare, ci sono certamente quelli che hanno molto da perdere, come le grandi compagnie che fondano il loro business sui combustibili fossili, ma anche i colossi della tecnologia, dell’agroalimentare, della grande distribuzione, della logistica. Loro alleati possono essere i politici: alcuni perché hanno interessi personali, altri perché magari temono che il proprio Paese ci rimetta nella transizione energetica se intanto le altre nazioni continuano a investire e guadagnare sul fossile.
Poi ci sono le persone, con i loro fuochi su cui soffiare. C’è chi ha qualcosa da perdere, come uno stile di vita che effettivamente ha o anche solo che vorrebbe conquistare. Tenderà a minimizzare, a pensare che le conseguenze non saranno poi così gravi o almeno non lo riguarderanno troppo da vicino, o a volersi fidare di tecnologie futuribili, o ancora a dirsi che in fondo siamo sopravvissuti ai totalitarismi, alla guerra fredda, alla crisi petrolifera, e ora pure a una pandemia: in qualche modo supereremo anche questa. E poi c’è chi ha paura di essere schiacciato dalla transizione e chi, più o meno consapevolmente, annusa che il capitalismo verde rischia di costruire una società ancora più diseguale. E allora osteggerà la transizione temendo di perdere il lavoro ma anche di non potersi più permettere un weekend fuori porta perché i treni costano troppo. E odierà chi lo giudica perché ogni tanto prende un aereo. Magari non si renderà conto del fatto che i costi della crisi ricadranno su di lui con un peso ancora maggiore, ma le sue paure sono legittime. Infine c’è la maggioranza silenziosa, quella che ritiene, anche fosse tutto vero, di non poterci fare niente e che dunque esuli dalla propria vita. Per stare in pace con l’impotenza ci si rivolge, a seconda dei casi, a un semplice disinteresse che minimizza il problema, fino ad arrivare al massimo complottismo o, per qualcuno, a un aperto catastrofismo.
Forse allora la lotta per il clima dovrebbe farsi carico della propria radicalità, e raccontare una storia diversa, di giustizia climatica e redistribuzione. Un mondo in cui un Macron prima implementi (e non cancelli) i treni nelle zone di provincia, e poi alzi il prezzo del carburante; in cui si accompagnino gli agricoltori nella transizione ecologica: forse così ci saranno meno trattori a bloccare le strade, perché gli agricoltori non manifestano contro la transizione, ma contro il costo per loro insostenibile della produzione; in cui non si debba scegliere fra salute e lavoro ma si possa avere entrambi. Soprattutto, in cui un cambio di sistema economico e di produzione, oltre a migliorare la salute dell’ambiente, migliori (anziché peggiorare) lo stile di vita delle persone e sia di per sé redistributivo sul piano economico ma anche sanitario, e anzi redistribuisca anche il tempo, il benessere, l’aria pulita. Questa transizione, oltre a essere l’unica giusta, è anche l’unica efficace.